Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16452 del 01/07/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 16452 Anno 2013
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA

sul ricorso 22163-2010 proposto da:
PAC DIVITELISEO DI RITA DI VITO & C S.N.C.
01636640599, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
ALFREDO FUSCO 104, presso lo studio dell’avvocato
CAIAFA ANTONIO, che la rappresenta e difende giusta
2013

delega in atti;
– ricorrente –

1823

contro

FILIPPI SILVANA, elettivamente domiciliata in ROMA,
o

VIA LIVORNO 15, presso lo studio dell’avvocato SPREGA

Data pubblicazione: 01/07/2013

FABIO, rappresentata e difesa dall’avvocato BRACCIALE
FRANCO, giusta procura speciale notarile in atti;
– resistente con procura –

avverso la sentenza n. 8190/2008 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 14/11/2009, r.g.n. 1675/2006;

udienza del 21/05/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato CAIAFA ANTONIO;
udito l’Avvocato BRACCIALE FRANCO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 14.11.2009, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento del
gravame della società PAC Diviteliseo di Rita Di Vito & C s.n.c. ed in parziale riforma della

sentenza del Tribunale di Latina, liquidava le spese di lite del primo grado nella minor
somma di euro 4500,00, di cui euro 2250,00 per onorari, confermando nel resto la
pronunzia di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da Filippi Silvana volta

26.9.1998 presso l’azienda, ove era stata investita da un muletto. Rilevava che il termine
di prescrizione quinquennale era stato interrotto dalla notifica del primo ricorso introduttivo
del giudizio del 26.11.1999 e con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione
indirizzata anche all’appellante prima della scadenza del quinquennio e che il datore di
lavoro aveva violato le prescrizioni poste dall’art. 33 d. Igs. 626/94 in materia di
collocazione e segnalazione delle vie di circolazione dei pedoni e dei veicoli, non
potendosi considerare imprevedibile ed abnorme la condotta dalla Filippi. Non vi era stata,
poi, specifica contestazione delle voci di danno liquidate, sicchè la determinazione
quantitativa di quest’ultimo andava confermata. Per la cassazione della decisione ricorre
la società, affidando l’impugnazione a quattro motivi.
La Filippi ha rilasciato procura speciale per la sola discussione orale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art.
2943 c .c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., evidenziando che il primo ricorso era stato
notificato, in data 26.11.1999, ad ente societario diverso e che anche la richiesta del
tentativo obbligatorio di conciliazione, di cui all’art. 410, secondo comma, c.p.c., era stata
inviata alla D.P.L. di Latina e ad altro ente.
Con il secondo motivo, si duole della omessa e, comunque, insufficiente motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., censurando l’
omessa valutazione della circostanza della imprevedibilità della condotta della Filippi.
,

Assume al riguardo la mancanza di una adeguata esplicitazione dell’iter motivazionale
1

al risarcimento dei danni subiti in occasione di un infortunio sul lavoro occorsole il

seguito dal giudice del gravame, che non chiarisce i termini in cui si sarebbe concretizzata
la violazione della normativa antinfortunistica richiamata.
Con il terzo motivo, la società ulteriormente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e quindi vizio
motivazionale, ascrivendo alla decisione la mancata spiegazione dell’iter argomentativo
sulla cui base ha ritenuto l’insussistenza di una condotta imprevedibile ed abnorme della

potesse essere valutata.
Infine, con l’ultimo motivo, censura la decisione per l’omessa ed insufficiente motivazione
circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., osservando
che non fosse indispensabile la contestazione delle singole voci di danno ai fini della
contestazione dell’entità di risarcimento.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, premesso che le disposizioni che prevedono condizioni di
procedibilità, costituendo deroga all’esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito
dall’art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo, deve ritenersi che,
ai fini dell’espletamento del tentativo di conciliazione, il quale ai sensi dell’art. 412 cod.
proc. civ. costituisce condizione di procedibilità della domanda, sia sufficiente, in base a
quanto disposto dall’art. 410-bis cod. proc. civ., la presentazione della richiesta all’organo
istituito presso le Direzioni provinciali del lavoro, considerandosi comunque espletato il
tentativo di conciliazione decorsi sessanta giorni dalla presentazione, a prescindere
dall’awenuta comunicazione della richiesta stessa alla controparte. Tale comunicazione è,
invece, necessaria, ai sensi dell’art. 410, comma secondo, cod. proc. civ., perché si
verifichi la interruzione della prescrizione (Cfr. Cass. 121.1.2004 n. 967). In particolare, il
secondo comma dell’attuale art. 410 c.p.c. dispone che la comunicazione della richiesta di
espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la
durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il
decorso di ogni termine di decadenza. Attesa, inoltre, la natura ricettizia degli atti
interruttivi della prescrizione e considerato che il legislatore parla di interruzione e non di
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Filippi, non essendo stato chiarito il motivo per il quale la deposizione del teste Triglio non

sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione che interrompe la
prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza è quella fatta al datore di
lavoro (cfr. Cass. 18.10.2005 n. 20153). Nel caso all’esame la decisione impugnata ha
evidenziato che la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione era stata indirizzata
non solo alla DPL di Latina ma anche alla società appellante, come documentato in atti,
prima della scadenza del quinquennio e tanto basta per disattendere la censura, non

merito riportate e non essendo neanche precisato se la doglianza sia stata ritualmente
avanzata nella fase di merito.
I vizi motivazionali dedotti con i successivi tre motivi appaiono caratterizzati tutti da
assoluta genericità.
Quanto alla prospettata omessa specificazione delle circostanze che avrebbero indotto il
giudice del gravame a ritenere violata la normativa antinfortunistica richiamata, è
sufficiente rilevare che, non configurando l’art. 2087 cod. civ. un’ipotesi di responsabilità
oggettiva – in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli
obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze
sperimentali o tecniche del momento – ai fini dell’accertamento della responsabilità del
datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività
lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come
pure di allegare la novicità dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, senza
che occorra, in mancanza di qualsivoglia disposizione in tal senso, anche la indicazione
delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il
lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di
avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass.
2.9.2003 n. 12789 e, più di recente, Cass. 17.2.2009 n. 3788). Gravando, quindi, sul
datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere
di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le
cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo, coerentemente la Corte
del merito, nel confermare la decisione di primo grado con riguardo alla responsabilità
datoriale, ha rilevato, richiamando peraltro la relazione dell’Ispettore dell’ASL confermata
in sede di escussione testimoniale, la violazione delle prescrizioni poste dall’art. 33 del d.
3

essendo precisato alcun elemento che valga ad inficiare le argomentazioni della Corte del

Igs. 626/1994 riguardanti la collocazione e la segnalazione delle vie di circolazione dei
pedoni e dei veicoli. Ha ritenuto pertanto raggiunta la prova della inadeguatezza degli
strumenti di prevenzione predisposti dal datore di lavoro e ciò è sufficiente per ritenere del
tutto priva di fondamento la censura proposta.
Anche con riguardo al terzo motivo, posto che le norme dettate in tema di prevenzione
degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette

da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, e che pertanto il
datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, salvo che la
condotta di quest’ultimo presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza
rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed
eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (cfr., tra le altre, Cass.
14.3.2006 n. 5493, Cass. 16253/2004), non risulta che l’iter argomentativo attraverso il
quale la Corte ha ritenuto di escludere una tale evenienza sia stato idoneamente
censurato, sotto il profilo del dedotto vizio motivazionale. Ed invero, a prescindere dalla
circostanza che anche l’accertata imprudenza della lavoratrice non avrebbe condotto a
conseguenze diverse in relazione ai principi giuridici affermati, una volta ritenuto che non
era stata predisposta dal datore di lavoro adeguata segnalazione delle vie di circolazione
dei veicoli e dei pedoni, non risulta chiarito se non in termini di assoluta genericità, il
motivo per il quale la testimonianza del teste Truglio, ritenuto inattendibile dal giudice del
gravame, avrebbe rivestito i caratteri della decisività ai fini di una ricostruzione della
vicenda diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, mancando ogni
riferimento agli elementi fattuali sui quali tale teste era stato chiamato a deporre.
Infine, l’ulteriore censura in ordine alla quantificazione del danno risulta prospettata
anch’essa in termini di assoluta genericità, in quanto non è idonea a confutare l’assunto
del giudice del gravame che aveva reputato apodittica la contestazione avanzata in merito
dalla società, senza riferimento alle singole voci di danno ed ai criteri di relativa
quantificazione, non essendo ammissibile una censura in sede di appello priva dei
connotati della specificità.
Alla luce di tali considerazioni deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
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a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche

Le spese seguono la soccombenza della società e vanno liquidate in favore della Filippi
limitatamente a quelle sostenute per la difesa apprestata in sede di discussione, nella
misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite

come per legge.
Così deciso in Roma il 21.5.2013

del presente giudizio, liquidate in euro 1500,00 per compensi professionali, oltre accessori

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