Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1636 del 24/01/2020

Cassazione civile sez. VI, 24/01/2020, (ud. 25/09/2019, dep. 24/01/2020), n.1636

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29073-2017 proposto da:

G.G., T.D., P.A., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA FRANCESCO DENZA 15, presso lo studio

dell’avvocato NICOLA PAGNOTTA, rappresentati e difesi dagli avvocati

ALGIDE SIMONETTI, NICOLA CARRATE;

– ricorrenti –

contro

L.C. in proprio e nella qualità di Procuratrice Speciale

di L.L. e L.A., tutte nella qualità di eredi di

L.F., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA VINCENZO

PICARDI 4/D, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO TURNO,

rappresentate e difese dall’avvocato ROBERTO LAGHI;

– controricorrenti –

contro

G.A., L.R.F., B.M., C.M.,

G.P., G.R., G.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1714/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 05/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSETTI

MARCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 1988 T.D., G.G. ed P.A., unitamente ad altri coimputati, vennero condannati in sede penale a risarcire il danno patito da L.F., in conseguenza del delitto di cui all’art. 324 c.p., per avere, nella veste di amministratori del comune di Spezzano Albanese, assunto due persone in violazione di legge, escludendo dall’assunzione il suddetto L., che invece vi aveva diritto.

2. Nel 1992 L.F. convenne le persone sopra indicate dinanzi al Tribunale di Castrovillari, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni.

Tale domanda venne rigettata sia in primo grado (sentenza 10.12.2002) che in secondo grado (Corte d’appello di Catanzaro, 28.3.2012); la sentenza d’appello venne cassata da questa Corte limitatamente al rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale (sentenza 2.8.2016 n. 16026).

3. La Corte d’appello di Catanzaro, in sede di rinvio, condannò gli odierni ricorrenti al risarcimento in favore degli eredi di L.F., deceduto nelle more del giudizio (e cioè L.A.C., L.R. e L.L.), della somma di Euro 181.972,38.

4. Tale sentenza è stata impugnata per cassazione da T.D., G.G. e P.A., con ricorso fondato su quattro) motivi ed illustrato da memoria.

Resistono con controricorso gli eredi Luzzi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso.

1.1. I primi due motivi di ricorso) possono essere esaminati congiuntamente. Con essi, infatti, i ricorrenti deducono che l’originario attore, per pretendere il risarcimento del danno derivato dalla mancata assunzione alle dipendenze del Comune di Spezzano Albanese, avrebbe dovuto dimostrare di non avere svolto alcuna attività lavorativa tra il 1986 e del 1995, ovvero nel periodo in cui avrebbe avuto diritto di essere assunto.

Tale doglianza viene prospettata sia come violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 (assumendosi violati gli artt. 2043 e 2697 c.c.), sia come omesso esame d’un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

1.2. La censura è infondata in ambedue i profili in cui si articola.

Con riferimento al vizio di violazione di legge essa è infondata, in quanto la circostanza che il lavoratore ingiustamente estromesso (così come quello ingiustamente licenziato) abbiano, nelle more del giudizio di risarcimento) del danno, lavorato e percepito comunque un reddito (c.d. alilinde percepirmi) rappresenta un fatto impeditivo della pretesa attorca, e deve essere provato da chi lo eccepisce, non da chi invoca il risarcimento, in applicazione del generale precetto di cui all’art. 2697 c.c. (Sez. L, Sentenza n. 1099 del 03/02/1998, Rv. 512186 – 01, in motivazione).

1.3. Con riferimento al vizio di omesso esame d’un fatto decisivo la censura è del pari infondata: ed infatti l’errore del giudice di merito che trascuri si esaminare un fatto costitutivo della domanda o dell’eccezione deve riguardare un fatto debitamente provato (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830), mentre nel caso di specie sono gli stessi ricorrenti ad assumere che nessuna prova positiva o negativa dell’aliunde perceptum sia stata raccolta in giudizio.

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1226, 2056 e 2697 c.c..

Sostengono che il giudice di merito ha liquidato il danno in modo illogico; che non poteva far ricorso alla liquidazione equitativa perchè l’attore non l’aveva invocata; che la mancanza di qualsiasi prova sull’ammontare del danno impediva di ricorrere alla liquidazione equitativa; che l’età del danneggiato ed il verosimile impiego del suo tempo in altre attività remunerative rappresentavano circostanze che avrebbero dovuto indurre la Corte d’appello a liquidare il danno in misura inferiore.

3.2. Il motivo è in parte infondato, ed in parte inammissibile.

Nella parte in cui lamenta un sostanziale vizio di ultrapetizione, per avere il giudice proceduto alla liquidazione del danno in via equitativa ex officio, la censura è infondata, dal momento che la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. non richiede alcuna sollecitazione di parte, così come l’adozione di qualsiasi altri criterio liquidativo del danno aquiliano, la cui scelta è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito, se la legge non disponga altrimenti (e./- multis,Sez. 1, Sentenza n. 25943 del 11/12/2007, Rv. 600940 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 17492 del 09/08/2007, Rv. 598878 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24451 del 18/11/2005, Rv. 587946 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 22895 del 11/11/2005, Rv. 585454 – 01; e soprattutto Sez. 3, Sentenza n. 315 del 11/01/2002, Rv. 551499 – 01; il principio, peraltro, è consolidato a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2655 del 14/11/1961, Rv. 882260 – 01, ove si afferma appunto che “il giudice può far ricorso al criterio della liquidazione equitativa del danno, ove ne ricorrono le condizioni, anche di ufficio, trattandosi si criterio rimesso al sio prudente apprezzamento. Tale facoltà può essere esercitata d’ufficio anche dal giudice di appello”).

3.3. Nella parte in cui lamenta che la Corte d’appello non avrebbe potuto fare ricorso alla liquidazione equitativa, perchè questa è consentita solo quando sia “impossibile” liquidare il danno nel suo esatto ammontare, il motivo è del pari infondato.

Il danno da lucro cessante per la perdita del reddito cui si avrebbe avuto diritto, se non fosse stato commesso il fatto illecito, è per definizione un danno che “non può essere provato nel suo preciso ammontare”, giacchè dipende da una serie non determinabile di poste sia attive che passive: la perdita della progressione in carriera, degli straordinari, dei fringe benefits; ma anche il risparmio delle spese di produzione del reddito, di trasporto, degli oneri previdenziali ed assicurativi a carico del lavoratore.

Si tratta, dunque, d’un tipo di danno in cui più che altrove si rende necessario il ricorso alla liquidazione equitativa: del che si è mostrato avvisato lo stesso legislatore, allorchè stabilì (art. 2056 c.c., comma 2) che “il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”.

3.4. Nella patte restante, infine, il motivo è inammissibile, perchè sollecita da questa Corte una nuova e diversa valutazione delle prove, rispetto a quella compiuta dal giudice di merito.

Ma una censura di questo tipo cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

4. Col quarto motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 1227 c.c..

Sostengono che la Corte d’appello ha erroneamente rigettato la loro eccezione, con la quale avevano invocato il concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art. 1227 c.c..

Deducono che il concorso di colpa della vittima consistette nel non aver impugnato dinanzi al giudice amministrativo la delibera di assunzione dei due soggetti che non ne avevano diritto, “essendosi invece limitato a proporre il lamento (sic) penale, laddove il giudice penale non avrebbe afflitto potuto affermare il diritto del medesimo Liti ad essere assunto”.

4.1. Il motivo è innanzitutto inammissibile.

Denunciare in sede di legittimità l’omesso esame d’una eccezione è un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sull’atto processuale contenente l’eccezione del cui mancato esame il ricorrente si duole.

Quando il ricorso si fonda su atti processuali, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuoi dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. L, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. I, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Di questi tre oneri, i ricorrenti non ne hanno assolto alcuno, limitandosi ad allegare che nel giudizio di merito venne “più volte eccepita la sussistenza del fatto colposo del danneggiato” (così il ricorso, p. 17).

Il ricorso, però, non riassume nè trascrive i termini della suddetta eccezione; nè indica con quale atto ed in quale fase processuale (atto di citazione, memorie ex art. 183 c.p.c.) sia stata sollevata.

4.2. Ad abundantiam, vuol tuttavia questa Corte rilevare che in ogni caso il motivo sarebbe stato anche manifestamente infondato nel merito, dal momento che il concorso di colpa della vittima esige una condotta negligente, e non può mai ritenersi negligente la scelta della vittima di non compiere un’attività onerosa o rischiosa, quale è appunto l’introduzione di un giudizio di impugnazione di un provvedimento amministrativo (ex plarimis, in tal senso, Sez. 1 -, Ordinanza n. 20146 del 30/07/2018, Rv. 649908 – 02).

5. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

11 rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto) dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna T.D., G.G. e P.A., in solido, alla rifusione in favore di P.A., L.C., L.R. e L.L., in solido, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 6.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di T.D., G.G. e P.A., in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 25 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 24 gennaio 2020

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