Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16344 del 04/08/2016


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Cassazione civile sez. lav., 04/08/2016, (ud. 27/04/2016, dep. 04/08/2016), n.16344

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4822-201E proposto da:

B.M., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DEGLI SCIPIONI 191, presso lo studio dell’avvocato FERDINANDO

SALMERI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ASSOCIAZIONE DI SERVIZI SOCIOPSICOPEDAGOGICI – ENTE GESTORE DEL

CENTRO di RIABILITAZIONE “VILLA BETANIA”, C.F. (OMISSIS), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA CAPO PELORO 3, presso lo studio dell’Avvocato GIOVANNI

COSTANTINO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2012/2014 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 12/12/2014 r.g.n. 127/2024;

udita la relazione iella causa svolta nella pubblica udienza dei

21/04/2016 dal Consigliere Dott. ADRIANO PlERGIOVANNI PATTI;

udito l’Avvocato COSTANTINO GIOVANNI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

La Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva respinto l’opposizione proposta dall’Associazione di Servizi Sociopsicopedagogici – Ente gestore del Centro di Riabilitazione “Villa Betania” avverso l’ordinanza con cui lo stesso Tribunale aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento orale dalla medesima intimato il 24 maggio 2012 a B.M., con le coerenti conseguenze reintegratorie e risarcitorie), con sentenza 12 dicembre 2014, rigettava le domande proposte dal lavoratore, che condannava alla restituzione, in favore dell’Associazione, della somma di Euro 23.051,69 dalla stessa corrisposta in esecuzione della condanna subita, oltre interessi legali dalla data del pagamento.

Preliminarmente ritenuta l’applicabilità ratione temporis della L. n. 92 del 2012 all’impugnazione di licenziamento orale da datore di lavoro annoverante oltre trenta dipendenti e non in grado di dare prova del carattere non imprenditoriale dell’attività esercitata, la Corte territoriale escludeva, per critico esame (dopo il primo contratto a progetto tra le parti con scadenza 31 dicembre 2007) della lettera di assunzione 1 aprile 2008 definita da Villa Betania “nota di incarico libero professionale del 1 aprile 2008”, la sussistenza in essa dei requisiti formali e sostanziali per la sua qualificazione alla stregua di contratto di lavoro a progetto.

In esito all’argomentata disamina delle risultanze istruttorie, nella ritenuta esclusione della presunzione assoluta di conversione del rapporto in lavoro subordinato, ai sensi del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 (anche in relazione ad interpretazione non abrogatrice dsella L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 25) e pertanto della contraria possibilità di prova del datore di lavoro, essa ravvisava la natura autonoma del rapporto: con la conseguente condanna restitutoria del lavoratore, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., in accoglimento di domanda dell’associazione, ben ammissibile in appello siccome domanda non qualificabile come nuova ed incontestata l’avvenuta corresponsione della somma.

Con atto notificato il 10 febbraio 2015, B.M. ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste l’Associazione con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1 in riferimento all’interpretazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la negata retroattività, al fine di evitare un’interpretazione abrogatrice della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 25 (di applicazione delle disposizioni contenute nei due comma precedenti ai contratti di collaborazione successivi all’entrata in vigore della legge citata), della norma interpretativa del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 contenuta nella L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 24: e quindi della presunzione assoluta di conversione in rapporto di lavoro subordinato del contratto a progetto privo dei requisiti di legge.

Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2729 e 2697 c.c. in riferimento agli artt. 2094 e 2222 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erroneo assunto di onere datoriale di prova, a fronte dell’accertata inesistenza di un progetto, della sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo tra le parti, pure non correttamente ritenuto nonostante la ricorrenza degli indici di subordinazione attenuata, coerenti con la propria posizione di direttore amministrativo.

Con il terzo, il ricorrente deduce omesso esame delle decisive circostanze, evidenziate nei propri atti, dell’effettivo inserimento, per funzioni e mansioni esercitate, nell’organizzazione aziendale dell’Associazione e dell’assenza di rischio di impresa caratterizzante il lavoro autonomo.

Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1 in riferimento all’interpretazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69 per la negata retroattività della norma interpretativa denunciata, è infondato.

Osserva in via preliminare la Corte come ad essa non sia stata devoluta, con il mezzo in esame e neppure con gli altri due, la questione dell’interpretazione del D.Lgs. n. 76 del 2006, art. 69, primo comma secondo cui: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art. 61, comma 1 sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. Sicchè la conversione di un siffatto rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in via automatica ovvero previo accertamento giudiziale, esula dall’odierno ambito decisionale, focalizzato esclusivamente sulla portata precettiva della L. n. 92 del 2012, art. 1 se solo per il futuro o anche per il passato.

In particolare, l’art. 1, comma 24 L. cit. stabilisce: “il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 si interpreta nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

La sua applicazione è peraltro inequivocabilmente fissata temporalmente, secondo il canone ermeneutico principale dell’attribuzione di senso del significato proprio delle parole secondo la loro connessione, chiaramente espressiva dell’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1), dall’art. 1, comma 25 stessa legge, che appunto prevede: “Le disposizioni di cui ai commi 23 e 24 si applicano ai contratti di collaborazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.

Essa dispone quindi, secondo la regola ordinaria stabilita dall’art. 11 preleggi, comma 1 e secondo la discrezionalità del legislatore, per l’avvenire, pure avendo ad oggetto l’interpretazione di una norma preesistente, senza lesione di alcuna norma costituzionale: in realtà, neppure individuata come parametro comparativo ai fini della questione di legittimità prospettata, in modo palesemente infondato, dal ricorrente nella memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. (in fine del p.to 2 di pg. 4) e pertanto pure inammissibilmente, essa esigendo la prospettazione di un motivo per la sua funzionalità alla cassazione della sentenza Impugnata (Cass s u 24 gennaio 2013, n. 1707; Cass. s.u. 25 novembre 2008, n. 28050).

L’eccezione alla regola è piuttosto rappresentata dalla retroattività della norma interpretativa: pure in assenza di un espresso divieto come invece previsto dall’art. 25 Cost. per la materia penale, essa deve essere giustificata sotto il profilo della ragionevolezza, per il fondamentale valore di civiltà giuridica dell’irretroattività della legge, occorrendo che la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU (sentenza n. 264 del 2012), secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 14 luglio 2015, n. 150; Corte cost. 21 maggio 2014, n. 156).

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2729 e 2697 cc. in riferimento agli artt. 2094 e 2222 c.c., sull’erroneo assunto dell’onere datoriale di prova, nella verificata inesistenza di un progetto, della sussistenza di un rapporto di lavoro autonomo tra le parti, pure non correttamente ritenuto nonostante la ricorrenza degli indici di subordinazione attenuata, coerenti con la posizione di direttore amministrativo del lavoratore, è inammissibile.

Ed infatti, non sussiste, se non formalmente (per il tenore della rubrica), la denuncia di violazione di norme di diritto, siccome non integrata dagli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Esso si risolve piuttosto in una contestazione della valutazione probatoria della Corte d’appello, tendente ad un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità, quando la motivazione sia corretta, logicamente congrua ed esente da vizi giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come nel caso di specie. Bene la corte territoriale ha infatti accertato, sulla base di un’esatta ripartizione dell’onere della prova e di attento ed argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie correttamente apprezzate secondo una considerazione, non già atomistica, ma globale e coordinata, la ricorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro autonomo (per le ragioni esposte a pgg. da 6 a 9 della sentenza).

Parimenti inammissibile è il terzo motivo, relativo ad omesso esame delle decisive circostanze dell’effettivo inserimento del lavoratore, per funzioni e mansioni esercitate, nell’organizzazione aziendale dell’Associazione e dell’assenza di rischio di impresa nel lavoro autonomo.

In realtà, esso non individua alcun omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, impingendo al contrario in una contestata valutazione della rilevanza probatoria del contenuto e delle mansioni esercitate di fatto dal lavoratore, in funzione del suo inserimento nell’organizzazione aziendale e dell’implicazione del rischio di impresa nel lavoro autonomo (così a pg. 10 del ricorso).

Ma una tale doglianza è ormai preclusa dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore (12 dicembre 2014) al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (12 settembre 2012), secondo la previsione dell’art. 54, comma 3 D.L. citato.

Esso ha, infatti, introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori. Sicchè, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. S U 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439). Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio, secondo il regime di soccombenza e con distrazione al difensore antistatario della controricorrente, secondo la sua richiesta.

PQM

LA CORTE

rigetta il ricorso e condanna B.M. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge, con distrazione al difensore antistatario.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2016

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