Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16428 del 27/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 27/07/2011, (ud. 06/04/2011, dep. 27/07/2011), n.16428

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

nei cui Uffici in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– ricorrente –

contro

ITALCEMENTI – FABBRICHE RIUNITE CEMENTI SPA, con sede in (OMISSIS),

in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e

difesa, giusta procura speciale autenticata dal Notaio Calarco di

Bergamo in data 27.11.2007 rep n.36413, dagli Avv.ti BERLIRI CLAUDIO,

Raffaello Lupi e Giuseppe Marino;

– controricorrente e ricorrente in via incidentale –

Avverso la sentenza n.280/63/2006 della Commissione Tributaria

Regionale di Milano – Sezione Staccata di Brescia n. 63, in data

04.07.2006, depositata il 12/09/2006;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06

aprile 2011 dal Relatore Dott. Antonio Di Blasi;

Sentito, per l’Agenzia Entrate, l’Avv. Sergio Fiorentino,

dell’Avvocatura Generale dello Stato;

Sentiti, altresì, per la Italcementi Spa, gli Avv.ti Claudio Berliri

Raffaello Lupi;

Udito, puro, il P.M. dr.ssa ZENO Immacolata, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto di quello

incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società contribuente in epigrafe indicata impugnava in sede giurisdizionale gli avvisi di accertamento, ai fini IRPEG, ILOR ed IRAP, per gli anni 1997, 1998 e 1999, con cui la competente Agenzia rettificava, aumentandolo, il reddito d’impresa dichiarato. In particolare, ciò faceva, recuperando a tassazione per tutti e tre gli anni, la svalutazione della partecipazione in una società lussemburghese, in quanto ritenuta operazione elusiva, ed effettuando altre riprese relative ai singoli anni di imposta.

L’adita CTP di Bergamo, accoglieva il ricorso relativo all’anno 1997, e rideterminava le rettifiche fiscali in aumento in L. 2.481.704.619, per il 1998, ed in L. 886.437.542 per il 1999.

L’Agenzia appellava tale decisione, rilevandone la contraddittorietà in quanto, per un verso, aveva considerato illegittimo l’annullamento in autotutela dei precedenti avvisi e, dall’altro aveva esaminato nel merito i nuovi atti impositivi.

La società, a sua volta, controdeduceva e proponeva impugnazione incidentale, deducendo che la pretesa fiscale era a ritenersi inammissibile ed infondata e, in via incidentale, chiedeva dichiararsi la decadenza dell’Amministrazione dal potere impositivo, in quanto la società aveva già presentato dichiarazione integrativa semplice, e, comunque, rilevando la nullità del provvedimento di autotutela, per difetto di motivazione.

La CTR, con la decisione in epigrafe indicata ed in questa sede impugnata, accoglieva l’appello incidentale della società, limitatamente agli anni 1997 e 1998 e confermava, nel resto, la decisione di prime cure, rigettando l’impugnazione principale.

Con ricorso notificato il 31-10/05-11/2007, l’Agenzia Entrate ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’intimata società, giusto controricorso notificato il 10.12.2007, ha chiesto che il ricorso principale venga rigettato e che, in accoglimento della contestuale impugnazione incidentale, affidata a due mezzi, venga riconosciuta la deducibilità dei costi sopportati per l’acquisto di programmi informatici utilizzati per servizi anche alle società controllate.

La società ha depositato memoria, datata 18.03.2011, con la quale ha ulteriormente illustrato le proprie ragioni.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disposta la riunione dei due ricorsi, iscritti nel R.G. ai nn. 27503 e 31368 dell’anno 2007, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza. La CTR ha accolto l’appello incidentale della contribuente nei termini seguenti:

Ha ritenuto valida la manifestazione di volontà espressa dall’Amministrazione con l’annullamento, in autotutela, delle riprese relative agli anni 1997 e 1998, ritenendo, al riguardo, cessata la materia del contendere.

Relativamente ai reiterati accertamenti degli anni 1997 e 1998 ha ritenuto l’Amministrazione decaduta dal potere impositivo, per avere riemesso gli accertamenti dopo il termine di cui all’art. 43, tenuto conto che, avendo la società presentato la domanda di condono, non era applicabile la proroga biennale del termine.

Per il 1999, ritenuta la tempestività dell’esercizio del potere impositivo, con riferimento all’acquisizione societaria in Francia, ha escluso la sussistenza di una condotta elusiva e sottolineato che, oltretutto, l’Agenzia, non aveva indicato quali norme tributarie sarebbero state violate.

Infine, ha rigettato l’appello incidentale, in punto spese per programmi informatici, in quanto la contribuente non aveva provato che i costi sostenuti fossero da imputare integralmente alla società capogruppo.

L’Agenzia Entrate ha censurato la decisione impugnata sulla base di tre mezzi.

Con il primo motivo viene denunciata la violazione o falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 10, e della L. n. 289 del 2002, art. 43, deducendo l’erronea interpretazione resa dai Giudici di appello, per non avere considerato che la proroga era a ritenersi operativa e che, quindi, era tempestivo il nuovo accertamento.

Con il secondo mezzo, si deduce violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 1, sostenendosi che, alla stregua del quadro normativo di riferimento e dei principi costituzionali fondamentali e tributar, perchè si realizzi l’elusione non è necessaria la violazione di una specifica disposizione di legge, bastando che l’operazione si ponga in contrasto con i citati principi.

I due mezzi, data la connessione e considerati gli effetti ricollegabili alla soluzione delle questioni giuridiche con gli stessi prospettate, vanno trattate congiuntamente.

Rileva il Collegio che la questione giuridica, postulata dal secondo mezzo, è stata, negli ultimi anni, affrontata da questa Corte e che sulla stessa si è formato un orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo cui “In materia tributaria, il divieto di abuso dei diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati, nei principi costituzionali di capacita1 contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione” (Cass. n. 30055/2008, n. 10257/2008, n. 8772/2008, n. 20398/2005, n. 1372/2011).

Ciò posto, questo Collegio rileva, però, che il motivo, così come formulato, implichi la soluzione di una questione preliminare, attinente alla relativa ammissibilità.

La doglianza risulta, infatti, generica e formulata in violazione del condiviso principio secondo cui il ricorrente “deve rappresentare i fatti, sostanziali e processuali, in modo da far intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo”(Cass. n. 15672/05; 19756/05, n. 20454/2005, SS.UU. 1513/1998) e, quindi, deve indicare specificamente le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione, nonchè i vizi logici e giuridici della motivazione (Cass. n. 11462/2004, n. 2090/2004, n. 1170/2004, n. 842/2002).

In vero, il ricorso in generale ed il mezzo in particolare, fanno malgoverno di tali principi, in quanto omettono ogni concreto riferimento alla realtà processuale, e, d’altronde, la critica si risolve in una generica contestazione della decisione, e nel richiamo, in buona sostanza, della decisione di questa Corte n. 21221/2006, cui si deve l’avvio della riconsiderazione critica del precedente orientamento giurisprudenziale, culminato ed espresso, fra l’altro, dalle citate pronunce, affermative del principio anzi trascritto.

Infatti, non vengono indicati i concreti elementi che, ove presi in considerazione, avrebbero potuto ed allo stato dovrebbero indurre ad una riconsiderazione critica del decisum.

Nessun riferimento viene fatto alla fattispecie e quindi agli atti ed ai comportamenti della società, che avrebbero fatto emergere il carattere elusivo dell’operazione di acquisizione societaria; non vengono indicate le concrete modalità di svolgimento dell’operazione posta in essere dalla società; non risultano, nemmeno, evidenziate le ragioni per le quali l’acquisizione sarebbe carente di valide ragioni economiche e, neanche, quelle che inducono a ritenere che la stessa risulti posta in essere, esclusivamente, per il conseguimento di un vantaggio fiscale. La genericità, nel caso, risulta ancor più emblematica, tenuto conto che il Giudice di primo grado aveva accolto la doglianza per l’anno 1997 e rideterminato le rettifiche per gli anni 1998 e 1999 con statuizione, sul punto, adesiva a precedente pronuncia, – che aveva dichiarato la nullità dell’accertamento per difetto di motivazione, rilevando, pure, nel merito che non era stata fornita la prova che l’acquisizione della francese SIIF SA per il tramite di società lussemburghese appositamente costituita avesse intenti elusivi dell’imposta,- e considerato, d’altronde, che la CTR tale decisione, in parte qua, ha ritenuto di confermare, rilevando, altresì, che l’amministrazione finanziaria, non aveva indicato “nè in sede di accertamento e nemmeno nelle deduzioni proposte in corso di contenzioso, quali obblighi o divieti sarebbero stati aggirati o quali norme tributarie sarebbero state violate”.

Tanto premesso, va dichiarata l’inammissibilità del secondo motivo.

Resta, per l’effetto, assorbito il primo mezzo, per mancanza di interesse, dal momento che la statuizione adottata, non ne giustifica l’esame e la coltivazione, tenuto conto che, ove pure fondato, non potrebbe determinare una diversa decisione, stante la dichiarata inammissibilità del secondo mezzo e delle censure con lo stesso prospettate.

Con il terzo motivo si prospetta, infine, la violazione dell’art. 112 c.p.c., n. 4, per essere il Giudice di appello, incorso nella violazione della indicata norma, posto che, in presenza di una domanda del contribuente con la quale si chiedeva l’annullamento di una rettifica, per l’ipotesi in cui fosse stata confermata la rettifica relativa all’esercizio d’imposta precedente, onde evitare di incorrere nel divieto di doppia imposizione, ha accolto la domanda, malgrado il contemporaneo annullamento della rettifica relativa al precedente esercizio e sulla base di ragioni diverse dal divieto di doppia imposizione.

Trattasi di censura inammissibile ed infondata. L’inammissibilità è ricollegabile alla violazione del principio di autosufficienza, in quanto la doglianza, così come formulata, non da modo al Collegio di controllare ex actis la veridicità dell’asserzione secondo la quale il Giudice di appello avrebbe violato l’art. 112 c.p.c., per avere omesso la pronuncia sulla domanda, così come proposta dall’Agenzia Entrate (Cass. n. 9441/1996, n. 9861/1998, n. 2618/1999).

Infatti, l’estrema sinteticità della sentenza di appello e la genericità del mezzo e dei riferimenti ivi contenuti, non consentono al Collegio di esercitare il doveroso controllo di legittimità (Cass. n. 2607/1999, n. 26234/2005, n. 317/2002).

Rileva, altresì, la Corte, che la censura risulta, pure, formulata in violazione del principio secondo cui “Il vizio di omessa pronuncia – configurabile allorchè manchi completamente il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto – non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto, con la conseguenza che la questione, implicitamente o esplicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza, sarà suscettibile di riesame in sede di gravame;

ragionando altrimenti si finirebbe per far coincidere il vizio di omessa pronuncia con la previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5” (Cass. n.3403/2004).

In base a tale condiviso principio, non può essere, comunque, configurabile il denunciato vizio, non solo perchè dagli atti in esame non emerge, con inequivoca certezza, che la questione “secondo la quale l’importo di L.2.298.904.000 riguardante licenze d’uso acquistate dalla società per conto di Ciment Francais, già ripreso a tassazione nell’anno 1998, non poteva essere ripreso a tassazione nel 1999”, sia stata proposta in secondo grado, con specifico motivo di appello, ma, altresì, perchè, nel caso, la questione, deve ritenersi affrontata e risolta dalla CTR, stante la specifica statuizione di conferma della decisione della CTP e di rigetto dell’appello, ed, oltretutto, perchè, la domanda che l’Agenzia sostiene sia stata pretermessa, in ipotesi, dovrebbe ritenersi rigettata, con pronuncia implicita.

In buona sostanza, avendo la CTR esaminato e deciso, espressamente od implicitamente, la questione di che trattasi, in ipotesi, il vizio rinvenibile afferiva alla motivazione, utilizzata dai Giudici di appello, per risultare la stessa erronea, ovvero per non avere, in tutto od in parte, esplicitato l’iter decisionale, nè indicato gli elementi utilizzati per giungere al rigetto dell’appello dell’Ufficio ed alla conferma, sul punto, della decisione di primo grado; lo stesso andava, quindi, denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 5. Con i due mezzi del ricorso incidentale, la società censura la decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 53 comma 1 e art. 75 comma 1 T.U.I.R., nonchè per insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo, sostenendo che debba ritenersi deducibile il costo per l’acquisto di programmi informatici, ancor quando lo stesso venga utilizzato per servizi alle società controllate e, comunque, che la motivazione adottata sia insufficiente a giustificare le ragioni del rigetto.

Rileva il Collegio che i Giudici di appello hanno rigettato, sul punto, l’appello incidentale della società, a motivo che la stessa non aveva idoneamente documentato l’assunto che i costi sostenuti erano da imputarsi integralmente alla capogruppo, senza, peraltro, affermare alcun principio in contrasto con le norme di legge richiamate. Rileva, altresì, che a fronte di tale argomentazione, la ricorrente, con il primo mezzo, lamenta la violazione della indicata norma, deducendo, genericamente, la sussistenza dell’inerenza del costo, nel caso, quale quello di specie, in cui la società capogruppo utilizzi i programmi informatici acquistati, anche nell’interesse e per conto delle società controllate.

Sotto un primo profilo, data la prospettata realtà fattuale, la doglianza di violazione dell’art. 112 c.p.c., risulta inammissibile, in quanto formulata in violazione dei principi anzi richiamati, trascritti in sede di esame del terzo motivo del ricorso principale.

Data l’estrema sinteticità sia della decisione impugnata che del motivo del ricorso, è d’uopo notare che alla medesima conclusione si perverrebbe, anche nel caso in cui il mezzo censurasse l’interpretazione della norma. Infatti, è stato precisato che “In sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa, giacchè solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato” (Cass. n.16596/2005).

Nella medesima pronuncia è stato, pure, puntualizzato che “Nel caso in cui venga, invece, in contestazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un tipico accertamento in fatto, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto”. Anche alla stregua di tale condiviso opinamento, deve escludersi che il giudice di merito sia incorso in una violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto aveva proceduto ad un’interpretazione della domanda, come evidenziato dagli elementi di giudizio specificamente enunciati nella sentenza impugnata, là dove ha affermato che la fattura andava contabilizzata nel 1998, “dato che a quell’esercizio la stessa avrebbe dovuto essere imputata, anche al fine di evitare il rischio di una duplicazione dell’imposta”. Rileva, ancora, che le doglianze formulate con il mezzo, risolvendosi nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto esaminati e valutati dal giudice di merito, vanno disattese alla stregua del condiviso e consolidato principio secondo cui in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la determinazione o la valutazione delle prove siano state eseguite dal giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè a norma dell’art. 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – e come tale insindacabile – del giudice di merito apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito (Cass. n. 15099/2003, n. 11462/04, n. 2090/04, n. 12446/2006). La censura per vizio di motivazione, infine, è inammissibile ed infondata.

L’inammissibilità è ricollegabile alla violazione dell’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – secondo cui i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo descritto e, in particolare, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Nel caso la formulazione del motivo non soddisfa i requisiti postulati dalla citata norma, posto che la relativa formulazione non soddisfa i requisiti di legge, mancando un momento di sintesi omologo al quesito di diritto e non risultando adeguatamente indicati i concreti elementi, indispensabili per legittimare la censura per vizio di motivazione (Cass. n. 16002/2007, SS.UU. n. 20603/2007).

Peraltro,il mezzo, non indica specificamente gli elementi, rinvenibili nella documentazione in atti e non esaminate, che potrebbero condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione, e, neppure, segnala vizi logici e giuridici della motivazione (Cass. n. 11462/2004, n. 2090/2004, n. 1170/2004, n. 842/2002).

Le doglianze formulate con il mezzo, devono, infine ritenersi, pure, generiche e formulate in violazione del principio di autosufficienza, tenuto conto che non v’è indicazione dell’esistenza agli atti di specifici elementi di prova, che sarebbero stati pretermessi dai giudici di merito, dai quali evincere che i costi, sopportati per l’acquisizione del sistema informatico SAP e del programma SPIRAL, utilizzati, pure, per servizi resi a società collegate, fossero inerenti e congrui in relazione all’attività d’impresa svolta.

Conclusivamente, previa riunione, entrambi i ricorsi vanno rigettati.

Avuto riguardo alla reciproca soccombenza, le spese del giudizio di cassazione vanno compensate.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi, compensando le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2011

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