Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16308 del 30/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/07/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 30/07/2020), n.16308

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17141/2019 R.G. proposto da:

H.S., rappresentato e difeso dall’Avv. Gilardoni Massimo,

con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile

della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Brescia depositato l’11 aprile

2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 2 luglio 2020

dal Consigliere Mercolino Guido.

 

Fatto

RILEVATO

che H.S., cittadino del Bangladesh, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso il decreto dell’11 aprile 2019, con cui il Tribunale di Brescia ha rigettato la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;

che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente eccepisce, sotto due diversi profili, l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, introdotto dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, per contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1, art. 10 Cost., comma 3, art. 24 Cost., comma 1 e 2, e art. 111 Cost., comma 1, 2 e 7;

che, ad avviso del ricorrente, la predetta disposizione, nella parte in cui prevede un unico termine per l’impugnazione del decreto che decide sulla domanda di riconoscimento della protezione internazionale, determinandolo in trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento, introduce una deroga irragionevole e contraddittoria rispetto alle norme del codice di rito, richiamate ai fini della disciplina generale del procedimento, che non trova giustificazione nelle esigenze di celerità del procedimento, la cui durata non è fissata in misura cogente;

che, inoltre, l’abolizione dell’appello nei giudizi in materia di protezione internazionale, posta anche in relazione con l’introduzione di un procedimento camerale caratterizzato da un contraddittorio meramente eventuale e dalla riduzione dell’istruttoria ad un mero controllo sull’operato delle commissioni territoriali, si traduce irragionevolmente in una differente articolazione del diritto, riguardante i soli richiedenti asilo, che impedisce la correzione di eventuali errori commessi nell’accertamento dei fatti, nonostante l’inerenza della controversia a diritti fondamentali;

che il motivo è infondato, avendo questa Corte già esaminato la predetta questione, ed avendola ritenuta manifestamente infondata, sotto entrambi i profili;

che la previsione del termine di trenta giorni per il ricorso per cassazione, a far data dalla comunicazione del decreto, rientra infatti nell’ambito della discrezionalità del legislatore e trova giustificazione in esigenze di urgenza, analoghe a quelle che lo stesso legislatore ha reputato sussistenti in diverse fattispecie (ad esempio, L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 17, comma 2; R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 99, u.c.);

che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito, oltre a risultare privo di copertura costituzionale, non trova applicazione generalizzata neppure nell’ambito del procedimento di cognizione ordinaria, in riferimento al quale è prevista una pluralità di eccezioni, e può comunque essere derogato dal legislatore per soddisfare specifiche esigenze, quale quella di celerità sottesa alla disciplina dei procedimenti in materia di protezione internazionale;

che l’inerenza di tale materia a diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati, non consente di ritenere che la soppressione dell’appello si traduca automaticamente in una violazione del diritto di difesa, avuto riguardo alle particolari caratteristiche dei procedimenti in questione, preceduti da una fase amministrativa nell’ambito della quale il richiedente è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni, attraverso il colloquio dinanzi alla commissione territoriale (cfr. per tutte Cass., Sez. I, 30 ottobre 2018, n. 27700; 5/07/2018, n. 17717);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 2, osservando che il Tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria senza procedere alla sua audizione, nonostante la mancanza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, e senza procedere ad una valutazione comparativa del livello d’integrazione sociale e lavorativa da lui raggiunto in Italia e della situazione in atto nel suo Paese di origine, in relazione al diritto di condurre una vita dignitosa;

che il motivo è infondato, in entrambe le sue articolazioni;

che, come si evince dal decreto impugnato, la decisione è stata adottata nel rispetto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 11, lett. a), essendo il ricorrente comparso in udienza ed essendosi altresì proceduto alla sua audizione, conformemente all’interpretazione della predetta disposizione emergente dal consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, in caso d’indisponibilità della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale, il giudice è tenuto a fissare l’udienza di comparizione, a pena di nullità del decreto che decide il ricorso (cfr. Cass., Sez. VI, 26/06/2019, n. 17076; 23/05/2019, n. 14148; Cass., Sez. I, 17/04/2019, n. 10786);

che correttamente il Tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, avendo per un verso escluso la sussistenza di una situazione di vulnerabilità del ricorrente, sia in relazione alla vicenda personale da lui allegata, in quanto ritenuta non credibile, sia in relazione alle condizioni politiche e sociali del Paese di provenienza, in quanto ritenute tali da non comportare una specifica compromissione dei diritti umani, ed avendo per altro verso ritenuto non provato il radicamento del ricorrente nel territorio italiano, in virtù del ridotto impegno lavorativo comprovato dalla documentazione prodotta;

che il predetto apprezzamento si pone perfettamente in linea con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’accertamento della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere ancorato ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 28/06/2018, n. 17072);.

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2020

 

 

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