Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16387 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 10/06/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 10/06/2021), n.16387

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33481/2018 proposto da:

O.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BALDO DEGLI

UBALDI 210, presso lo studio dell’avvocato ROSA VOLINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO BIANCHINI;

– ricorrente –

contro

BIVUENNE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. ANDRONICO 24, presso lo

studio dell’avvocato ILARIA ROMAGNOLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato CLAUDIO LA GIOIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 304/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 12/09/2018 R.G.N. 273/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MUCCI Roberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCA MUNGELLO, per delega Avvocato MARCO

BIANCHINI;

udito l’Avvocato ILARIA ROMAGNOLI per delega Avvocato CLAUDIO LA

GIOIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 12 settembre 2018, la Corte di Appello di Brescia ha rigettato il reclamo proposto da O.M. nei confronti della Biyuenne Srl avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato dalla società il 16 marzo 2015.

2. La Corte di Appello, per quanto qui rileva, ha ritenuto di non condividere i motivi di gravame riguardanti “l’asserita consunzione del potere disciplinare e l’eccepita sproporzione della sanzione irrogata”.

Per quanto riguarda il primo aspetto la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti oggetto della contestazione disciplinare del 26 febbraio 2015 erano relativi alla giornata precedente del 25 febbraio, mentre quelli oggetto della lettera del 2 marzo 2015 “erano stati constatati il 28 febbraio 2015 giorno in cui la reclamante avrebbe dovuto prestare servizio ed è rimasta invece assente ingiustificata (v. Libro Unico del Lavoro prodotto dalla resistente in primo grado)”; da ciò la Corte di Appello ha tratto il convincimento che “i fatti contestati erano diversi e si erano verificati in successione”.

Quanto al secondo aspetto la Corte bresciana ha così argomentato: “Ferma l’applicazione del CCNL Filius richiamato nel contratto di assunzione (doc. n. 5 di parte reclamata in primo grado), risulta dalla documentazione prodotta in giudizio che la reclamante si fosse resa responsabile di una pluralità di inadempimenti tanto da rendere legittimamente applicabile al caso di specie la norma di cui all’art. 34 del CCNL sopracitato, norma che richiama gli artt. 40 e 41 del medesimo CCNL. E’ da evidenziare, peraltro, che gli addebiti mossi alla reclamante avevano ad aggetto il mancato adempimento alle obbligazioni costituenti l’oggetto principale della prestazione che la reclamante stessa avrebbe dovuto rendere. Il che connota di estrema gravità l’inadempimento stesso che, proprio in quanto ripetuto, era idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti”.

3. La Corte territoriale ha anche accertato, in punto di requisito dimensionale, che dall’esame del LUL risultasse come la società avesse una consistenza media di dipendenti inferiore alle 15 unità, pure conteggiando i dipendenti a tempo determinato.

Ha, infine, considerato assorbiti tutti gli altri motivi di doglianza.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso O.M. affidato a 8 motivi; ha resistito con controricorso la società; entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 60, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la decisione della Corte bresciana era stata depositata un anno dopo la discussione, in violazione della disposizione richiamata secondo cui: “La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancellerila entro dieci giorni dall’udienza di discussione”.

La censura è priva di fondamento.

A mente dell’art. 156 c.p.c., non può essere pronunciata la nullità, per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge, salvo che l’atto manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo e, comunque, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, la nullità non può mai esser pronunciata.

Nella specie parte ricorrente non individua la norma che comminerebbe la nullità della sentenza per inosservanza del termine per il deposito della motivazione e la sentenza impugnata reca comunque la motivazione che, una volta depositata, ha raggiunto lo scopo cui è preordinata.

2. Per ragioni di pregiudizialità logico-giuridica occorre valutare prima degli altri il quarto motivo di ricorso così rubricato: “Violazione/falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e. 18 L. n. 300 del 1970, art. 18, ed omessa proniincia in tema di sussistenza del fatto contestato con la lettera di addebito consegnata il 4 marzo 2015 (i fatti di principale rilievo) così integrando una violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 ,ed anche n. 4 e n. 5”.

Secondo la ricorrente la Corte di merito avrebbe completamente omesso di esaminare “l’effettiva esistenza delle condotte che hanno portato al recesso, dando per scontata la responsabilità della lavoratrice senza aver provveduto a svolgere la minima istruttoria”; in particolare la Corte avrebbe riconosciuto che la lavoratrice non era presente al lavoro il 28 febbraio 2015 ma avrebbe qualificato come ingiustificata la sua assenza mentre – secondo la ricorrente – così non sarebbe, perchè dal cedolino paga di febbraio risulterebbe “un giorno di lavoro a zero ore, non di assenza ingiustificata”. Si nega comunque che la ricorrente abbia avuto responsabilità negli addebiti contestati.

Il motivo, per come formulato, è inammissibile.

Esso innanzitutto contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di disposizioni di legge, nonchè di omessa pronuncia e di omesso esame di fatto decisivo, invocando a sostegno dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dell’art. 360 c.p.c., comma 1, così non consentendo una adeguata identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr. anche Cass. SS.UU. n. 17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; tra: le più recenti v. Cass. n. 3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass. n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019).

Inoltre il motivo non specifica quale sarebbe l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, posto che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a, pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Il motivo non indica, poi, quale sarebbe l’error in procedendo che determinerebbe la nullità della sentenza o del procedimento a mente dell’art. 360 c.p.c., n. 4, facendo laconicamente riferimento ad una “omessa pronuncia” senza illustrare adeguatamente come si sarebbe compiuta la violazione dell’art. 112 c.p.c., peraltro neanche richiamato.

Infine il motivo lamenta una “omessa valutazione di un fatto decisivo”, rappresentata dalla “sussistenza dell’addebito”, ignorando completamente i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), dei cui enunciati parte ricorrente non tiene alcun conto, per di più criticando accertamenti fattuali, quali l’assenza non giustificata della lavoratrice che – secondo la Corte territoriale – l’avrebbe resa responsabile di non aver adempiuto alla prestazione sulla medesima gravante, che non possono essere oggetto di rivisitazione in questa sede.

3. Dall’inammissibilità del quarto motivo deriva l’inammissibilità anche del successivo quinto mezzo di gravame, con cui parte ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18 e, in subordine, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 34 CCNL FILINS CISAL, “così integrando una violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”.

Infatti esso si fonda sull’assunto che “la motivazione seguita dalla Corte di Appello… presenta una insuperabile lacuna: ovvero il mancato esame in merito alla sussistenza dei fatti contestati e della giusta causa di licenziamento”.

Nella sostanza parte ricorrente lamenta che “a prescindere dai prècedenti disciplinari accumulati, per potersi procedere ad un licenziamento, in caso di recidiva, è necessario che al lavoratore possa imputarsi un nuovo grave inadempimento che potrebbe essere valutato in modo più grave per la recidiva”, mentre nella specie la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento sulla base del solo cumulo di sanzioni precedenti, senza indagare l’esistenza di un nuovo fatto rilevante disciplinarmente.

In realtà tale assunto si è rivelato errato, per come risulta dallo scrutinio del motivo precedente, atteso che la Corte territoriale, confermando sul punto la valutazione del primo giudice, ha ritenuto che l’inadempimento addebitato con l’ennesima contestazione disciplinare, che ha poi condotto al recesso, vi fosse e non viene certo meno per il solo fatto che, ancora in questa sede di legittimità, parte ricorrente esprime un diverso avviso.

4. Parimenti non merita accoglimento il sesto motivo di ricorso, con cui si denuncia una ulteriore violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in merito alla consumazione del potere disciplinare, nonchè errore di fatto in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., così integrando – secondo la ricorrente – una violazione sia del n. 4 che del n. 5 dell’art. 360 c.p.c..

Si eccepisce che la Corte territoriale avrebbe “travisato” le “risultanze probatorie”, nel ritenere diversi i fatti posti a fondamento prima della contestazione disciplinare del 26 febbraio e poi di quella del 2 marzo 2015.

La censura è inammissibile nella parte in cui invoca a sostegno il vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in una ipotesi di cd. “doppia conforme”. Per espressa previsione normativa, detto vizio, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, non può essere denunciato, rispetto ad un appello promosso nella specie il 12 giugno 2017 dopo la data sopra indicata (richiamato D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c., in base al quale il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme”; v. Cass. n. 23021 del 2014); in questi casi il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente; della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019).

Quanto ai pretesi errori di diritto, in realtà parte ricorrente critica un accertamento fattuale, quale è sicuramente quello devoluto ai giudici del merito circa la verifica se, in concreto, la due procedure disciplinari in controversia fossero o meno relative ai medesimi fatti.

Inappropriato è, pertanto, il richiamo alla violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., atteso che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento di tali disposizioni, opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice dei merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017).

Circa il denunciato “travisamento” delle risultanze, probatorie è appena il caso di ribadire che “l’errore di percezione sul contenuto oggettivo di una prova non è altra cosa dal travisamento della prova e può dar luogo, se del caso, esclusivamente a revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4, mentre l’unico vizio del giudizio di fatto deducibile per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, consiste nell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, salva la preclusione della doppia conforme in fatto, di cui all’art. 348-ter c.p.c., u.c.” (v. Cass. n. 24395 del 2020).

5. In subordine, il settimo motivo denuncia testualmente: “Violazione/falsa applicazione dell’art. 18, comma 4 (punibilità con una sanzione conservativa) così integrando una violazione dell’art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3″.

Parte ricorrente, nella denegata ipotesi si ritenessero sussistenti i fatti contestati, sostiene che gli stessi avrebbero potuto consentire l’applicazione solo di una sanzione conservativa. All’uopo si riporta l’elenco delle ipotesi in cui la contrattazione collettiva di settore prevede il licenziamento e dalla mancanza in esse dei fatti contestati alla O. se ne ricava che, per l’omissione contestata alla medesima, avrebbe dovuto applicarsi una sanzione conservativa.

La censura è infondata.

Dalla natura legale della nozione di giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di recesso contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicchè’ non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del, 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass., n. 27004 del 2018).

Solo ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore – nel senso che la condotta addebitata quale causa del licenziamento sia contemplata come infrazione sanzionabile con misura conservativa – il giudice non può ritenere legittimo il recesso, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (da ultimo Cass. n. 13534 del 2019; in precedenza, tra molte, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223 del 2015; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 19053 del 2005; Cass. n. 5103 del 1998; Cass. n. 1173 del 1996).

In ordine ai criteri di interpretazione di clausole siffatte che prevedano sanzioni conservative, con conseguente vincolo anche per il giudice, questa Corte ha escluso il ricorso all’applicazione analogica e quella estensiva, pur ammissibile, è consentita solo ove risulti l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione; pertanto “solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dell’art. 18, comma 4 novellato” (Cass. n. 12365 del 2019; conf. Cass. 14500 del 2019; Cass. n. 13533 del 2019; Cass. n. 19578 del 2019; Cass. n. 31839 del 2019).

Ciò presuppone evidentemente che venga riportato il contenuto della clausola della contrattazione collettiva che preveda espressamente per il fatto addebitato la sanzione conservativa, non essendo certo sufficiente – come nel caso che occupa il Collegio – riportare l’elencazione delle diverse ipotesi per le quali è previsto il licenziamento.

6. Con il terzo motivo si denuncia “Violazione/falsa applicazione artt. 115 e 116 c.p.c. in merito alle prove sull’applicabilità del CCNL FILINS, così integrando una violazione ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4”, perchè la Corte territoriale avrebbe affermato in modo apodittico che al rapporto sarebbe applicabile il CCNL Filius, senza però indicare la Confederazione firmataria in rappresentanza dei lavoratori; si deduce che più sarebbero le sigle delle organizzazioni sindacali dei prestatori di lavoro, per cui sarebbe stata necessaria una ulteriore specificazione, e si critica la motivazione impugnata sul punto come “apparente ed oscura”.

Il motivo non solo è inammissibile per come formulato, invocando ancora la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che, per quanto già detto, operano sul piano dell’accertamento di merito, ma anche perchè privo di qualsiasi decisività, atteso che la Corte di Appello ha argomentato che “gli addebiti mossi alla reclamante avevano ad aggetto il mancato adempimento alle obbligazioni costituenti l’oggetto principale della prestazione che la reclamante stessa avrebbe dovuto rendere… il che connota di estrema gravità l’inadempimento stesso che, proprio in quanto ripetuto, era idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario tra le parti”. Ha pertanto operato una valutazione alla stregua della nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche a prescindere dalle previsioni della contrattazione collettiva. In ogni caso ha pure individuato il contratto collettivo applicabile come quello “richiamato nel contratto di assunzione” e l’adesione al contratto collettivo che rende applicabile il medesimo al rapporto di lavoro individuale dedotto in causa è questione di fatto non suscettibile di riesame in questa sede di legittimità.

7. Dal mancato accoglimento dei motivi che precedono deriva l’inammissibilità del secondo motivo con cui si censura quella parte della sentenza impugnata che ha ritenuto insussistente il requisito dimensionale dell’azienda convenuta, considerato che la questione sarebbe rilevante solo ove il licenziamento fosse illegittimo, ai fini della tutela applicabile, ma non nel caso in cui la declaratoria di legittimità del licenziamento ha resistito alle censure mosse innanzi a questa Corte.

8. Del pari inammissibile l’ultima doglianza, con cui si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 36 Cost. e della contrattazione collettiva, in ordine alla determinazione della retribuzione globale di fatto ed alla decorrenza dei rapporto di lavoro, sia perchè pone questioni su cui la Corte territoriale non si è pronunciata perchè ritenute assorbite, sia perchè le stesse sarebbero rilevanti solo ove il licenziamento fosse stato dichiarato illegittimo.

9. Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

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