Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16324 del 12/07/2010

Cassazione civile sez. lav., 12/07/2010, (ud. 10/06/2010, dep. 12/07/2010), n.16324

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9890/2008 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato GRANOZZI Gaetano, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.A.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DEI

PARIOLI 44, presso lo studio dell’avvocato SICILIANO Rosario, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato BILOTTA MARIA, giusta

mandato a margine del controricorso;

M.D., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato MIRABELLI CARMELA, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 589/2007 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 03/04/2007 r.g.n. 2426/05;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/06/2010 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega GRANOZZI GAETANO;

udito l’Avvocato SICILIANO ROSARIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’inammissibilità per i

conciliati, accoglimento nel resto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza dell’11-11-2004 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Cosenza dichiarava la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro stipulati, tra gli altri, da P.A.L. e da M.D. con la s.p.a. Poste Italiane, e condannava la società alla riammissione in servizio delle stesse e al pagamento delle retribuzione maturate.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto delle domande introduttive.

Le lavoratrici si costituivano e resistevano al gravame.

La Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza depositata il 3-4-2007, in riferimento alla P., in riforma della sentenza impugnata condannava la società a corrispondere alla stessa le retribuzioni maturate, con accessori, fino alla data di dimissioni e confermava nel resto, compensando tra le parti le spese del grado, mentre, nei riguardi della M. rigettava l’appello e confermava l’impugnata sentenza condannando la società al pagamento delle spese del grado in suo favore.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con dieci motivi corredati dai relativi quesiti ex art. 366 c.p.c., applicabile nella fattispecie ratione temporis.

La P. e la M. hanno resistito ciascuna con proprio controricorso.

Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., nonchè copia di verbale di conciliazione in sede sindacale concluso tra la società e la M. in data 17-11-2008.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In primo luogo il ricorso va dichiarato inammissibile nei confronti della M..

Dal verbale di conciliazione prodotto in copia risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge e dichiarando che in caso di fasi giudiziali ancora aperte – le stesse saranno definite in coerenza con il presente verbale.

Osserva il Collegio che il suddetto verbale di conciliazione si palesa idoneo a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione, in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278, Cass. 13-7-2009 n. 16341).

Ricorrono, inoltre, giusti motivi, considerato (“accordo intervenuto, per compensare le spese del giudizio di cassazione tra la società e la M..

Passando all’esame del ricorso nei confronti della P., con il primo motivo la società ricorrente, denunciando violazione dell’art. 112 c.p.c., lamenta “omessa pronuncia, da parte del giudice di appello, sulla eccezione di sopravvenuta carenza di interesse alla domanda principale di riammissione sul posto di lavoro, quale conseguenza della definitività delle dimissioni rassegnate dal lavoratore in epoca successiva alla sentenza di primo grado” e di cessazione della materia del contendere sul punto, come dedotto nell’udienza di appello del 15-3-2007, con conseguente “nullità della sentenza impugnata, per violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”.

Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello, infatti, non è incorsa nel vizio di omessa pronuncia denunciato, in quanto, in riferimento alla P., in riforma della sentenza di primo grado ha condannato la società “a corrispondere alla stessa le retribuzioni maturate, con accessori, fino alla data di dimissioni”, espressamente “in relazione al fatto nuovo” delle “dimissioni” sopravvenute dedotto dalla società, in tal modo chiaramente considerando tale fatto come rilevante soltanto ai detti fini, e per nulla comportante una cessazione della materia del contendere (considerate anche le rispettive conclusioni delle parti).

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375. 2697, 1427 e 1431 c.c., lamenta il mancato accoglimento della eccezione di inammissibilità della domanda per intervenuta risoluzione tacita del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

In particolare la società deduce che la prolungata inerzia della lavoratrice, a fronte della unicità del rapporto intercorso e della breve durata del medesimo. aveva ed ha all’uopo rilievo determinante e sostiene che, atteso il prolungato disinteresse, deve “presumersi l’estinzione per mutuo consenso, incombendo sul lavoratore che agisce per l’accertamento della nullità dei termine l’onere di provare le circostanze atte a contrastare la detta presunzione”. Inoltre, secondo la ricorrente, “occorre che il lavoratore fornisca anche la prova della riconoscibilità dell’errore da parte dell’altro contraente”.

Con il terzo motivo la ricorrente lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione sulla individuazione degli elementi (ulteriori) rispetto al mero decorso del tempo che possano valere a qualificare il contegno del lavoratore, successivamente alla cessazione del rapporto, in termini solutori del rapporto e sulla valenza dell’eventuale svolgimento, da parte del dipendente, di altra attività lavorativa in epoca successiva alla cessazione del rapporto di lavoro a termine impugnato.

In particolare al riguardo la ricorrente si duole della mancata motivazione sul mancato accoglimento delle richieste (reiterate in appello) di esibizione delle dichiarazioni dei redditi e di altra documentazione (libretti di lavoro, buste paga) e di informazioni presso l’UPLMO e presso l’INPS. Entrambi i motivi risultano infondati e vanno respinti.

Sul punto la Corte d’Appello ha affermato che “a fronte della deduzione della intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, Poste italiane omette di fornire, come pure sarebbe stato suo onere, ogni elemento utile nel senso prospettato, non potendosi arguire dal mero decorso del tempo l’intenzione del lavoratore di abbandonare ogni iniziativa giudiziaria riguardo alla illegittimità della apposizione del termine al contratto di lavoro”, aggiungendo che ciò vale particolarmente nel caso in esame se si considera che il tempo trascorso tra la scadenza del contratto e la contestazione della lavoratrice “non appare eccessivo e significativo nel senso voluto dall’appellante in presenza di una situazione di incertezza che coinvolgeva moltissimi lavoratori assunti a termine dalle Poste, con pronunce contrastanti dei giudici di merito”.

Tale decisione risulta conforme al principio più volte affermato da questa Corte e che va qui nuovamente enunciato, secondo cui “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11/12/2001 n. 15621). Inoltre, come pure è stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Erronea in diritto è quindi la tesi della società ricorrente in ordine al regime dell’onere probatorio, e d’altra parte l’accertamento di fatto relativo, operato dalla Corte di merito, risulta congruamente motivato.

Nè è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta di esibizione (delle dichiarazioni dei redditi e di altra documentazione) avanzata dalla società.

Al riguardo va qui ribadito il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui “il rigetto da parte del giudice di merito dell’istanza di disporre l’ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione, perchè, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione” (v.

fra le altre Cass. 14-7-2004 n. 12997, Cass. sez. 1^ 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. 3^ 2-2-2006 n. 2262). D’altra parte “l’esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio” (v., fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Parimenti, come pure è stato più volte chiarito, “la richiesta di informazioni alla P.A. costituisce una facoltà rimessa alla non sindacabile discrezionalità del giudice di merito, il cui mancato esercizio (pur in presenza di una specifica istanza in tal senso formulata dalla parte) non è in alcun modo censurabile in sede di legittimità” (cfr., Cass. 11-6-1998 n. 5794, Cass. 12-4-1999 n. 3573, Cass. 2-9-2003 n. 12789).

Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2, e art. 4, comma 2, art. 12 preleggi, art. 1362 c.c., e segg., e art. 1325 c.c., e segg., in sostanza contesta l’affermazione della Corte d’Appello di genericità delle ragioni giustifieatrici del termine indicate nel contratto di lavoro de quo, concluso per il periodo 10-5-2002/30-6-2002, “ai sensi della vigente normativa, per esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche. ovvero conseguenti all’introduzione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio 2002”.

Al riguardo la ricorrente sostiene che “la individuazione delle concrete ragioni giustificative dell’apposizione del termine al contratto di cui si discute risulta, nella specie, possibile “per relationem” proprio per il tramite delle espressioni letterali utilizzate e della analitica indicazione dei singoli accordi sindacali richiamati in contratto e tutti integralmente” riprodotti (ai fini della autosufficienza) “prima delle conclusioni del ricorso” ed in particolare evidenzia quanto previsto nelle disposizioni finali dell’accordo 17-10-2001 (“…le parti hanno convenuto che nel contesto del processo di ristrutturazione in atto e del conseguente processo di mobilità del personale, la società potrà continuare a ricorrere all’attivazione di contratti a tempo determinato per sostenere il livello di servizio del recapito e della sportelleria durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità di cui al presente accordo, ancorchè nella prospettiva di ridurne gradualmente l’utilizzo) e dagli accordi successivi i quali disciplinano tutti compiutamente il processo di riallocazione delle risorse a tempo indeterminato che rappresenta l’esigenza aziendale retrostante le assunzioni a termine per cui è causa e volta ad eliminare l’esubero di organico nelle articolazioni produttive eccedentarie spostandolo verso le articolazioni produttive, viceversa, carenti”.

Peraltro secondo la ricorrente “la specificità della clausola appositiva del termine deve essere apprezzata anche con riguardo alle dimensioni ed alla natura delle esigenze aziendali retrostanti le assunzioni a tempo determinato, con l’ovvia conseguenza che, laddove tali esigenze siano sostanzialmente le stesse su tutto il territorio nazionale ed in ogni ambito produttivo, la relativa formulazione non potrà che essere calibrata in rapporto a tali processi nazionali” e nella specie la lettera di assunzione della P., nell’individuare la sede di lavoro (“comune di Roges di Rende con assegnazione alla filiale di Cosenza”) espressamente riferisce anche a quel determinato ambito produttivo i processo “nazionale” sottostante la stipulazione del contratto”.

Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta omessa e insufficiente motivazione in ordine al fatto che i suddetti accordi sindacali richiamati nel contratto a termine de quo costituissero elemento di specificazione delle ragioni giustificative del termine stesso.

All’uopo in particolare la ricorrente, oltre alle disposizioni finali dell’accordo del 17-10-2001, richiama anche quanto previsto dall’accordo 23-10-2001 nonchè dagli accordi successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001 (del 11-12-2001 e del 11-1-2202 pure richiamati nella lettera di assunzione).

1 motivi in esame (quarto e quinto), strettamente connessi, vanno accolti nei limiti di seguito specificati, in conformità con i principi recentemente dettati da questa Corte, e che vanno qui riaffermati ai sensi dell’art. 384 c.p.c., in ordine all’interpretazione dell’art. 1 del D.Lgs. citato.

In specie, come affermato da Cass. 1-2-2010 n. 2279, in tema di apposizione del termine al contratto di lavoro, il legislatore, richiedendo l’indicazione da parte del datore di lavoro delle “specificate ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, ha inteso stabilire, in consonanza con la direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia (cfr. sentenza del 23 aprile 2000. in causa C-378/2007 ed altre; sentenza del 22 novembre 2005, in causa C-144/04), un onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, vale a dire di indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contenuto, che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale, perseguendo in tal modo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto; tale specificazione può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem ad altri testi scritti accessibili alle parti” (come accordi collettivi richiamati nello stesso contratto individuale).

In particolare, poi, come è stato precisato da Cass. 27-4-2010 n. 10033, l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto”.

Con riguardo a questi ultimi questa Corte ha altresì chiarito che, “seppure nel nuovo quadro normativo….non spetti più un autonomo potere di qualificazione delle esigenze aziendali idonee a consentire l’assunzione a termine, tuttavia, la mediazione collettiva ed i relativi esiti concertativi restano pur sempre un elemento rilevante di rappresentazione delle esigenze aziendali in termini compatibili con la tutela degli interessi dei dipendenti, con la conseguenza che gli stessi debbono essere attentamente valutati dal giudice ai fini della configurabilità nel caso concreto dei requisiti della fattispecie legale”.

Orbene la sentenza impugnata, in contrasto con tali principi e con motivazione insufficiente, limitandosi a rilevare semplicemente che gli accordi richiamati “fanno riferimento a generali esigenze di riposizionamento del personale e a procedure di mobilità”, in realtà ha omesso di esaminare in concreto gli elementi di specificazione emergenti dal contratto de quo, attraverso i richiami ivi contenuti, alla luce delle deduzioni della società, al fine di valutarne l’effettiva sussistenza nonchè la sufficienza sul piano della ricorrenza o meno del requisito di cui al secondo comma dell’art. 1 del D.Lgs..

Per tali motivi e nei limiti di essi il ricorso va accolto nei confronti della P., con la cassazione dell’impugnata sentenza in relazione a quest’ultima, e con la precisazione che, ove il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’Appello di Reggio Calabria, valuti come sufficientemente specificata la causale del contratto de quo, l’onere probatorio relativo alla effettiva ricorrenza nel concreto degli elementi così individuati, ivi compresa l’effettiva destinazione della P. nel corso del rapporto presso la sede di lavoro indicata, con la qualifica e le mansioni conseguenti, graverà sulla società datrice di lavoro e dovrà essere assolto sulla base della documentazione ritualmente acquisita al processo e della prova testimoniale dedotta, che la Corte d’Appello erroneamente non ha ammesso, in quanto non ne ha esaminato la specificità e la rilevanza alla luce dei principi sopra indicati.

Al riguardo, infatti, mentre fondate risultano le censure (seconda parte del sesto motivo e settimo motivo) riguardanti la mancata ammissione e la omessa valutazione in ordine alla ammissibilità e rilevanza della prova testimoniale richiesta (vedi capitoli richiamati in ricorso, alla luce delle deduzioni della società e degli accordi richiamati), infondata è la tesi sostenuta dalla ricorrente nella prima parte del sesto motivo, secondo cui il tenore letterale del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, esonererebbe “il datore di lavoro da ogni onere probatorio circa le ragioni che indussero le parti alla stipula di un contratto a termine, essendo ciò limitato solo ed esclusivamente al caso di proroga”.

Sul punto questa Corte ha avuto già modo di affermare (v. per tutte Cass. 21-5-2008 n. 12985) che, anche anteriormente alla esplicita introduzione del comma “premesso” dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 (secondo cui il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”) il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo pur sempre l’apposizione del termine una ipotesi derogatoria.

Lo testimonia la stessa tecnica legislativa adottata dal decreto legislativo, secondo la quale l’apposizione del termine “è consentita” solo “a fronte” di determinate specifiche ragioni derogatorie, come tali normalmente da provare in giudizio da chi le deduce a sostegno delle proprie difese, e lo conferma, poi, il dato relativo alla “vicinanza” a datore di lavoro delle situazioni che consentono la deroga, anch’essa elemento significativo del conseguente carico probatorio in giudizio (in tali sensi v. da ultimo Cass. 1-2-2010 n. 2279 che ha altresì precisato che tale soluzione interpretativa è sostenuta dal richiamo alla c.d. clausola di non regresso contenuta nella direttiva a cui il decreto da attuazione nonchè dal riferimento al contenuto della delega alla base del decreto legislativo, limitato sostanzialmente all’attuazione della direttiva, che non contiene disposizioni che si attaglino ad una diversa distribuzione dell’onere della prova con riguardo al primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato).

In conclusione, restando assorbiti i restanti motivi (ottavo, nono e decimo) riguardanti le conseguenze della eventuale illegittimità del termine apposto al contratto de quo, il ricorso va come sopra parzialmente accolto nei confronti della P. e la impugnata sentenza va cassata in relazione alla detta lavoratrice, con rinvio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che si atterrà ai principi sopra enunciati, statuendo anche sulle spese.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della M. e compensa le spese con la stessa; accoglie parzialmente il ricorso nei confronti della P., cassa la impugnata sentenza, in relazione a quest’ultima e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2010

 

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