Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16306 del 30/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/07/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 30/07/2020), n.16306

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16381/2019 R.G. proposto da:

B.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Gilardoni Massimo,

con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile

della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in

Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Venezia depositato il 5 aprile

2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 2 luglio 2020

dal Consigliere Mercolino Guido.

 

Fatto

RILEVATO

che B.M., cittadino del Mali, ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, avverso il decreto del 5 aprile 2019, con cui il Tribunale di Venezia ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari da lui proposta;

che il Ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente eccepisce l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35-bis, comma 13, come modificato dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, art. 6, comma 1, lett. g), convertito con modificazioni dalla L. 13 aprile 2017, n. 46, per contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1, art. 10 Cost., comma 3, art. 24 Cost., comma 1 e 2, e art. 111 Cost., comma 1, 2 e 7, osservando che l’abolizione dell’appello nei giudizi in materia di protezione internazionale, posta anche in relazione con l’introduzione di un procedimento camerale caratterizzato da un contraddittorio meramente eventuale e dalla riduzione dell’istruttoria ad un mero controllo sullo operato delle commissioni territoriali, si traduce irragionevolmente in una differente articolazione del diritto, riguardante i soli richiedenti asilo, che impedisce la correzione di eventuali errori commessi nell’accertamento dei fatti, nonostante l’inerenza della controversia a diritti fondamentali;

che il motivo è infondato;

che la questione di legittimità costituzionale, oltre a risultare irrilevante, non avendo il ricorrente proposto appello ma ricorso per cassazione, è stata infatti già dichiarata manifestamente infondata da questa Corte, in virtù del rilievo che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito, oltre a risultare privo di copertura costituzionale, non trova applicazione generalizzata neppure nell’ambito del procedimento di cognizione ordinaria, in riferimento al quale è prevista una pluralità di eccezioni, e può comunque essere derogato dal legislatore per soddisfare specifiche esigenze, quale quella di celerità sottesa alla disciplina dei procedimenti in materia di protezione internazionale;

che l’inerenza di tale materia a diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati, non consente di ritenere che la soppressione dell’appello si traduca automaticamente in una violazione del diritto di difesa, avuto riguardo alle particolari caratteristiche dei procedimenti in questione, preceduti da una fase amministrativa nell’ambito della quale il richiedente è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni, attraverso il colloquio dinanzi alla commissione territoriale (cfr. per tutte Cass., Sez. I, 30 ottobre 2018, n. 27700);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, sostenendo che, nel rigettare la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria, il decreto impugnato ha omesso di procedere, anche mediante l’esercizio di poteri istruttori officiosi, ad una valutazione comparativa del grado di inserimento sociale da lui raggiunto in Italia e della situazione personale in cui egli verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio, non avendo tenuto conto dell’assenza di una rete familiare nel Paese di provenienza e dell’inserimento lavorativo e formativo da lui raggiunto in Italia;

che il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile;

che la ritenuta inattendibilità della vicenda personale allegata a sostegno della domanda, riflettente le minacce di morte subìte dal ricorrente ad opera di uno zio che intendeva costringerlo ad un matrimonio non voluto, escludendo la configurabilità di una grave violazione della dignità umana, e quindi di un trattamento degradante, deve considerarsi infatti sufficiente ai fini del diniego della protezione richiesta, avendo il decreto impugnato rilevato che la situazione del ricorrente non evidenziava altri profili di vulnerabilità;

che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere infatti riconosciuto sulla base di una valutazione astratta ed isolata del livello d’integrazione raggiunto dal cittadino straniero in Italia, dovendosi invece procedere ad una comparazione con la situazione personale in cui egli si trovava prima di abbandonare il Paese di origine ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, e restando esclusa la possibilità di tener conto del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione all’area di provenienza, poichè altrimenti si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 28/06/2018, n. 17072);

che, nel lamentare l’assenza di legami familiari nel Paese di origine, il ricorrente fa valere una circostanza di fatto non menzionata nel decreto impugnato, che non può essere dedotta in questa sede, non essendo stato precisato in quale fase del giudizio ed in quale atto sia stata allegata, e non essendo stata d’altronde censurata la ricostruzione dei fatti compiuta dalla Corte di merito, sindacabile esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2020

 

 

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