Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16431 del 27/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/07/2011, (ud. 06/04/2011, dep. 27/07/2011), n.16431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AUTOCENTRO RENDENA S.N.C, di POLLINI OSVALDO & C. con sede in

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, e

da

P.O. e V.M., quali soci, rappresentati e

difesi, giusta delega a margine del ricorso, dall’Avv. TIEGHI

ROBERTO, elettivamente domiciliati nel relativo studio in Roma, Via

Sicilia, 66;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

nei cui Uffici in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– intimata –

Avverso la sentenza n.73/08 della Commissione Tributaria di Secondo

Grado di Trento – Sezione n. 01, in data 21.07.2008, depositata il 22

settembre 2008;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06

aprile 2011 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Sentito l’Avv. Roberto Tieghi, per i ricorrenti;

Sentito, altresì, l’Avv. Sergio Fiorentino, dell’Avvocatura Generale

dello Stato, per l’Agenzia Entrate;

Udito, pure, il P.M. dr.ssa ZENO Immacolata, che ha concluso per il

rigetto del ricorso e l’inammissibilità dell’undicesimo motivo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I contribuenti in epigrafe indicati impugnavano in sede giurisdizionale gli avvisi di accertamento, ai fini IVA ed IRPEF per gli anni 2002 e 2003, con cui la competente Agenzia recuperava a tassazione nei confronti della società e per entrambi i periodi, maggiore IVA, connessa all’abuso del regime del margine e, a seguito di rideterminazione in aumento dei ricavi, l’IRPEF connessa al reddito di partecipazione, dovuta dai soci P. e V. per l’anno 2003. L’adita Commissione tributaria di primo grado di Trento, previa riunione dei ricorsi, distintamente proposti, li accoglieva.

La Commissione Tributaria di Secondo Grado di Trento, con la decisione in epigrafe indicata ed in questa sede impugnata, pronunciando sull’appello proposto dall’Agenzia, lo accoglieva, come da relativo dispositivo.

Con ricorso notificato il 22 giugno 2009, i contribuenti hanno chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’intimata Agenzia, ha depositato atto di costituzione, al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

I ricorrenti hanno, successivamente, depositato istanza e memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La CTR ha accolto l’appello dell’Agenzia, ritenendo: con riferimento all’applicato “regime del margine”, che male avevano fatto i Giudici di primo grado a ritenere che, nel caso, sussistesse il requisito oggettivo per il diritto alla detrazione dell’IVA, sulla base della conforme annotazione, contenuta nelle fatture dei fornitori, dal momento che, alla stregua delle emergenze dei libretti di circolazione, era agevole desumere che il cedente non poteva utilizzare il particolare regime, dal momento che da detti documenti “risultava che gli originari intestatari dei veicoli svolgevano attività di autonoleggio e quindi avevano esercitato su tali beni il diritto alla detrazione dell’IVA”; peraltro, trattandosi di norma agevolativa, il contribuente avrebbe dovuto offrire la prova del proprio assunto ed, oltretutto, usando la dovuta diligenza avrebbe potuto acquisire tutti gli elementi utili per avere contezza che il particolare regime non poteva essere applicato.

In merito alla interposizione fittizia delle società Autorete RG e Bricar, la CTR ha ritenuto fondata la pretesa fiscale, tenuto conto che le operazioni fatturate non erano state effettuate e l’IVA non era stata versata, che questa Corte in pregresse decisioni (n. 2847/2008) ha riconosciuto che la mera correttezza formale della contabilità non può trasformarsi in escamotage per eludere il fisco, per cui ove l’Amministrazione offra validi elementi per dimostrare l’inesistenza delle operazioni fatturate, l’onere di provare la sussistenza delle operazioni grava sul contribuente;

infine, che il contribuente non poteva non essere a conoscenza della illegittimità dei comportamenti, stante il rapporto diretto con i soggetti interposti e l’utilità conseguita.

In ordine alla violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35, la pretesa fiscale è stata ritenuta fondata, limitatamente a quello tra i tre immobili, per il quale non risultava effettuata alcuna comunicazione dell’avvenuta chiusura.

Quanto alla ripresa a tassazione dei redditi dei soci, ha evidenziato che non poteva essere condiviso l’operato del primo giudice, – che aveva ritenuto trattarsi di compensi erogati nel 2002, e quindi erroneamente imputati nel 2003 -, dal momento che i prelievi risultavano effettuati e quindi percepiti dai soci nell’anno 2003.

in relazione, infine, all’omessa contabilizzazione di cassa, i Giudici di appello hanno evidenziato che la circostanza che il conto cassa evidenziasse saldi negativi dimostrava l’esistenza di disponibilità (liquidità), derivante da ricavi riscossi e non contabilizzati; e ciò perchè i pagamenti a mezzo cassa non possono mai superare la disponibilità esistente in un dato momento”.

I contribuenti propongono UNDICI mezzi:

Con il primo ed il secondo motivo censurano l’impugnata sentenza, sotto un duplice profilo, per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 41 del 1995, art. 36 e ss., convertito in L. n. 85 del 1995, che disciplinano il c.d. “regime del margine”.

Trattasi di doglianze infondate.

Rileva, in vero, il Collegio che la questione giuridica, posta dai mezzi vada, anzitutto, esaminata tenendo conto del condiviso principio, da ultimo, affermato in tema di abuso del diritto e secondo cui “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensi1 nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione” (Cass. n. 30055/2008, n. 10257/2008, n. 8772/2008, n. 20398/2005, n. 1372/2011), ed onera il contribuente di provare i presupposti di fatto, legittimanti l’applicazione dello speciale regime (Cass. n. 14381/2007, 13559/2007, SS.UU. n. 27619/2006 e n. 30057/2008).

La decisione impugnata, sul punto, va confermata, risultando in linea con i richiamati principi, avendo argomentato, per un verso, che gravava sulla contribuente – che non vi aveva ottemperato – l’onere di provare la sussistenza dei presupposti applicativi del particolare regime, ed avendo evidenziato, sotto altro profilo, che alla stregua della documentazione in atti (libretti di circolazione contenenti l’annotazione che gli originar intestatari dei veicoli svolgevano attività di autonoleggio a quindi avevano esercitato su tali beni il diritto alla detrazione IVA), la contribuente era in grado di verificare che non sussistevano i presupposti per l’applicazione del regime del margine alle relative operazioni di compravendita e che, quindi, erano a ritenersi strumentali e prive di rilevanza le annotazioni di segno diverso, apposte sulle relative fatture. A diverso opinamento, peraltro, non inducono le considerazioni svolte con i due mezzi in esame, tenuto conto che, il presupposto indefettibile perchè le disposizioni di legge possano trovare applicazione, è dato dal fatto che si tratti di una operazione vera e reale e non già inesistente, ovvero diversa da quella rappresentata nella documentazione fiscale. Ciò è stato anche affermato con riferimento al disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, il quale – nel prevedere, allo scopo di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della detrazione, che, se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, “l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – da un lato incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità, e, dall’altro, incide indirettamente, in combinato disposto con l’art. 19, comma 1, e art. 26, comma 3, dello stesso D.P.R., anche sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del suo presupposto, e cioè dell’acquisto (o dell’importazione) di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione” (Cass. n.12353/2005, n. 7289/2001).

Alla stregua dei trascritti principi e delle norme, anche costituzionali, ivi richiamate, deve ritenersi che, nel caso, in cui parte contribuente, avvalendosi della speciale procedura del regime del margine, prevista dal D.L. n. 41 del 1995, art. 36 e ss., si è sottratta al pagamento dell’imposta dovuta, con operazioni elusive, e segnatamente, utilizzando fatture, relative ad operazioni, cui con risultava applicabile il particolare regime, come risultante dalla documentazione in possesso degli stessi contribuenti, i primi due mezzi, dalla stessa proposti, devono ritenersi infondati.

Nè a diverse conclusioni possono indurre le argomentazioni svolte in tali mezzi, facenti riferimento ai principi affermati dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee e dalla Corte di Cassazione, tenuto conto del fatto che gli stessi, per un verso, risultano superati da quelli anzi trascritti, e sotto altro profilo, che assumono a fondamento il ben diverso presupposto della realtà e legittimità delle operazioni ed in ogni caso, la buona fede del contribuente, nel caso, come rilevato, insussistenti. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., sostenendosi che l’onere della prova, in tema di regime del margine, graverebbe sull’Agenzia Entrate, non trattandosi di regime agevolativo.

Il mezzo è infondato, non solo perchè disattende l’anzi richiamato principio, in tema di abuso del diritto, ma pure sulla base del condiviso orientamento giurisprudenziale, dal quale discende un principio di generale applicazione, per il quale, in tema di IVA, nel caso in cui l’Amministrazione contesti l’inesistenza delle operazioni, – dalla cui fatturazione sia derivata una indebita detrazione od una illegittima esenzione, – e fornisca, pure, attendibili riscontri indiziar sulla inesistenza e strumentalità delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare la legittimità della detrazione o della sussistenza dei presupposti per godere di uno speciale regime fiscale(Cass. n. 2847/2008, n. 1727/2007, n. 1953/2007).

Nel caso, stante la specifica e documentata contestazione dell’Amministrazione, – facente riferimento agli elementi desumibili dai libretti di circolazione degli autoveicoli, – le fatture, che, in assenza dei relativi presupposti, contenevano l’attestazione della riconducibilità delle relative operazioni al regime del margine, devono ritenersi priva di validità agli effetti di che trattasi, in relazione alla relativa inidoneità a rappresentare l’operazione realmente fatturata, dal momento che gli autoveicoli oggetto dei trasferimenti non possedevano le prescritte caratteristiche e qualità.

Con il quarto mezzo, la decisione d’appello viene censurata per insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo, consistente nel qualificare, apoditticamente, agevolato il regime del margine e, quindi, per avere ritenuto, immotivamente, che l’onere della prova ne risultasse invertito e posto a carico del contribuente.

Trattasi di doglianza infondata, tenuto conto, per un verso, che le argomentazioni decisive e gli elementi, (pag. 4 rigo 25 e seg.ti) alla cui stregua la CTR ha escluso l’applicabilità del regime del margine, sono state individuate nella insussistenza (desunta dai libretti di circolazione e dalla interposizione di società cartiere) dei relativi presupposti, e sotto altro profilo, che la sentenza riferisce, peraltro genericamente, “ai regimi speciali favorevoli”, tale essendo stato considerato, con valutazione sotto il profilo logico formale corretta, quello del “regime del margine”, stante che alla relativa stregua, viene sottoposto a tassazione, non l’intero valore del bene trasferito, – secondo il normale regime IVA, – bensì solo il margine di guadagno, dato dalla differenza tra il prezzo di acquisto di un bene, aumentato delle eventuali spese accessorie e di riparazione, ed il corrispettivo realizzato dal venditore.

Con il quinto, si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia su domanda proposta dalla parte.

Con il sesto motivo si denuncia violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, commi 2 e 3, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2.

Entrambi i mezzi, che stante la connessione si trattano congiuntamente, devono ritenersi infondati, sulla base del condiviso principio secondo cui “La parte concretamente vittoriosa nel merito non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare eccezioni o questioni che risultano superate o assorbite; essa è, tuttavia, tenuta a riproporre le une e le altre in modo espresso fino alla precisazione delle conclusioni, operando altrimenti la presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., con conseguente formazione del giudicato implicito” (Cass. n. 27570/2005, n. 12696/2001, n. 17888/1998). Risulta, infatti, che parte ricorrente non si è attenuta a tale principio, dal momento che non ha riproposto in appello, in modo espresso, la domanda subordinata, che era rimasta assorbita in primo grado, limitandosi ad un generico richiamo di “tutte le motivazioni di cui al ricorso introduttivo”, e delle “memorie depositate”.

Per l’effetto, operando la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., sulla questione doveva ritenersi formato il giudicato implicito, con la conseguente preclusione, per il Giudice di appello, di conoscere e pronunciare. Con il settimo mezzo ci si duole per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, non avendo la CTR tenuto conto dell’orientamento di questa Corte e della Corte di Giustizia UE, di riconoscere “il diritto del cessionario di detrarre l’IVA assolta sugli acquisti, anche nel caso in cui il cedente abbia posto in essere la vendita in frode alla legge e non abbia versato l’IVA all’erario”.

Trattasi di doglianza infondata, in base ai principi anzi richiamati, applicati in sede di esame dei primi due mezzi.

Ritiene, il Collegio che la decisione impugnata, al riguardo, risulti ossequiosa del quadro normativo di riferimento ed, altresì, coerente all’orientamento giurisprudenziale nazionale e comunitario formatosi da ultimo, stante la verifica, effettuata dal Giudice di merito, che ha acclarato l’interposizione fittizia delle società Autorete RG e Bricar e quindi l’inesistenza soggettiva delle fatture e l’indetraibilità dell’IVA. Peraltro, i Giudici di merito, hanno, pure, considerato l’impossibilità, anche agli effetti di escludere l’applicazione di certo orientamento della giurisprudenza comunitaria, di riconoscere, in capo all’odierna parte ricorrente, uno stato di buona fede, stante la “prossimità e contiguità al falso negozio” – che logicamente ne presupponeva la piena consapevolezza e condivisione -, rendendo indebito il connesso lucro. Deve, in buona sostanza ritenersi che il comportamento di parte ricorrente, ragionevolmente, sia stato ritenuto non essere stato improntato agli ordinar canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1377 e 1375 c.c., – in virtù dei quali il cessionario è tenuto al controllo dei libretti di circolazione dei veicoli ed a non intrattenere rapporti e/o svolgere transazioni commerciali con soggetti che operino nel campo della mera interposizione fittizia e che, quindi, non hanno assoggettato ad imposta i loro acquisti, – e ciò in applicazione del condiviso orientamento giurisprudenziale, fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo, che discende dagli stessi principi costituzionali (Cass. n. 10257/2008, n. 25374/2008, n. 3057/2008).

Con l’ottavo mezzo la sentenza di appello viene censurata per insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Il motivo, tenuto conto della correttezza, sul piano logico – formale, della motivazione della decisione impugnata, risulta formulato in spregio a consolidato orientamento giurisprudenziale.

E’ stato, infatti, affermato che, in sede di ricorso per cassazione, la parte “ha l’onere di indicare in modo esaustivo le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione, in quanto il detto ricorso deve risultare autosufficiente e, quindi, contenere in sè tutti gli elementi che diano al Giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata” (Cass. n. 849/2002, n. 2613/2001, n. 9558/1997).

D’altronde, costituisce, pure, pacifico principio quello secondo cui “per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza” (Cass. n. 9368/2006, n. 1014/2006, n. 22979/2004).

Nel caso, il mezzo non risulta formulato in conformità a detti principi, dal momento che viene criticato l’operato del giudice di appello nel valutare le emergenze processali, ma non vengono indicati gli elementi pretermessi, idonei a giustificare una diversa decisione.

Con il nono motivo, si prospetta la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la CTR ritenuto e dichiarato, erroneamente, che gravasse sulla parte contribuente l’onere di provare l’inesistenza dell’interposizione fittizia.

Il mezzo va respinto in base a condiviso orientamento giurisprudenziale.

E’ stato, infatti, affermato che “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente mediante l’esibizione dei documenti contabili legittimanti, i quali non possono provenire da un soggetto inesistente nè riferirsi a soggetti in essi non indicati, non assumendo alcun rilievo, in proposito, neppure la buona fede del contribuente, tenuto a contrastare concretamente la pretesa dell’Ufficio” (Cass. n. 1727/2007, n. 6341/2002, n. 15228/2001).

E’ stato, altresì, testualmente affermato, proprio nella sentenza (Cass. n.2847/2008) che i Giudici di appello hanno posto a base del loro decisum, “che quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza delle operazioni fatturate, incombe sempre al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti e recuperabili a tassazione come appunto avvenuto nel caso”.

Conforme a diritto e, dunque, da confermare risulta, allora, la statuizione, – basata sulla gravità degli elementi indiziari offerti e sulla mancata contestazione (Cass. n. 1540/2007, n. 5488/2006, n. 2273/2005) dell’affermata inesistenza delle operazioni, per essere stata solo rivendicata “la mancata conoscenza o partecipazione alla frode posta in essere dalle due società cedenti”, a nulla rilevando il fatto che il Giudice di appello abbia, erroneamente, riportato il principio ivi affermato, sostituendo alla espressione effettivamente utilizzata dalla Cassazione nella citata pronuncia “quando l’Amministrazione fornisce attendibili riscontri indiziari”, l’altra che si legge nella sentenza impugnata “qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova”. Con il decimo mezzo, l’impugnata sentenza viene censurata per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 5 bis, deducendosene l’erroneità, per avere confermato la sanzione applicata per l’omessa comunicazione della chiusura dei locali siti nel comune di (OMISSIS), pur trattandosi di mera violazione formale. La doglianza va ritenuta inammissibile in base al condiviso principio, applicato in sede di esame del quinto e del sesto motivo del ricorso, secondo cui, “La parte concretamente vittoriosa nel merito non ha l’onere di proporre appello incidentale per richiamare eccezioni o questioni che risultano superate o assorbite; essa e1, tuttavìa, tenuta a riproporre le une e le altre in modo espresso fino alla precisazione delle conclusioni, operando altrimenti la presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., con conseguente formazione del giudicato implicito” (Cass. n. 27570/2005, n. 12696/2001, n. 17888/1998).

La domanda relativa alla sanzione, che era rimasta assorbita in primo grado, in esito all’accoglimento del ricorso di parte contribuente, non risulta riproposta in appello, in modo espresso.

Per l’effetto, operando la presunzione di rinuncia ex art. 346 c.p.c., sulla questione deve ritenersi formato il giudicato implicito.

Con l’ultimo motivo si deduce motivazione insufficiente sul fatto controverso e decisivo, relativo al prelevamento di somme da parte dei soci P. e V., che sarebbero state, erroneamente, considerate reddito di collaborazione coordinata e continuativa ed imputate all’esercizio 2003, mentre andavano riferite al periodo d’imposta 2002.

Il mezzo, tenuto conto della correttezza, sul piano logico-formale, della motivazione della decisione impugnata, sembra formulato in spregio al già richiamato ed applicato principio, secondo cui “per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza” (Cass. n. 9368/2006, n. 1014/2006, n. 22979/2004). La censura non risulta formulata in ossequio al trascritto principio, dal momento che non indica gli elementi pretermessi, in ipotesi idonei a comprovare la diversa realtà fattuale e, quindi, a giustificare una diversa decisione.

Peraltro, risulta logica la deduzione della CTR,- la quale avendo verificato che alla data del 31.12.2002 sul conto “Fondo trattamento fine mandato amministratore” risultava accantonata la somma di Euro 150.000.000, la quale l’1 gennaio 2003 veniva fatta confluire in altro conto riserva da condono all’uopo acceso, – ha ragionevolmente ritenuto che il prelevamento della detta somma, operato dai soci- amministratori, fosse avvenuto in tale ultima data e tra gli stessi distribuito in conto spettanze. Conclusivamente il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate, tenuto conto dell’attività defensionale orale, svolta dall’Avvocatura dello Stato alla pubblica udienza, in complessivi Euro cinquemila per onorario, oltre spese prenotate a debito.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore dell’Agenzia Entrate, delle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro cinquemilacento, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2011

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