Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16414 del 13/07/2010

Cassazione civile sez. I, 13/07/2010, (ud. 19/10/2009, dep. 13/07/2010), n.16414

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

I.A., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv. MARRA Alfonso Luigi, per

legge domiciliato presso la Cancelleria civile della Corte di

Cassazione, Piazza Cavour;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso gli Uffici di questa domiciliato in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 28

febbraio 2007.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19 ottobre 2009 dal Consigliere relatore Dott. Onofrio Fittipaldi.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che il relatore designato, Cons. Dott. Luigi Salvato, nella relazione depositata il 1 luglio 2009, ha formulato la seguente proposta di definizione: ” I.A. adiva la Corte d’appello di Roma, allo scopo di ottenere l’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 in riferimento al giudizio promosso innanzi al Pretore del lavoro di Napoli con ricorso del 22.11.1994, deciso in primo grado con sentenza del 16.10.95, in secondo grado con sentenza dell’11.12.2000 ed in fase di legittimità con sentenza del 7.7.2003.

La Corte d’appello, con decreto del 28.02.07, fissata la durata ragionevole del giudizio in anni sette (3+2+2), riteneva violato il termine per anni 2 e liquidava Euro 1.000,00, pari a Euro 500,00 per anno di ritardo, con il favore delle spese del giudizio.

Per la cassazione di questo decreto ha proposto ricorso I. A., affidato a 13 motivi; ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.

1.- 1.- Con i primi 8 motivi è denunciata erronea e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001, art. 2, art. 1 e art. 6, par. 1 CEDU), in relazione al rapporto tra norme nazionali e la CEDU, nonchè della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di questa Corte ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, omessa decisione di domande (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; art. 112 c.p.c.) e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni, sintetizzate nei quesiti:

a) la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6 par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU? (primo motivo).

b) Questioni concernenti la durata del giudizio e la quantificazione del danno.

L’istante deduce che il parametro di durata ragionevole del giudizio, fissato dalla giurisprudenza in tre anni per il primo grado, due anni per il secondo ed un anno per la fase di legittimità, non sarebbe applicabile al processo del lavoro e previdenziale, in considerazione della disciplina che lo caratterizza e sono, quindi, formulati i seguenti quesiti di diritto: è corretto determinare (…) la durata ragionevole del processo in anni due per il primo grado e in un anno e mezzo per il giudizio di appello, ovvero qual è la durata ragionevole del presente processo? (motivo 2);

una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato per l’intera durata del processo (come sancito dalla giurisprudenza di Strasburgo) ovvero solo per il periodo eccedente tale durata (come previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, n. 3, lettera a), (motivo 3);

una volta accertato il diritto all’equo indennizzo lo stesso va liquidato nella misura annua di Euro 1.000,00/1.500,00? (motivo 4) ed il decreto sarebbe carente di motivazione nel punto concernente la quantificazione del danno in misura diversa da quella di Euro 1.500,00 (motivo 5);

spetta un’ulteriore somma rationae materiae (bonus di Euro 2.000,00) trattandosi di diritti dei lavoratori come stabilito dalla CEDU, o comunque l’equo indennizzo per tali materie va calcolato in misura maggiore? (motivo 6) e su questa domanda la Corte d’appello non si è pronunciata (motivo 7), incorrendo in difetto di motivazione (motivo 8).

1.1.- I motivi dal 9 al 13 denunciano violazione dell’art. 6, par. 1 CEDU e dell’art. 1 del protocollo addizionale, della L. n. 89 del 2001, art. 2, degli artt. 91 e 92, 112 e 132 c.p.c., della L. n. 794 del 1942, art. 24, delle tariffe professionali, nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5, artt. 112 e 132 c.p.c.), nella parte concernente la liquidazione delle spese del giudizio e, in sintesi, sono poste le seguenti questioni, sintetizzate nei quesiti:

è legittimo, con riferimento alla fattispecie che ci occupa, un accoglimento della domanda con liquidazione di spese insufficiente o parziale compensazione delle spese, anche in considerazione dell’art. 1 prot.add CEDU direttamente applicabile al caso di specie? (motivo 9);

alla fattispecie concreta e con riguardo alle spese di lite, premesso che trattasi di un procedimento ordinario contenzioso (e non di v.g.) vanno applicate le tariffe professionali per i procedimenti ordinari contenziosi (e non quelli di volontaria giurisdizione)? (motivo 10) e sulla liquidazione delle spese il decreto sarebbe carente nella motivazione (motivo 11);

può il giudice, nel liquidare le spese ed in presenza di nota spese specifica, disattendere la stessa liquidando spese, diritti ed onorari inferiori a quelli richiesti e comunque escludere o ridurre alcune delle voci tariffarie indicate nella nota spese? (motivo 12) e sul punto è denunciato anche difetto di motivazione riportando nel ricorso specifica nella quale sono riportate le diverse voci tariffarie, in relazione ai diversi scaglioni (motivo 13).

2. – I motivi indicati nel 1 possono essere esaminati congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sembrano manifestamente fondati entro i limiti che seguono.

a) Relativamente alla questione sub a), ammissibile e rilevante per l’incidenza su quelle ulteriori, va ribadito il principio enunciato dalla Corte costituzionale (sent. n. 348 e n. 349 del 2007) e dalle S.U. (sent. n. 1338 del 2004) in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 e, qualora ciò non sia possibile, ovvero il giudice dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale, si deve investire la Corte Cost., relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1.

Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla “non applicazione” della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

b) Relativamente alle questioni sub b), va osservato:

è manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine di durata del giudizio rigido e predeterminato, identificato nella specie, con argomentazioni talora anche scarsamente chiare, in quello sopra indicato. La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, dispone, infatti, che la ragionevole durata di un processo va verificata in concreto, facendo applicazione dei criteri stabiliti da detta norma la quale, stabilendo che il giudice deve accertare la esistenza della violazione considerando la complessità della fattispecie, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione, impone di avere riguardo alla specificità del caso che egli è chiamato a valutare. La violazione del principio della ragionevole durata del processo va dunque accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005).

In tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla quale occorre avere riguardo (tra le molte, sentenza Prima Sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98) e che ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.

Ed è questo parametro che va osservato, dal quale è tuttavia possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez. un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).

Peraltro, il quesito formulato nel secondo motivo è anche manifestamente inammissibile, sia in quanto sviluppato senza alcun riferimento alla fattispecie in esame, sia in quanto pretende di rimettere a questa Corte l’accertamento della durata ragionevole nel caso in esame. L’apprezzamento degli elementi che permettono di fissare la misura ragionevole del giudizio è riservata invece al giudice del merito, spettando a questa Corte la verifica in ordine al rispetto del parametro stabilito dalla Corte EDU ed alla completezza, logicità e congruenza della motivazione svolta dal giudice del merito per discostarsene.

Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, secondo l’orientamento espresso da questa Corte, al quale va data continuità, la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo:

mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma, lettera a), della L. n. 89 del 2001, art. 2, ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).

Relativamente ai criteri di determinazione del quantum della riparazione, va ribadito che quelli applicati dalla Corte europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, che ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno il parametro per la quantificazione dell’indennizzo. Resta escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia.

Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia rivesta una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali. Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).

Il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul c.d. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).

Il danno non patrimoniale deve dunque essere quantificato in applicazione di detto parametro, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008;

n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).

In questi termini sono i principi che possono essere formulati in relazione ai quesiti in esame ed a quelli riferibili alla quantificazione del danno, anche alla luce del parametro della Corte EDU, che sembrano confortare la manifesta fondatezza delle censure, poichè il decreto ha fissato la durata ragionevole del giudizio in anni tre, due e due, in difformità dal parametro della Corte EDU – che è di complessivi anni sei per i due gradi di merito e per quello di legittimità- senza svolgere alcuna motivazione ed anzi incorrendo in palese confusione.

Il decreto indica, infatti, che il giudizio si sarebbe svolto per quasi 11 anni, con affermazione palesemente erronea (il giudizio è iniziato il 22.11.1994 e si è definito con sentenza del 7.7.2003, come proprio il decreto indica), per poi affermare che sarebbe stato superato di quasi 2 anni il limite complessivo di 9 anni, con conclusione del tutto inconferente rispetto al parametro da essa stessa fissato.

In relazione alle censure accolte, il decreto potrà essere cassato e – assorbiti i mezzi concernenti le spesela causa rinviata alla stessa Corte d’appello, in diversa composizione, affinchè proceda al riesame della controversia, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese della presente fase. Pertanto, il ricorso può essere trattato in Camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge”.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che gli argomenti e le proposte contenuti nella relazione di cui sopra, alla quale non sono stati mossi rilievi critici, sono condivisi dal Collegio, con le precisazioni che seguono in punto di durata del procedimento e di quantum dell’indennizzo;

che, in ordine alla durata del procedimento, va infatti precisato che il procedimento presupposto non è stato definito con la sentenza della Corte di cassazione del 7 luglio 2003 ed era ancora pendente in fase di rinvio alla data del deposito del ricorso per equa riparazione (24 ottobre 2005): sicchè, a fronte di una pendenza di undici anni (dal 22 novembre 1994 al 24 ottobre 2005) e considerato in sette anni il periodo di ragionevole durata (tre anni per il primo grado, due per l’appello, un anno per il giudizio di cassazione ed un anno per il giudizio di rinvio), il periodo eccedente è quantificabile in quattro anni;

che, in ordine al quantum dell’indennizzo, va data continuità al principio recentemente affermato da Cass., Sez. 1^, 8 luglio 2009, n. 16086, secondo cui “in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, secondo la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenze 29 marzo 2006, sui ricorsi n. 63261 del 2000 e nn. 64890 e 64705 del 2001), gli importi concessi dal giudice nazionale a titolo di risarcimento danni possono essere anche inferiori a quelli da essa liquidati, a condizione che le decisioni pertinenti siano coerenti con la tradizione giuridica e con il tenore di vita del paese interessato, e purchè detti importi non risultino irragionevoli, reputandosi, peraltro, non irragionevole una soglia pari al 45 per cento del risarcimento che la Corte avrebbe attribuito. Pertanto, stante l’esigenza di offrire un’interpretazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, idonea a garantire che la diversità di calcolo non incida negativamente sulla complessiva attitudine ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, evitando il possibile profilarsi di un contrasto della medesima con l’art. 6 della CEDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo), la quantificazione del danno non patrimoniale dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata”;

che, quindi, accolto, per quanto di ragione, il ricorso e cassato, in relazione alle censure accolte, il decreto impugnato, ben può procedersi alla decisione nel merito del ricorso, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto;

che, pertanto, considerato il periodo di irragionevole durata del giudizio del giudizio presupposto in quattro anni e determinato, in applicazione dello standard minimo CEDU – che nessun argomento del ricorso impone di derogare in melius -, nella somma di Euro 750,00 ad anno il parametro per indennizzare la parte del danno non patrimoniale riportato nel processo presupposto, devesi riconoscere all’istante l’indennizzo forfettario complessivo di Euro 3.000,00 oltre interessi legali dalla domanda al saldo;

che le spese, liquidate come da dispositivo, vanno poste a carico del soccombente Ministero della giustizia: quanto al giudizio di merito, per l’intero, e, quanto al giudizio di cassazione, nella misura di 1/2, essendo il ricorso accolto solo in parte, compensandosi per la restante parte, con distrazione in favore del difensore antistatario.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della giustizia a corrispondere ad I.A. la somma di Euro 3.000,00 oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo, ed oltre alle spese processuali – nell’intero quanto al giudizio di merito e per 1/2 in relazione a quello di cassazione, compensandosi la restante parte, spese distratte in favore dell’Avv. Alfonso Luigi Marra e liquidate, quanto al giudizio di merito, in Euro 905,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi, Euro 420,00 per onorari ed euro 385 per diritti), e, quanto al giudizio di legittimità, nella misura, ridotta per effetto della disposta parziale compensazione, di Euro 400,00 (di cui Euro 50,00 per esborsi), oltre a spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2010

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