Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16406 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. I, 10/06/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 10/06/2021), n.16406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9598/2016 proposto da:

Comi S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Cola di Rienzo n. 69,

presso lo studio dell’avvocato Massimo Bersani, che la rappresenta e

difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1515/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/3/2020 dal Cons. Dott. MARCO MARULLI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con sentenza n. 1515/2015 depositata il 6.3.2015 la Corte d’Appello di Roma, in riforma dell’impugnata decisione di primo grado che, su istanza della COMI, s.r.l. aveva pronunciato la risoluzione dei contratti formalizzati con il Ministero della Giustizia ed aveva condannato quest’ultimo a risarcire l’istante di tutti i danni conseguenti, ivi compresi quelli dovuti alla cessazione dell’attività aziendale, ha accolto il gravame dell’impugnante Ministero ed ha dichiarato l’esistenza del giudicato quanto alle domande di risarcimento del danno ed assorbita per effetto del rilevato giudicato la domanda di risoluzione.

1.2. Più in dettaglio, la COMI, società attiva nel comparto dei sistemi di sicurezza, premesso di essere da tempo in rapporti di affari con il Ministero della Giustizia e che a seguito del coinvolgimento del proprio amministratore in un’indagine penale per truffa ai danni dello Stato era stata raggiunta nel dicembre 1982 da un provvedimento di fermo amministrativo emesso dal prefato Ministero ai sensi del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 6, in conseguenza del quale era stato sospeso ogni pagamento nei suoi confronti e, di seguito, pure da un ordine di sospensione dall’affidamento di ulteriori appalti, una volta chiaritasi favorevolmente la vicenda penale con il proscioglimento dell’interessato perchè il fatto non sussiste, aveva instato il Tribunale di Roma, incardinando davanti ad esso un primo giudizio, perchè, accertata l’illegittimità del disposto provvedimento di fermo, fosse pronunciata la condanna del convenuto Ministero al pagamento delle somme dovute in relazione ai contratti in corso, nonchè al risarcimento di tutti i danni ivi compresi quelli dovuti “per la totale perdita dell’azienda e del suo avviamento” conseguenti alla cessazione dell’attività di impresa a cui essa si era vista obbligata svolgendo la propria attività in modo prevalente in favore di amministrazioni pubbliche. Le sentenze pronunciate nell’occasione, gravate di appello dal Ministero, erano parzialmente riformate dalla Corte d’Appello di Roma con sentenza non definitiva 1961/02, cassata da questa Corte, in accoglimento del ricorso incidentale ancora dispiegato dal Ministero, con sentenza 8417/2004 che demandava al giudice del rinvio di accertare in relazione all’andamento del giudizio penale quando fossero cessate le esigenze cautelari sottese all’adozione del fermo e si dovesse perciò ritenere che la sua protrazione fosse divenuta illegittima. A ciò provvedeva quindi la Corte capitolina con sentenza 119/2013 passata in cosa giudicata poichè non impugnata nei termini.

1.3. Parallelamente al giudizio definito con tale ultima sentenza, con citazione notificata nel novembre 2005 la COMI, allegando i medesimi fatti, instava nuovamente il Tribunale di Roma perchè pronunciasse la risoluzione dei contratti in essere con il Ministero della Giustizia in uno pure con la condanna del medesimo al risarcimento di tutti i danni conseguenti compreso il danno arrecato “all’avviamento e al patrimonio della società in ragione della loro totale vanificazione”. La sentenza di primo grado, che accoglieva le domande, era fatta oggetto di nuovo gravame erariale, definito dalla Corte d’Appello con la sentenza 1515/2015 per cui oggi è ricorso.

Con essa il giudice territoriale, preso atto delle domande dispiegate dalla COMI volte, l’una, ad accertare l’inadempimento dell’Amministrazione convenuta in relazione ai contratti aventi ad oggetto interventi realizzati nella Città Giudiziaria di Piazzale Clodio e presso la Corte d’Appello di Torino e a far dichiararne la conseguente risoluzione, l’altra, ad ottenere, in considerazione della tardiva revoca del provvedimento di fermo la condanna della medesima al ristoro dei danni seguiti alla totale vanificazione dell’avviamento e del patrimonio sociale, ha inteso preliminarmente condividere l’eccezione di giudicato opposta dalla convenuta alla stregua dei visti trascorsi e, segnatamente, del fatto che le medesime domande erano state già proposte nel procedimento definito dalla Corte di Cassazione con sentenza 8417/2004 e, all’esito del giudizio di rinvio, ancora dalla medesima Corte d’Appello con sentenza 119/2011, dichiarando di conseguenza l’intervenuto giudicato quanto all’accertamento della illegittimità del mantenimento del fermo amministrativo, al mancato pagamento dei corrispettivi dovuti sui contratti formalizzati, al mancato utile per i contratti non eseguiti e al danno da perdita dell’azienda ed inammissibili perciò le corrispondenti domande proposte con il giudizio; ha quindi dichiarato parimenti inammissibile la domanda di risoluzione, che quantunque proponibile, rifletteva sfavorevolmente gli effetti preclusivi discendenti dl giudicato caduto sulla pregressa domanda di adempimento contrattuale e di risarcimento del danno, non potendo essere in ragione di ciò richiesta la risoluzione dei medesimi contratti e nuovamente il medesimo risarcimento dei danni.

1.4. Per la cassazione di tale ultima sentenza insorge ora la COMI con un ricorso affidato ad un solo motivo, illustrato pure con memoria, al quale replica con controricorso il Ministero della Giustizia.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1. Con l’unico motivo del proprio ricorso la COMI censura l’impugnato deliberato d’appello per violazione dell’art. 2909 c.c., poichè, ove il decidente avesse correttamente “attenzionato” il giudicato sortito dalla ricordata decisione di legittimità, avrebbe dovuto rilevare che “la Corte in quella decisione ha si dichiarato inammissibili i motivi di ricorso allora proposti da COMI, ma non per ragioni endoprocessuali, sebbene per avere ritenuto e statuito che la prospettazione dei fatti e la domanda all’epoca dispiegata da COMI fosse estranea e non introducibile nel giudizio che davanti alla stessa Corte ebbe a concludersi”. Del resto, con più diretto riferimento alla domanda risarcitoria “per la perdita dell’azienda”, il richiamo operato in quella sede al divieto dall’art. 345 c.p.c., “solo può avere significato e solo deve essere interpretato nel senso univoco di non rituale ed ammissibile proposizione di quella domanda nello stesso primo giudizio… così che la “riproposizione” della domanda nell’atto di citazione introduttivo del novembre 2005…. riproposizione di certo non è, perchè è “proposizione” di nuova rituale ed ammissibile domanda”. Nondimeno, analoga considerazione si impone anche con riguardo alla domanda di risoluzione, poichè se per il ricordato divieto dello ius novorum in appello “le domande risarcitorie proposte da COMI per il mancato conseguimento degli utili sono state in quel primo giudizio dichiarate inammissibili ex art. 345 c.p.c., ciò solo può stare a significare l’impossibilità di formazione di un giudicato sostanziale di rigetto di quella domanda, che mai ritualmente proposta è stata”. Nessun giudicato è, dunque rappresentabile nella specie, onde l’impugnata sentenza va conseguentemente cassata.

2.2. Il predetto motivo di ricorso non ha pregio e va, dunque, disatteso.

In disparte, per vero, dalla constatazione che le estrapolazioni testuali operate dal ricorrente sul corpo della pregressa pronuncia di questa Corte comportano una rappresentazione frammentata dell’iter decisionale, si che alcune affermazioni di portata asseritamente dirimente recedono al rango di mere notazioni motivazionali ove opportunamente ricollocate nel tessuto argomentativo di riferimento (per tutti vale l’insistito richiamo all’argomento sviluppato con riguardo al divieto dei nova che trova parziale, se non assorbente, attenuazione nella considerazione che la sentenza impugnata, indagando il punto con riguardo tanto al mancato conseguimento delle utilità contrattuali quanto alla perdita dell’azienda, abbia segnatamente dubitato della riconducibilità causale agli eventi di giudizio cfr. pp. 21 e 24 della sentenza in questione), la tesi che il ricorrente intende sviluppare con il motivo, e che vorrebbe vedere perciò accolta con conseguente cassazione della sentenza qui impugnata e rinvio degli atti al giudice a quo per una novellazione del giudizio, incorre nelle preclusioni che si danno nel giudizio di cassazione e che impediscono alla Corte di farsi giudice del caso concreto sostituendo il proprio giudizio a quello del decidente di merito.

Ciò che la ricorrente infatti lamenta per mezzo delle illustrate doglianza è solo un vizio di interpretazione in cui la Corte d’Appello sarebbe caduta assecondando una lettura del giudicato già intervenuto tra le parti che non si concilia con le aspettative di una di esse, di modo che ne sarebbe possibile sollecitare in questa sede la rinnovazione quasi che, in una sorta di ipotetica revisio prioris istantiae, la Corte di Cassazione possa in tal modo mettere riparo ad una decisione che si considera ingiusta.

2.3. Ora eppur vero che il giudicato va assimilato agli elementi normativi, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, e gli eventuali errori interpretativi sono sindacabili sotto il profilo della violazione di legge e che, di riflesso, è nei poteri del giudice di legittimità accertare direttamente l’esistenza e la portata del giudicato esterno, con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito (Cass., Sez. U. 28/11/2007, n. 24664). Tuttavia, onde addivenire a questo, è necessario che il ricorso soddisfi sul punto l’onere di autosufficienza posto che in tanto la Corte di Cassazione può conoscere dell’esistenza del giudicato e può darne l’interpretazione in quanto il giudicato sia riprodotto nel ricorso, con la conseguenza che, qualora l’interpretazione che abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente interpretato nella sua integralità, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione che non rendono possibile comprendere l’estensione del comando giudiziale nella sua interezza (Cass., Sez. II, 19/08/2020, n. 17310; Cass., Sez. IV, 8/03/2018, n. 5508; Cass., Sez. IV, 30/04/2010, n. 10537).

2.4. Poichè nella specie il ricorso è del tutto manchevole sul punto, dato che della sentenza 119/2011, fonte del giudicato qui dichiarato, non si riproducono neanche gli estremi e tantomeno se ne riporta in forma espressa il contenuto, ne consegue che per difetto del tertium comparationis l’interpretazione del giudicato resa dal decidente di merito non è sindacabile in questa sede.

3. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

4. Le spese seguono la soccombenza.

Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in Euro 28200,00, oltre spese prenotate a debito.

Ove dovuto, ricorrono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

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