Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16375 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 10/06/2021, (ud. 23/03/2021, dep. 10/06/2021), n.16375

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 76/15 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

OROFRANCO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del controricorso,

dall’avv. Peter Karl Plattner e dall’avv. Giuseppe Marini, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via dei

Monti Parioli, n. 48;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 743/07/14 depositata in data 7 maggio 2014

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 marzo 2021

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera;

e sul ricorso iscritto al n. 601/15 R.G. proposto da:

OROFRANCO S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore,

rappresentata e difesa, giusta procura a margine del controricorso,

dall’avv. Peter Karl Plattner e dall’avv. Giuseppe Marini, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, via dei

Monti Parioli, n. 48;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 743/07/14 depositata in data 7 maggio 2014

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 marzo 2021

dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate notificò alla Orofranco s.r.l. in liquidazione quattro avvisi di accertamento con i quali rettificò le dichiarazioni I.V.A., Irpeg e Irap, per gli anni dal 2004 al 2007, sulla scorta degli esiti di una attività ispettiva condotta nei confronti della M.Z. Gioielli di M.F. e Z.C. s.n.c..

La contribuente impugnò, con separati ricorsi, gli atti impositivi, lamentando, tra l’altro, il mancato riconoscimento della deducibilità dei costi per l’acquisto della merce presso la M.Z. Gioielli s.n.c., il mancato riconoscimento dell’aliquota media ai fini I.V.A., nonchè l’illegittima acquisizione delle prove per mancanza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

2. La Commissione tributaria provinciale di Vincenza respinse i ricorsi con sentenza avverso la quale propose appello la contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Veneto che, con la sentenza in epigrafe richiamata, in parziale accoglimento dell’appello della contribuente, dichiarò deducibili i costi relativi agli acquisti effettuati presso la M.Z. Gioielli s.n.c., in applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4-bis.

In particolare, i giudici di appello ritennero deducili i costi sostenuti dalla società contribuente per l’acquisto della merce presso la M.Z. Gioielli s.n.c., rilevando che non risultava che nei confronti del liquidatore F.F. fosse stata esercitata l’azione penale da parte della Procura della Repubblica di Padova e che neppure risultava utile, ai fini dell’economia processuale, sospendere il procedimento in attesa che le indagini fossero portate a termine; non accolse, invece, la richiesta di applicabilità dell’aliquota media ai fini I.V.A. sugli acquisti effettuati, in difetto di prova documentale che confermasse l’avvenuto trasferimento all’estero della merce, e sottolineò che dalla documentazione emergeva che tutte le risultanze dell’attività istruttoria svolta nei confronti della M.Z. Gioielli s.n.c. erano state riportate negli avvisi di accertamento impugnati, per cui la contribuente era stata posta nella condizione di contestare pienamente ogni addebito.

Respinse, altresì, il motivo di appello con il quale era stata eccepita l’illegittimità del procedimento di acquisizione delle prove per mancata autorizzazione dell’Autorità giudiziaria alla perquisizione di due borse rinvenute nell’abitazione del socio della M.Z. Gioielli s.n.c., rilevando che il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, prevedeva la necessità dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria solo per l’apertura “coattiva” delle borse, mentre nel caso in esame il proprietario delle borse aveva dato espresso assenso alla loro apertura.

Affermava inoltre che: a) la Guardia di Finanza non era un organo meramente ausiliario; b) la documentazione acquisita nel corso della verifica fiscale era stata correttamente utilizzata ai fini probatori dall’ufficio (anche tramite il confronto tra i codici riportati sulle bollette e quelli riportati sui cataloghi); c) le dichiarazioni rese dal M., utilizzabili nel processo tributario, erano state supportate da riscontri documentali e contabili; d) i prezzi dei singoli gioielli erano stati analiticamente individuati nell’ambito della verifica fiscale; e) la verifica si era basata su prove dirette e su presunzioni legali e non su presunzioni ricavate da altre presunzioni; f) l’irrogazione delle sanzioni era corretta e motivata.

3. Avverso la suddetta decisione d’appello ha proposto ricorso per cassazione, consegnato per la notifica in data 17 dicembre 2014, l’Agenzia delle entrate, affidato ad un unico motivo.

4. La società contribuente, con distinto ricorso, notificato all’Agenzia delle entrate in data 23 dicembre 2014, ha chiesto la cassazione della medesima sentenza d’appello, con sei motivi.

In prossimità dell’adunanza camerale la contribuente ha depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c. nel giudizio iscritto al n. 76/2015 R.G. e nel giudizio recante n. 601/2015 R.G..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, va disposta la riunione deì ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., essendo stati proposti avverso la medesima sentenza.

Per la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. n. 5695 del 20/03/2015) il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorchè proposto con atto a sè stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi”.

Alla stregua di tali principi il ricorso proposto dalla Agenzia delle entrate assume la veste di ricorso principale in quanto notificato il 17 dicembre 2014, mentre l’autonomo ricorso proposto dalla società contribuente, notificato il 23 dicembre 2014, assume la veste di ricorso incidentale.

2. Può quindi procedersi all’esame del ricorso principale.

3. Con l’unico motivo di ricorso la difesa erariale denuncia la violazione o falsa applicazione della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44 e dell’art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3

Espone che la L. n. 537 del 1993, art. 4 ha disciplinato l’imponibilità, ai fini delle imposte dirette, dei redditi derivanti da fatti, atti o attività che costituiscono illeciti civili, penali o amministrativi e che il comma 4-bis, introdotto dalla legge finanziaria 2003, ha escluso, in deroga a tali regole, la deducibilità dei costi e delle spese riconducibili ai comportamenti illeciti, ma solo nel caso in cui gli stessi integrino gli estremi di un reato.

Muovendo dalla indiscussa efficacia retroattiva della novella, la C.T.R., secondo la prospettazione della ricorrente, avrebbe tratto una conclusione non conforme a legge, riconoscendo la deducibilità dei costi sul presupposto che “allo stato” non risultasse ancora esercitata l’azione penale nei confronti del legale rappresentante della società.

Sostiene, al riguardo, che l’esercizio della azione penale è sicuramente requisito sostanziale, ma è indubbio che il previo esercizio di tale azione rispetto all’emissione dell’avviso di accertamento non può costituire requisito procedurale e formale di un atto emesso nel vigore delle previgenti disposizioni, allorquando tale requisito non era previsto dalla legge. In altri termini, secondo la ricorrente, il previo esercizio dell’azione penale non può costituire, per le fattispecie anteriori al D.L. n. 16 del 2012, requisito di legittimità dell’atto, bensì requisito sostanziale che inerisce al rapporto di imposta, per cui, per gli atti emessi nel vigore della disciplina anteriore al D.L. n. 16 del 2012, il requisito dell’esercizio effettivo dell’azione penale può intervenire anche successivamente, sicchè il bilanciamento dei contrapposti interessi avrebbe dovuto condurre i giudici di appello a disporre la sospensione del processo, in applicazione dell’art. 295 c.p.c..

4. Con il primo motivo del ricorso incidentale – rubricato: “vizio della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero circa l’effettivo assolvimento, da parte dell’Agenzia delle entrate, dell’onere della prova sulla stessa incombente, laddove non si è tenuto conto di quanta e quale della documentazione relativa all’attività istruttoria svolta nei confronti della M.Z. Gioielli s.n.c. e dei suoi soci è stata resa disponibile alla Orofranco s.r.l.” – la ricorrente censura la decisione gravata nella parte in cui la C.T.R. non ha riconosciuto che gli avvisi di accertamento sono illegittimi perchè rinviano ad atti istruttori ad essa sconosciuti. Lamenta, come già denunciato in primo grado, che la Guardia di Finanza aveva allegato al processo verbale di constatazione notificato solo uno stralcio delle risultanze istruttorie dell’attività condotta a carico della M.Z. Gioielli s.n.c., senza tuttavia allegare copia integrale del processo verbale di constatazione e degli altri atti istruttori, nè copia delle autorizzazioni necessarie per il legittimo espletamento delle attività istruttorie, in particolare di quelle condotte in sede di accesso domiciliare presso l’abitazione del M. e dello Z. e di quelle attinenti l’apertura delle borse rinvenute presso l’abitazione del primo, impedendo in tal modo di verificare se l’attività svolta nei confronti di terzi sia stata legittimamente autorizzata.

5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3.

La documentazione contabile ed extracontabile rinvenuta dai verificatori all’interno delle borse presso l’abitazione del legale rappresentante della M.Z. Gioielli s.n.c. era stata utilizzata ai fini fiscali, sebbene la relativa acquisizione non fosse stata previamente autorizzata da parte dell’autorità giudiziaria, ed era stata poi “valorizzata” a suo carico; tali prove documentali non erano invece utilizzabili, in quanto acquisite in violazione del citato art. 52, che, al comma 3, per l’apertura delle borse richiedeva l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica, nel caso di specie non rilasciata. L’eventuale consenso del proprietario delle borse aperte, quand’anche effettivamente reso – circostanza sempre negata e non provata – non poteva in ogni caso rendere superflua la prevista autorizzazione dell’autorità giudiziaria posta a garanzia dei soggetti sottoposti a verifica.

6. Con il terzo motivo del ricorso incidentale, denunciando omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ossia circa l’effettiva sussistenza di un “espresso assenso” da parte del M. all’apertura delle borse chiuse rinvenute presso la propria abitazione, la società ribadisce che dagli elementi istruttori acquisiti agli atti del giudizio non risultava in alcun modo che il M. avesse prestato il proprio assenso all’apertura delle borse.

7. Con il quarto motivo del ricorso incidentale si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 24,111 e 3 Cost. e si duole che i giudici di appello hanno erroneamente ritenuto che nel caso in cui, in sede di accertamento, l’Amministrazione finanziaria contesti l’effettuazione di vendite in nero ai fini I.V.A., la stessa sia legittimata sempre ad applicare a tali vendite l’aliquota I.V.A. ordinaria, quale che sia il regime cui normalmente sono assoggettate le vendite effettuate dal soggetto accertato.

Nel corso del giudizio di merito aveva eccepito e provato di essere un esportatore abituale e di vendere la merce in misura preponderante all’estero, con conseguente applicabilità del regime di non imponibilità I.V.A., per cui, a fronte di tale prova, l’aliquota da applicare doveva quanto meno essere quella “media”. La C.T.R., affermando che non era stata fornita la prova documentale che confermasse l’avvenuto trasferimento all’estero della merce, aveva violato la disposizione di cui all’art. 2697 c.c., pretendendo dalla contribuente una prova diabolica.

Sotto altro profilo, la sentenza, ad avviso della contribuente, sarebbe viziata per violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) poichè introduce una ingiustificata disparità di trattamento, da un lato, tra soggetti che vengono assoggettati ad accertamento e che intendono esercitare in giudizio il proprio diritto di difesa e soggetti che definiscono in adesione le pretese derivanti dagli accertamenti; dall’altro, tra soggetti destinatari di un generico accertamento analitico-induttivo e soggetti destinatari di accertamento analitico-induttivo basato sulle risultanze degli studi di settore. E ciò perchè, seguendo l’interpretazione della C.T.R., mentre i primi sarebbero assoggettati all’aliquota I.V.A. ordinaria, coloro che definiscono in adesione un accertamento avente conseguenze anche in ambito I.V.A. si vedrebbero applicata l’aliquota media, come pure i destinatari di accertamenti analitico-induttivo basato sulle risultanze degli studi di settore.

8. Con il quinto motivo del ricorso incidentale si censura la decisione impugnata per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, nonchè del D.M. 16 luglio 1926, art. 1 nella parte in cui i giudici di appello hanno rigettato il motivo di gravame concernente la illegittimità degli atti per inammissibile delegazione del potere accertativo alla Guardia di Finanza che era organo meramente ausiliario, considerato che alla Guardia di Finanza era attribuito il potere di cooperare per l’acquisizione e il reperimento degli elementi utili per l’accertamento.

9. Con il sesto motivo del ricorso incidentale si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Con i motivi di appello aveva denunciato l’erroneità della sentenza di primo grado per non avere accolto il motivo avente ad oggetto il difetto di motivazione e di prova che caratterizzava gli avvisi di accertamento, per avere rigettato il motivo relativo all’inutilizzabilità delle dichiarazioni rilasciate dal M. e quello concernente l’illegittimità degli avvisi di accertamento per incomprensibilità dei conteggi e per avere omesso di pronunciarsi in punto di legittimità degli avvisi di accertamento conseguente alla violazione del divieto di trarre presunzioni da altre presunzioni; la C.T.R. si era limitata a motivare apparentemente su tali profili di censura, senza dare conto delle ragioni che l’avevano portata alle proprie conclusioni.

10. Il motivo di ricorso formulato dall’Agenzia delle entrate è infondato e non va accolto.

10.1. La L. 27 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis, così come novellato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, commi 1 e 3, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, costituisce jus superveniens astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva (ex multis, cfr. Cass., sez. 5, 17/12/2014, n. 26461; Cass., sez. 6-5, 06/07/2018, n. 17788; Cass., sez. 5, 5/12/2019, n. 31789. Sull’applicabilità, anche in tema di I.V.A., del principio, posto dalla disposizione della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, secondo il quale i proventi provenienti da attività illecita sono assoggettabili ad imposizione, cfr. Cass., sez. 5, 26/07/2017, n. 18495).

Dispone il predetto art. 14, comma 4-bis, che: “Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p..”.

10.2. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 190 del 16 luglio 2012, ha statuito che: a) con la nuova formulazione del comma 4-bis, il legislatore, da un lato, ha ridotto l’ambito dei componenti negativi connessi ad illeciti penali e non ammessi in deduzione nella determinazione dei redditi di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, limitandolo ai “costi e (…) spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” e, dall’altro, ha richiesto che, in relazione a tale delitto, “il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque,… il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p….”.

10.3. Oltre al collegamento diretto tra il costo e l’ipotesi di reato non colposo, la novella legislativa prevede un ulteriore presupposto affinchè possa scattare l’indeducibilità del costo, essendo necessario che in relazione al delitto non colposo il Pubblico Ministero abbia esercitato l’azione penale.

Va precisato al riguardo che, in vigenza della precedente versione del richiamato comma 4-bis, che parlava di fatti, atti o attività “qualificabili” come reato e non di fatti, atti o attività qualificati come tali, si discuteva se la sanzione dell’indeducibilità potesse trovare applicazione soltanto dopo la condanna penale, ossia dopo l’accertamento, da parte del giudice penale, della responsabilità dell’autore del reato, oppure anche prima di tale momento. La nuova formulazione della norma, come emerge chiaramente dal dato letterale, ponendo fine alla pratica di contestare l’indeducibilità del costo sulla base della mera trasmissione al Pubblico Ministero della notizia di reato a carico del contribuente, conferma che l’esercizio dell’azione penale, da parte del pubblico ministero, con la richiesta di rinvio a giudizio, è sufficiente ad escludere che siano ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. Con la conseguenza che i costi non possono essere considerati indeducibili sino a quando il Pubblico Ministero non abbia almeno avviato l’azione penale.

10.4. Con la circolare n. 32/E/12 la stessa Agenzia delle entrate ha affermato che la nuova formulazione normativa prevede che: a) “l’indeducibilità del costo possa in primo luogo essere contestata se, in relazione al connesso delitto non colposo, il pubblico ministero, valutati gli elementi raccolti durante le indagini preliminari idonei a sostenere l’accusa in giudizio e non ritenendo, per converso, sussistenti i presupposti per una richiesta di archiviazione, abbia esercitato l’azione penale ex art. 50 c.p.p., formulando la conseguente ipotesi accusatoria con la richiesta di rinvio a giudizio dell’indagato, che da tale momento assume la qualità di imputato”; b) “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese afferenti al delitto in relazione al quale il giudice abbia comunque emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p.”; c) il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, stabilisce, infine, che l’indeducibilità dei costi relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di attività delittuose, non colpose, permanga anche nell’ipotesi in cui il giudice abbia emesso sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p., pronunciata per intervenuta prescrizione del reato ai sensi dell’art. 157 c.p..

Il documento di prassi chiarisce, al punto 2.2., che “In tal modo, il legislatore ha inteso quindi subordinare la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di contestare l’indeducibilità di costi e spese al preventivo esercizio dell’azione penale, al fine di garantire che l’attività di controllo fiscale abbia luogo sulla base di presupposti qualificati dal vaglio preventivo degli organi giudiziari”.

10.5. La disposizione in esame, come già detto, in forza del chiaro tenore letterale del disposto di cui al D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 3 trova applicazione anche in relazione a fatti e atti rispetto ai quali la contestazione dell’indeducibilità dei costi sia avvenuta quando era ancora vigente la disciplina ante novella e, pertanto, l’efficacia retroattiva della modifica legislativa, espressamente prevista dalla legge, prevale sul principio del tempus regit actum invocato dall’Agenzia delle entrate nel proprio ricorso (pag. 5).

10.6. L’applicazione della norma, dunque, richiede di attendere che i beni o servizi acquisiti per effetto del sostenimento del costo siano concretamente impiegati e, qualora siano stati impiegati direttamente nella commissione del delitto colposo, essi – sempre che il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale – divengono indeducibili.

Il giudice tributario, pertanto, non può accertare incidenter tantum se l’atto o l’attività è qualificabile come delitto non colposo, ma può solo verificare se ricorrono le condizioni che consentono all’Agenzia di entrate di recuperare detti costi, ossia se l’azione penale è stata esercitata e se sussistono i provvedimenti del giudice penale indicati nell’art. 14, comma 4-bis citato, ma non può sindacarne il fondamento, stante il rapporto di reciproca autonomia del processo penale e di quello tributario.

In sostanza, ai fini della soluzione della controversia fiscale, il giudice tributario ha cognizione, in via puramente incidentale, della fattispecie delittuosa nell’ipotesi in cui, in sede penale, si sia verificato il presupposto di applicabilità della norma ed il contribuente decida, comunque, di difendersi nel processo tributario sulla sussistenza della fattispecie di reato.

Da ciò discende che il processo tributario non deve essere sospeso, perchè opera la regola sancita dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20, secondo cui “il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”.

10.7. La Commissione tributaria regionale, evidenziando che non risultava che nei confronti del liquidatore della società contribuente fosse stata esercitata l’azione penale e non ritenendo utile sospendere il procedimento in attesa delle conclusioni delle indagini, ha correttamente affermato che l’Amministrazione finanziaria non potesse contestare l’indeducibilità dei costi relativi all’acquisto, da parte della società Orofranco s.r.l., di merci presso la M.Z. Gioielli s.n.c., in tal modo facendo buon governo della disposizione normativa di cui si discute.

La decisione impugnata va dunque esente dalle censure ad essa rivolte con il mezzo in esame.

11. Il primo motivo del ricorso incidentale è inammissibile.

11.1. Occorre rammentare che secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass., sez. 5, 25/07/2012, n. 13110; Cass., sez. 5, 13/02/2019, n. 4176) “l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento, o, ancora, che gli atti richiamati siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notifica”.

In particolare, deve ritenersi che l’art. 7 dello lo Statuto del contribuente nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento da esso richiamato in motivazione, si riferisca esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (Cass., sez. 5, 4/07/2014, n. 15327).

11.2. La Commissione tributaria regionale, nel rigettare il motivo di gravame con il quale la società contribuente contestava ai giudici di primo grado di non avere riconosciuto l’illegittimità degli avvisi di accertamento per omessa completa allegazione degli atti istruttori in essi richiamati e sconosciuti alla stessa contribuente, ha così motivato: “…va respinto il motivo di appello relativo al difetto di prova conseguente ad atti istruttori sconosciuti alla società appellante. Dalla documentazione in atti appare infatti chiaramente che tutta l’attività istruttoria svolta nei confronti della M.Z. Gioielli e le sue risultanze sono state riportate negli avvisi di accertamento impugnati; pertanto, la Orofranco s.r.l. in liquidazione è stata posta nella condizione di contestare pienamente ogni addebito nella competente sede giudiziale”.

11.3. L’apprezzamento svolto dai giudici di appello non può essere scalfito dalla censura sollevata con il mezzo in esame dalla contribuente.

Al riguardo, va rilevato che, essendo stata la sentenza impugnata depositata successivamente all’11.09.2012, al presente procedimento è applicabile ratione temporis il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nella formulazione modificata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, che non consente la censura di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ma solo la contestazione dell'”omesso esame” di un fatto decisivo, riferimento introdotto dalla detta riforma.

Il parametro di cui al n. 5 predetto richiede il richiamo a un “fatto” controverso o comunque oggetto di discussione, di cui la parte ricorrente deve farsi carico di dimostrare la “decisività” per il giudizio, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione alle ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (Cass., Sez. U, 7/04/2014, n. 8053; Cass., sez. U, 22/9/2014, n. 19881; Cass., sez. 3, 10/06/2016, n. 11892; Cass., sez. 3, 12/10/2017, n. 23940).

In relazione a ciò, il motivo è inammissibile in quanto con la doglianza non sono stati indicati fatti storici controversi in ordine ai quali l’esame della Commissione di merito sarebbe stato incongruamente motivato, bensì sono state contestate le valutazioni alle quali, esaminando le risultanze fattuali di causa, il giudice di merito è pervenuto.

12. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, strettamente connessi, possono essere trattati unitariamente e sono infondati.

12.1. In tema di accertamento dell’I.V.A., il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52 prevede, al comma 1, l’accesso degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria presso i locali adibiti all’esercizio dell’attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo (e, dunque, anche abitativo) e, al comma 2, l’accesso presso i locali adibiti ad uso diverso e, dunque, esclusivamente abitativo; nel primo caso, è richiesta la semplice autorizzazione del capo dell’ufficio e del Procuratore della Repubblica, senza l’indicazione di specifici presupposti, ponendosi tali autorizzazioni come meri adempimenti procedimentali, legati alla necessità che la perquisizione sia avallata da un’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, trovando il suo fondamento nell’inviolabilità del domicilio di cui all’art. 14 Cost..

Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, l’effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda (Cass., sez. 5, 18/12/2014, n. 26829).

L’autorizzazione del P.M. all’accesso domiciliare, prevista in presenza di gravi indizi di violazione delle norme tributarie, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 in materia di I.V.A., costituisce pertanto un provvedimento necessario per la legittimità dell’accertamento e il giudice tributario, davanti al quale sia in contestazione la pretesa impositiva avanzata sui risultati dell’accesso domiciliare, può essere chiamato a controllare l’esistenza del decreto del P.M. e la presenza in esso dei requisiti indispensabili atti a fondare l’accesso (Cass., sez. 5, 11/10/2017, n. 23824).

L’illegittimità o la mancanza del provvedimento di autorizzazione del Procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comporta l’inutilizzabilità delle prove acquisite in seguito a un accesso domiciliare, anche nel caso in cui il contribuente abbia consegnato spontaneamente la documentazione (Cass., sez. 6-5, 15/01/2019, n. 673).

12.2. Nel caso di specie, secondo quanto emerge dal verbale redatto dalla Guardia di Finanza Compagnia di Padova, prodotto dalla stessa contribuente, l’attività ispettiva svolta a carico della M.Z. Gioielli s.n.c. ha avuto inizio presso gli uffici della società ed è proseguita con un accesso presso le abitazioni di M.F., legale rappresentante della stessa società, e di Z.C., socio della stessa, in esecuzione di un decreto emesso dalla Procura della Repubblica di Padova.

12.3. Con accertamento in fatto non scrutinabile in questa sede la C.T.R. ha rilevato che l’apertura delle borse rinvenute presso l’abitazione del M., all’esito della quale è stata acquisita documentazione contabile ed extracontabile, successivamente utilizzata ai fini della ripresa fiscale nei confronti dell’odierna contribuente, è avvenuta previo “espresso assenso” manifestato dal proprietario delle borse.

Diversamente da quanto asserito dalla contribuente, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3 (e necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33), è richiesta soltanto nel caso di “apertura coattiva”, e non anche quando l’attività di ricerca si svolga con la collaborazione del contribuente (cfr. Cass., sez. 5, 18/02/2015, n. 3204; Cass., sez. 5, 23/04/2007, n. 9565; Cass., sez. 5, 4/10/2018, n. 24306; Cass., sez. 5, 19/01/2021, n. 737).

Conseguentemente, deve ritenersi legittima l’acquisizione della documentazione custodita all’interno della borsa rinvenuta in sede di verifica fiscale. Nella specie, infatti, l’apertura si è perfezionata a seguito di richiesta dei verificatori alla quale si è dato corso, senza cha sia stato opposto un rifiuto e senza necessità di rimuovere ostacoli all’accesso ai documenti e non risultando in atti e nella sentenza che i verificatori abbiano dovuto forzare alcun meccanismo di chiusura della borsa stessa. Deve, quindi, escludersi, che si ricada in un caso di apertura “coattiva”, o contro la volontà del contribuente, per l’esecuzione della quale operazione è necessaria l’autorizzazione del Pubblico Ministero (così, Cass., sez. 5, 18/02/2015, n. 3204; conforme, Cass., sez. 5, 4/10/2018, n. 24306).

La decisione impugnata non risulta, pertanto, emessa in violazione del comma 3 52 citato, nè è ravvisabile omesso esame di un fatto oggetto di discussione e decisivo, ben potendo la documentazione acquisita con modalità del tutto legittime essere utilizzata ai fini della verifica effettuata nei confronti della Orofranco s.r.l.

13. Anche il quarto motivo non è meritevole di accoglimento.

13.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte, “In materia di I.V.A., le norme che prevedono aliquote agevolate costituiscono un’eccezione rispetto alle disposizioni che stabiliscono, in via generale, le aliquote ordinarie, sicchè spetta al contribuente, che voglia far valere tali circostanze – le quali, pur non escludendola, riducono sul piano quantitativo la pretesa del fisco – provare l’esistenza dei presupposti per la loro applicazione, e cioè dei fatti costituenti il fondamento della sua eccezione (…)” (Cass., sez. 5, 9/05/2003, n. 7124; conf., Cass., sez. 5, 23/11/2001, n. 14904; Cass., sez. 5, 3/05/2005, n. 9143; Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15299; Cass., sez. 5, 6/11/2019, n. 28563).

13.2. I giudici regionali hanno riconosciuto che la Orofranco s.r.l. in liquidazione fosse esportatrice abituale di merce all’estero, ma hanno ritenuto non applicabile l’aliquota media ai fini I.V.A. per difetto di prova documentale, non offerta dalla società contribuente, dell’avvenuto trasferimento all’estero della merce di cui non risulta documentata la vendita ed hanno, conseguentemente, considerato del tutto legittima l’applicazione, da parte dell’Ufficio, dell’aliquota ordinaria. Così argomentando, non sono incorsi nella denunciata violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395; Cass., sez. 6-3, 31/08/2020, n. 18092).

Peraltro, le difficoltà inerenti alla prova così richiesta non possono costituire poi argomento giuridico idoneo a derogare ai principi generali in materia di onere della prova, sicchè del tutto impropriamente risultano dedotte presunte violazioni al diritto di difesa ed ai principi di uguaglianza e di parità delle armi.

D’altro canto, la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Cass., sez. U, 12/11/2020, n. 25573).

14. Va dichiarato inammissibile, per difetto di autosufficienza, il quinto motivo.

La ricorrente, richiamando il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, nonchè il D.M. 16 luglio 1926, art. 1, che qualifica la Guardia di Finanza come “organo sussidiario degli uffici finanziari”, si limita a censurare l’affermazione contenuta nella decisione impugnata, laddove si legge “si ritiene… che la Guardia di finanza non sia organo meramente ausiliario”, ma non trascrive in ricorso il motivo di gravame con il quale aveva eccepito l’illegittimità degli atti per inammissibile delegazione del potere accertativo alla Guardia di Finanza, non consentendo in tal modo a questa Corte di poter valutare la decisività della doglianza svolta.

15. La censura sollevata con il sesto motivo è infondata.

La giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha affermato che si ha motivazione omessa o apparente quando il giudice di merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito.

Ciò non ricorre nel caso in esame, laddove la C.T.R., sia pure in maniera sintetica, ha ritenuto di dovere rigettare i profili di doglianza fatti valere dalla contribuente con i motivi di appello (inutilizzabilità delle dichiarazioni rilasciate dal M., incomprensibilità dei conteggi contenuti negli avvisi di accertamento, violazione del divieto di trarre presunzioni da altre presunzioni), confermando integralmente l’accertamento perchè basato su documentazione acquisita nel corso della verifica e correttamente utilizzata ai fini probatori dall’Ufficio.

Trattasi di motivazione che non può considerarsi meramente apparente, in quanto esplicita le ragioni della decisione, per cui eventuali profili di apoditticità della motivazione, censurati col motivo in esame, quand’anche sussistenti, non vizierebbero tale motivazione in modo così radicale da renderla meramente apparente, escludendone l’idoneità ad assolvere alla funzione cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (cfr. Cass., sez. 5, 17/03/2015, n. 5315; Cass., sez. 6-5, 7/04/2017, n. 9105; Cass., sez. 6-5, 23/05/2019, n. 13977).

16. In conclusione, il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate e quello proposto dalla società contribuente vanno rigettati.

Le spese del giudizio di legittimità, in ragione della reciproca soccombenza, vanno integralmente compensate tra le parti.

P.Q.M.

riunito al presente ricorso quello iscritto al n. 601/15 R.G., rigetta il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate; rigetta il ricorso proposto dalla Orofranco s.r.l. in liquidazione.

Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della Orofranco s.r.l. in liquidazione, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

 

 

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