Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16377 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. lav., 10/06/2021, (ud. 05/11/2020, dep. 10/06/2021), n.16377

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2385/2018 proposto da:

RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANTONIO BERTOLONI 44, presso lo studio dell’avvocato MATTIA

PERSIANI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 35,

presso lo STUDIO GIOVANNI NICOLA D’AMATI, e CLAUDIA COSTANTINI, che

la rappresentano e defendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3652/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/07/2017 R.G.N. 6592/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

05/11/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle domande proposte da P.R. nei confronti della Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a. dichiarava la nullità dei termini apposti ai contratti – qualificati in termini di collaborazione autonoma – stipulati a far tempo dal 1/9/1998; accertava l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato di tipo giornalistico a tempo indeterminato da tale data; condannava la società al pagamento di differenze retributive maturate sino al 14/7/2008; dichiarava, quindi, l’inefficacia del licenziamento orale intimato alla scadenza dell’ultimo contratto e ordinava la riammissione in servizio della lavoratrice con qualifica di redattore ordinario, condannando la società al risarcimento del danno nella misura di Euro 3.094,34 mensili dal di della messa in mora risalente al 15/7/2008, sino alla attualità.

Detta pronuncia veniva confermata dalla Corte territoriale.

La cassazione di tale decisione è domandata dalla Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a. sulla base di quattro motivi ai quali resiste con controricorso l’intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 69 del 1963, artt. 29 e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha acclarato la natura giornalistica del rapporto, sul rilievo che la L. n. 103 del 1975, art. 7, di disciplina del sistema radiotelevisivo, distingue fra strutture preposte ai servizi giornalistici e di informazione (Testate Giornalistiche), e le strutture preposte alla ideazione e realizzazione della programmazione televisiva e radiofonica (le Reti).

La disposizione richiamata prevede che solo ai telegiornali ed ai giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e dei periodici contenute nella L. n. 47 del 1948, artt. 5 e 6.

Si osserva quindi che la P. aveva collaborato in qualità di esperta senza provvedere alla raccolta, elaborazione o commento delle notizie nell’ambito della programmazione di “Rete” e non di “Testate Giornalistiche”, nell’ambito di un programma di intrattenimento. La natura giornalistica del rapporto sarebbe esclusa anche in virtù del contesto – produttivo nel quale l’attività era stata resa. All’interno del programma al quale aveva collaborato la P. era infatti impiegato personale in possesso della professionalità richiesta per la messa in onda di trasmissioni di intrattenimento (capostruttura, produttore esecutivo, autori…), proprio in quanto non richiesta la presenza di giornalisti.

2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione degli artt. 2094,1362,1363 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si rimarca che la natura del rapporto di lavoro inter partes non era ascrivibile all’archetipo della locatio operarum essendo stata la lavoratrice sempre libera di organizzare tempi e modi di esecuzione della prestazione, non essendo tenuta al rispetto di alcun orario nè a garantire la sua presenza.

3. I motivi che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono fondati.

In generale giova rammentare come la giurisprudenza di questa Corte abbia espresso un consolidato orientamento in tema di poteri riconosciuti al giudice del merito nella qualificazione del rapporto di lavoro. Si afferma in proposito che l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito dal lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto di un rapporto di lavoro sia autonomo sia subordinato.

In sede di legittimità è censurabile unicamente la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, incensurabile in tale sede se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (fra le numerose decisioni si vedano Cass. 19/4/2010 n. 9251, Cass. 11/10/2017 n. 23846).

In particolare, nei casi di difficile qualificazione del rapporto a causa della natura intellettuale dell’attività svolta occorre fard riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro (vedi Cass. 15/6/2009 n. 13858) perchè è proprio dalle modalità di svolgimento del rapporto, che è ricavabile l’effettiva volontà delle parti (iniziale o sopravvenuta) intesa a definire l’inquadramento del rapporto.

Il peculiare rilievo attribuito dalla elaborazione giurisprudenziale al comportamento delle parti esplicato nel corso dello svolgimento del rapporto stesso (vedi Cass. 21/10/2014 n. 22289, Cass. 27/10/2003 n. 16119) trae ragione anche dal fatto che l’iniziale contratto da vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, sicchè la volontà che esso esprime ed il nomen iuris conferito, non “costituiscono fattori assorbenti e decisivi, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario ai fini della sua interpretazione (oltre che per l’accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto).

Orbene, a siffatti principi si è conformata la Corte di merito laddove ha proceduto ad un attento scrutinio di tutti i dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto (la quotidianità della presenza in postazione fissa per almeno dieci ore al giorno, la partecipazione alle riunioni di redazione due volte alla settimana, la partecipazione ai turni di ascolto delle telefonate registrate), pervenendo a conclusioni coerenti con gli approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza, tenuto conto che i tratti intellettuali qualificanti le prestazioni rese dalla lavoratrice, non imponevano la dimostrazione di una stringente sottoposizione al potere disciplinare e di controllo della parte datoriale, essendo all’uopo sufficiente l’inserimento in via continuativa nell’assetto organizzativo aziendale, mediante sottoposizione a direttive generali, onde assicurare alla parte datoriale una stabilità del servizio.

La creatività e la natura intellettuale dell’attività qualificanti la prestazione lavorativa, imponevano, infatti, un diverso approccio alla tematica della subordinazione, richiedendo la verifica della esistenza di tale parametro realizzata mediante il ricorso ad elementi sussidiari e da individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dallo svolgimento del rapporto stesso.

Elementi questi che, alla stregua dei dati probatori acquisiti in giudizio, concorrono nel definire una prestazione di lavoro ascrivibile alla categoria della subordinazione.

4. Anche la qualificazione in termini di lavoro giornalistico del rapporto di lavoro inter partes da parte del giudice del gravame, discende dalla corretta applicazione dei principi che la giurisprudenza di questa Corte ha nel tempo, con chiarezza enucleato ed ai quali si intende dare continuità, secondo i quali, ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro in termini di lavoro giornalistico ciò che rileva non è tanto l’alveo strutturale organizzativo entro il quale la prestazione di lavoro viene ad esplicarsi, bensì l’ontologica essenza della prestazione stessa alla cui individuazione concorre una pluralità di indici.

Costituisce infatti, attività giornalistica – presupposta, ma non definita dalla L. 3 febbraio 1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista – la prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisire la conoscenza dell’evento, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato, nonchè l’inserimento continuativo del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa (vedi Cass. 29/8/2011 n. 17723).

Si deve quindi, intendere come giornalistica, quella prestazione di lavoro intellettuale, della sfera dell’espressione originale o di critica rielaborazione del pensiero, la quale, utilizzando il mezzo di diffusione scritto, verbale o visivo, è diretta a comunicare ad una massa indifferenziata di utenti, idee, convinzioni o nozioni, attinenti ai campi più diversi della vita spirituale, sociale, politica, economica, scientifica e culturale, ovvero notizie raccolte ed elaborate con obiettività, anche se non disgiunta da valutazione critica (vedi Cass. 12/6/1985 n. 3525).

Il giornalista si pone, dunque, quale mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il compito di acquisirne la conoscenza, valutarne la rilevanza in relazione ai destinatari e predisporre il messaggio con apporto soggettivo e creativo, ed assumendo rilievo, a tal fine, anche l’attualità delle notizie e la tempestività dell’informazione, che costituiscono gli elementi differenziatori rispetto ad altre professioni intellettuali e sono funzionali a sollecitare l’interesse dei cittadini a prendere conoscenza e cosciehza di tematiche meritevoli di attenzione per la loro novità (Cass. 22/11/2010 n. 23625).

Questa Corte, peraltro, con condivisibile approccio, ha altresì ritenuto che non può iscriversi, in maniera riduttiva, l’attività giornalistica radiotelevisiva soltanto nell’ambito dei radio o telegiornali o nelle testate tipicamente giornalistiche e di informazione, ben potendo rientrare la stessa anche in programmi di intrattenimento o li svago, purchè con contenuto propriamente informativo (Cass. 16/12/2013 n. 28035), essendo irrilevante a tali fini la L. 3 febbraio 1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista (posto che la legge citata presuppone e non definisce l’attività giornalistica, Cass. 29/8/2011 n. 17723), ed ancora che è irrilevante ai fini del riconoscimento della natura giornalistica dell’attività svolta dal dipendente RAI la struttura aziendale dell’ente presso cui egli presta la sua attività, essendo significativo, piuttosto, il peculiare carattere informativo (nel senso sopra esposto) delle mansioni svolte (Cass. 27/6/2013 n. 16229, Cass. 19/1/2016 n. 830).

Orbene, nel pervenire all’enunciato convincimento, la Cdrte distrettuale si è attenuta ai summenzionati principi, reputando privo di valenza decisiva il richiamo di parte appellante alla disciplina del sistema radiotelevisivo che avrebbe imposto alla RAI come società concessionaria del servizio

– pubblico, la distinzione fra strutture preposte ai servizi giornalistici (testate giornalistiche) e strutture preposte alla ideazione e realizzazione della programmazione televisiva e radiofonica, e riscontrando nei contenuti della prestazione resa dalla lavoratrice – di ascolto delle telefonate di segnalazione di persone scomparse, acquisizione di altre notizie sui giornali contattando fonti informative, verifica della fondatezza delle notizie, redazione di un testo informativo da sottoporre ai responsabili del servizio… – quei tratti peculiari tipici della attività giornalistica, come enucleati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.

5. Con il terzo motivo si denuncia la nullità della sentenza in relazione agli artt. 112-113 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di pronunciarsi in ordine alla doglianza, formulata in sede di gravame, relativa agli effetti derivanti dalla trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato fissati dalla pronuncia di primo grado, che erroneamente aveva comportato il pagamento delle retribuzioni anche per i periodi non lavorati, lamentando altresì la mancata applicazione, ex officio, dello jus superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5.

6. Con il quarto motivo si prospetta violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5. Si stigmatizza la pronunzia della Corte capitolina per “non aver applicato lo jus superveniens di cui alla disposizione citata, e che 11 giurisprudenza di legittimità ha ritenuto rilevabile d’ufficio, con il solo limite del giudicato interno.

7. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, vanno disattesi.

E’ bene rimarcare che in ordine alla risoluzione del rapporto inter partes, il giudice di prima istanza aveva considerato come, posto che dal 14/7/2008 la RAI non aveva più conferito incarichi alla ricorrente, limitandosi a comunicare verbalmente di non essere più disponibile in tal senso, tale comportamento concludente andasse qualificato in termini di licenziamento verbale.

Detta statuizione, peraltro, non era stata oggetto di alcuna censura. da parte societaria in sede di gravame nè, a fortiori, lo è stata nel presente giudizio di legittimità.

Deve, quindi, ritenersi intangibile il ricordato dictum, confluito nella pronuncia emessa dalla Corte distrettuale, con il quale è stata acclarata la natura orale del recesso e là sua inefficacia per inosservanza dell’onere della forma scritta nonchè l’inidoneità del licenziamento a determinare la risoluzione del rapporto dal quale scaturiva l’obbligo per la società di corrispondere alla lavoratrice le retribuzioni non percepite.

Tanto precisato, non può sottacersi che le censure formulate dalla ricorrente non si confrontano con le ricordate statuizioni e non sono idonee a scalfirle, attesa l’inconferenza del meccanismo predisposto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, rispetto alla qualificazione delle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro inter partes, in termini di licenziamento inefficace, elaborata dai giudici del merito.

E’ infatti dato acquisito, per indirizzo giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato in diritto vivente, che ai fini della applicazione dell’indennità in questione, è necessario verificare la ricorrenza del duplice presupposto della natura a tempo determinato del contratto di lavoro dedotto in giudizio e della sua “conversione”.

Il disposto di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, come affermato dal Giudice delle leggi (vedi Corte Cost. n. 303 del 2011), risulta misura “adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi”, garantendo al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ” ad un’indennità che gli è dovuta sempre, senza oneri probatori di sorta, e al datore di lavoro, la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso (vedi per tutte Cass. 12/2/2019 n. 8385).

Nella fattispecie scrutinata, tuttavia, per quanto sinora detto, tali presupposti non sono riscontrabili, vertendosi in tema di effetti risarcitori connessi a licenziamento inefficace.

Il tema dibattuto nel giudizio di merito con riferimento al momento di cessazione del rapporto inter partes, era stato impostato in termini di inefficacia dell’atto risolutivo del rapporto di lavoro, cd. in senso ampio come precisato da avvertita dottrina – che consegue a vizi attinenti ad elementi essenziali e costitutivi del negozio, quali la forma scritta ad substantiam, determinata da fattori i quali incidono sulla struttura dell’atto rendendolo invalido; il licenziamento intimato oralmente è quindi in tali casi radicalmente inefficace per inosservanza dell’onere della forma scritta imposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2, novellato dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 2 e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro.

Quanto al profilo delle conseguenze che da tali premesse scaturiscono, nella ipotesi considerata, ricorrono le condizioni di applicazione dell’ordinario regime risarcitorio con obbligo di corrispondere, trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a causa dell’inadempimento di parte datoriale (vedi Cass. 10/9/2012 n. 15106).

Si tratta di principi che hanno rinvenuto applicazione nella pronunzia impugnata, rispetto al cui dictum la normativa invocata dalla ricorrente a sostegno delle critiche formulate, per quanto sinora detto, non appare conferente.

7. In definitiva, sotto tutti i profili sinora delineati, il ricorso non può ritenersi meritevole di condivisione.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater,dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 5 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

 

 

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