Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16305 del 28/06/2013


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Civile Sent. Sez. U Num. 16305 Anno 2013
Presidente: PREDEN ROBERTO
Relatore: D’ASCOLA PASQUALE

Data pubblicazione: 28/06/2013

SENTENZA

sul ricorso 7490-2012 proposto da:
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, CONSIGLIO DEI
2013

MINISTRI, in persona dei rispettivi Presidenti del

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Consiglio pro-tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,
che li rappresenta e difende ope legis;
– ricorrenti –

contro

UNIONE DEGLI ATEI E DEGLI AGNOSTICI RAZIONALISTI – UAAR,
in persona del legale rappresentante pro-tempore,
elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BARBERINI 12,
presso lo studio dell’avvocato GRASSI STEFANO, che lo

controricorso;
– controricorrente nonchè contro

TAVOLA VALDESE, UICCA – UNIONE DELLE CHIESE CRISTIANE
AVVENTISTE DEL SETTIMO GIORNO, CELI – CHIESA EVANGELICA
LUTERANA IN ITALIA, CONGREGAZIONE CRISTIANA DEI
TESTIMONI DI GEOVA, UBI – UNIONE BUDDHISTA ITALIANA,
UCEBI – UNIONE CRISTIANA EVANGELICA BATTISTA IN ITALIA,
ADI – ASSEMBLEE DI DIO IN ITALIA, UCEI – UNIONE DELLE
COMUNITA’ EBRAICHE ITALIANE;
– intimati –

avverso la sentenza n. 6083/2011 del CONSIGLIO DI STATO,
depositata il 18/11/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/03/2013 dal Consigliere Dott. PASQUALE
D’ASCOLA;
uditi gli avvocati Giovanni PALATIELLO dell’Avvocatura
Generale dello Stato, Stefano GRASSI;
udito il P.M. in persona dell’Avv. Generale Dott.
UMBERTO APICE, che ha concluso per il rigetto del
ricorso.

rappresenta e difende, per delega a margine del

Svolgimento del processo
1) Dal 1995 l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR),
associazione non riconosciuta costituita il 13 marzo 1991, che aggrega gli atei
e gli agnostici italiani, ha ripetutamente chiesto al Governo italiano l’apertura
delle trattative per la stipula di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma,

Dopo l’annullamento per incompetenza di un primo atto di diniego espresso
con provvedimento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio,
l’Associazione ha rinnovato l’istanza, respinta il 27 novembre 2003 dal
Consiglio dei Ministri. Tale atto ha negato la natura confessionale dell’UAAR e
dei convincimenti professati dall’ateismo organizzato, dovendo intendersi per
confessione religiosa “un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra
più persone”.
Il Tar del Lazio con sentenza 31 dicembre 2008 ha dichiarato inammissibile il
relativo ricorso. Ha accolto l’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione
sollevata dall’Amministrazione, che ha opposto la natura di atto politico del
provvedimento impugnato, ritenuto insindacabile.
Il 18 novembre 2011 il Consiglio di stato ha accolto il gravame interposto
dall’UAAR e ha annullato con rinvio la pronuncia di primo grado.
Il Consiglio dei Ministri e il suo Presidente, rappresentati dall’avvocatura dello
Stato, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione, sostenendo
• l’inammissibilità dell’originario ricorso.
• UAAR ha resistito con controricorso.
In vista dell’udienza le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
2) Nei precedenti gradi di giudizio sono rimaste contumaci le confessioni
religiose intimate, alle quali il ricorso è stato notificato. In relazione alla
sopravvenuta definizione di nuove intese ex art. 8 Cost, non v’è materia per
integrare il contraddittorio, non sussistendo ipotesi di litisconsorzio necessario.

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della Costituzione.

Dalla materia del contendere, che attiene alla fase preliminare di futura intesa
dello Stato con UAAR, non discende alcun interesse attuale delle confessioni
religiose a interloquire in questo giudizio.
3) Il ricorso dell’avvocatura erariale denuncia il difetto assoluto di giurisdizione
e lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31 r.d. n. 1054/24 (ora
art. 7, co. 1, ultimo periodo d.lgs n. 104/2010), che reca: “Non sono

potere politico”.
Il Governo insiste nel definire atto politico insindacabile il rifiuto di avviare le
trattative per la conclusione dell’intesa.
Considerato indiscusso il requisito soggettivo dell’atto, in quanto proveniente
dal Consiglio dei Ministri, il ricorso desume la sussistenza del requisito
“oggettivo” dalla circostanza che l’art. 8 Cost. (“Tutte le confessioni religiose
sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla
cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato
sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”) è,
al c.3, norma sulla produzione giuridica.
Le intese sarebbero pertanto una “condizione di legittimità costituzionale”,
finalizzata all’emanazione di una legge, e non “negozi” valutabili “sotto il profilo
della conformità a preesistenti regole giuridiche”.
La confessione religiosa acattolica che miri ad un’intesa sarebbe portatrice di
un’aspirazione di mero fatto, rifiutabile con atto estraneo alla funzione

amministrativa, espressione della funzione di indirizzo politico riconosciuto al
governo in materia religiosa.
3.1)Parte ricorrente afferma che, anche dopo la stipula di un’intesa, il Governo
è libero di non darvi ulteriore corso in sede legislativa e ne inferisce la
insussistenza di un obbligo di avviare le trattative.
Aggiunge che, a prescindere dalle intese, le confessioni religiose sono libere di
organizzarsi, sicchè la mancanza dell’intesa non compromette la garanzia di
eguale libertà.
4) Il ricorso non merita accoglimento.
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impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del

Il nucleo della controversia è costituito dalla qualificazione come atto politico
del provvedimento che nega l’inizio della trattativa, a cagione della non
qualificabilità dell’associazione istante come confessione religiosa.
La nozione di atto politico, atto costituzionale di cui in passato la dottrina ha
indagato approfonditamente gli aspetti teorici, viene attualmente interpretata
in senso molto restrittivo.
sentenza n. 103/93, ha avuto modo di recente di precisare che l’esistenza di
aree sottratte al sindacato giurisdizionale, pur essendo innegabile, va confinata
entro limiti rigorosi. Ha affermato che: “gli spazi della discrezionalità politica
trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento,
tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore
predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai
fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di
estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota
un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne
segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce
un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi
appropriate (Corte Cost.5 aprile 2012 n.81)”.
Giunge in tal modo a compimento, e ci si limita ad un cenno (sul diritto alla
tutela giurisdizionale come “supremo principio dell’ordinamento costituzionale”
va ricordata la fondamentale C. Cost. n. 18/1982), una traiettoria di
comprensione del combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost., norma
secondo la quale la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica
amministrazione non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di
impugnazione o per determinate categorie di atti.
4.2) E’ stato notato che il Consiglio di Stato (C.S. n.4502/11; 2718/11) ha
distinto gli atti politici quale espressione della libertà (politica) riconosciuta
dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione
di esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e, quindi, liberi nella scelta
dei fini, dagli atti di alta amministrazione che, seppure espressione di ampia
discrezionalità, sono comunque soggetti, ex art. 113 cost., al sindacato
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4.1) La Corte costituzionale, riprendendo significativi spunti contenuti nella

giurisdizionale. Ha in tal modo marcato la residualità dell’atto (costituzionale)
politico.
La Corte Costituzionale, pur consapevole della possibilità che talora la
divergenza tra atti di diversi organi statuali possa trovare soluzione solo in
sede di conflitto di attribuzione, ha però, come si è visto, in sostanza avallato
la rilevanza del parametro giuridico come strumento di individuazione degli atti
4.3) Anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite (cfr SU n. 11263/06; 1170/00;
21581/11) ha confinato in margini esigui l’area della immunità giurisdizionale,
da escludere allorquando l’atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema
normativo, anche se si tratti di atto emesso nell’esercizio di ampia
discrezionalità.
In concreto è la materia delle relazioni internazionali quella in cui si esprime
“una funzione politica”, attribuita ad un organo costituzionale, che per sua
natura è “tale da non potersi configurare, in rapporto ad essa, una situazione
di interesse protetto a che gli atti in cui si manifesta assumano o non
assumano un determinato contenuto” (così SU 8157/02).
Se è vero che questo indirizzo è stato sorretto dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, (sez. grande chambre, 14/12/2006, n. 1398, fattispecie relativa alla
guerra del Kosovo), va tuttavia evidenziato non solo che questa pronuncia è
stata corredata da opinioni dissenzienti, ma anche che la – pur dubbia politicità estrema della casistica in materia bellica funge da chiave di lettura in
senso riduttivo degli ambiti sottratti alla giurisdizione.
– 4.3.1) Questa considerazione vale a mettere in maggiore evidenza che la
materia religiosa, per il suo essere tradizionale terreno di azioni antiumanitarie,
è tra quelle in cui più sensibile è la tensione opposta, che induce a consentire
l’accesso alla tutela giurisdizionale in funzione antidiscriminatoria.
Da più sentenze, ha notato la relazione dell’ufficio del Massimario, con
osservazione che merita di essere ripresa, si evince che “la Corte europea dei
diritti dell’uomo riconosce ad ogni confessione un interesse giuridicamente
qualificato per l’accesso agli status promozionali, anche su base pattizia;
impone alle autorità nazionali di predisporre criteri di accesso non
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sindacabili giurisdizionalmente.

discriminatori e di adottare congrue motivazioni d’esercizio; ammette il
sindacato giurisdizionale sulla ragionevolezza dei criteri predisposti e
sull’idoneità delle motivazioni adottate, in funzione di tutela della posizione
soggettiva incisa” (CEDU, 31 luglio 2008, n. 40825/98; 19 marzo 2009, n.
28648/03; 30 giugno 2011, n. 8916/05; 9 dicembre 2010, n. 7798/08; 6
novembre 2008, n. 58911/00).
diviene più agevole l’esame dei profili di ricorso.
L’iniziativa dell’UAAR ha fatto venire all’attenzione della dottrina il tema dei
rimedi giuridici contro il diniego di intesa con le confessioni religiose, quétione
che impone di sgomberare preliminarmente il campo da due suggestioni,
utilizzate da parte ricorrente in memoria.
In primo luogo va detto che non è particolarmente significativo il disposto
dell’art. 2 comma 3 lett. L) della legge n.400/88, laddove elenca tra gli atti
sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri gli atti concernenti i
rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione.
La provenienza dell’atto impugnato dal Governo non implica che esso sia da
iscrivere tra gli atti politici insindacabili, poiché si è già detto che occorre
indispensabilmente indagare il requisito oggettivo dell’atto politico, cioè,
specularmente, la (non) sussistenza in capo al richiedente l’intesa di un
interesse protetto giustiziabile.
5.1) In secondo luogo va escluso che abbia portata decisiva un passaggio della
• sentenza 346/2002 della Corte costituzionale, con la quale, sulla scia di Corte
• Cost. 195/93, fu dichiarata incostituzionale una normativa regionale nella parte
in cui condizionava l’erogazione dei contributi a favore delle confessioni
religiose al requisito dell’avere queste stipulato un’intesa con lo stato, ai sensi
dell’art. 8, 3 0 comma, cost.
La Corte costituzionale in quella sede rilevò che nella stipulazione delle intese il
governo “non è vincolato oggi a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo,
su richiesta della confessione, di negoziare e di stipulare l’intesa”.
Su questa constatazione non vi può essere dubbio, giacchè manca, tuttora, la
sede propria di queste norme, cioè una legge generale sul fenomeno religioso.
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5) In questo quadro, e soprattutto alla luce di queste ultime considerazioni,

E’ opinione diffusa che se una legislazione siffatta esistesse, il sistema delle
garanzie generali ne uscirebbe rafforzato, poiché essa riguarderebbe ogni
manifestazione collettiva del sentimento religioso e farebbe affievolire il
tentativo (o il pericolo) di conquista, tramite le intese, di discipline privilegiate.
Nondimeno, l’assenza di normazione specifica non è di per sé un impedimento
a contrastare in sede giurisdizionale il rifiuto di intesa che sia fondato sul

religiosa.
E’ stato autorevolmente osservato che risponde a un’illusione positivisticolegalistica pretendere in ogni caso l’intervento legislativo: vi sono infatti
principi fondamentali che sono immanenti nell’ordinamento senza essere stati
posti espressamente; esistono inoltre – e sono rilevanti in sede giurisdizionale principi costituzionali che informano le singole discipline e danno sostanza a
diritti e interessi.
6) Si intuisce per questa via la correttezza di fondo della soluzione prescelta
dal Consiglio di Stato nella sentenza 6083/11.
Il principio di laicità dello Stato, “che è uno dei profili della forma di Stato
delineata nella Carta costituzionale della repubblica”(Corte Cost. 203/1989)
implica che in un regime di pluralismo confessionale e culturale sia assicurata
l’eguale libertà delle confessioni religiose.
Al tempo stesso i rapporti tra Stato e confessione religiosa sono regolati
secondo un principio pattizio, con la stipula delle intese.
• Anche se l’assenza di una intesa con lo Stato non impedisce di professare
– liberamente il credo religioso, è in funzione dell’attuazione della eguale libertà
religiosa che la Costituzione prevede che normalmente laicità e pluralismo
siano realizzati e contemperati anche tramite il sistema delle intese stipulate
con le rappresentanze delle confessioni religiose.
Il concetto è gravido di significati: come è stato insegnato da attenti studi, si
devono garantire contemporaneamente, di regola tramite le intese:
l’indipendenza delle confessioni nel loro ambito, nell’accezione più estesa; il
loro diritto di essere ugualmente libere davanti alla legge; il diritto di
diversificarsi l’una dall’altra; ma anche la garanzia per lo Stato – ecco il senso
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mancato riconoscimento, in capo al richiedente, della natura di confessione

della regolamentazione dei rapporti – che l’esercizio dei diritti di libertà
religiosa non entri in collisione, per quanto è possibile, con le sfere in cui si
manifesta l’esercizio dei diritti civili e del principio solidaristico cui ogni
cittadino è tenuto.
6.1) In questa ottica, stabilire la qualificazione di confessione religiosa è una
premessa basilare per la salvaguardia dai valori di cui si discute.
nell’ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le «confessioni
religiose» si può sopperire con i “diversi criteri, non vincolati alla semplice
autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del 1992), che nell’esperienza giuridica
vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni
sociali”. E ancor prima (C. Cost. 195/93) aveva ritenuto che la natura di
confessione può risultare “anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo
statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune
considerazione”.
E’ nel giusto quindi la sentenza impugnata quando sostiene che rientra tutt’al
più nell’ambito della discrezionalità tecnica l’accertamento preliminare relativo
alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa.
6.2) Posto ciò, è da credere che sia errato il ricorso laddove pretende che la
caratteristica di legge rinforzata che è propria del procedimento di
approvazione legislativa dell’intesa sia indice di potestà insindacabile.
E’ vero il contrario.
Il procedimento di cui all’art. 8 è in funzione, come ha sottolineato il
procuratore generale in udienza, della difesa delle confessioni religiose dalla
lesione discriminatoria che si potrebbe consumare con una immotivata e
incontrollata selezione degli interlocutori confessionali; è in funzione anche
della migliore realizzazione di quell’equilibrio di valori che si è prima tentato di
tratteggiare.
7) La posizione del richiedente l’intesa mira dunque a ottenere che il potere di
avviare la trattativa sia esercitato in conformità alle regole che l’ordinamento
impone in materia, che attengono in primo luogo all’uso di canoni obbiettivi e
verificabili per la individuazione delle confessioni religiose legittimate.
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La Corte costituzionale ha già detto (v. ancora Cost.346/02) che all’assenza,

Il fondamento dell’interesse fatto valere riposa direttamente sui precetti
costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa.
L’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non può quindi essere
rimessa alla assoluta discrezionalità del potere dell’esecutivo, che è
incompatibile con la garanzia di eguale libertà di cui all’art. 8 c.1.
Nè lo Stato può trincerarsi dietro la difficoltà di elaborazione della definizione di
giuridiche, è inevitabile e doveroso che gli organi deputati se ne facciano
carico, restando altrimenti affidato al loro arbitrio il riconoscimento di diritti e
facoltà connesse alla qualificazione.
8) Va ancora data risposta alla tesi che nega la giustiziabilità del diniego di
avvio delle trattative in relazione al possibile mancato esito di esse, qualora il
Governo, o per inconciliabilità di proposte, o per volontà politica, non
concludesse la trattativa o rifiutasse di dare impulso legislativo alla intesa
raggiunta.
Questa prospettiva non è decisiva per precludere la pretesa all’apertura della
trattativa e all’implicito riconoscimento della qualità di confessione religiosa del
soggetto istante, pretesa costituzionalmente presidiata.
Non è inutile ricordare che di fatto le intese si stanno atteggiando, nel tempo,
in guisa di normative “per adesione”, innaturalmente uniformandosi a modelli
standardizzati.
Al di là di questa circostanza, pure non priva di riflessi, va ribadita la
• distinzione: l’apertura della trattativa è dovuta in relazione alla possibile intesa,
– disciplinata, nel procedimento, secondo i canoni dell’attività amministrativa; la
legge di approvazione segue le regole e le possibili vicende, ordinarie o
conflittuali, proprie degli atti di normazione.
La Corte di Cassazione non deve e non vuole pronunciarsi sulla esistenza di un
diritto alla chiusura della trattativa o all’esercizio dell’azione legislativa: esula
dall’ambito decisionale che è qui configurato.
Per la decisione della causa è sufficiente stabilire che le variabili fattuali della
seconda fase non incidono sulla natura della situazione giuridica che sta alla
base della bilateralità pattizia voluta dal costituente. Negare la sindacabilità del
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religione. Se dalla nozione convenzionale di religione discendono conseguenze

diniego di apertura della trattativa per il fatto che questa è inserita nel
procedimento legislativo significa privare il soggetto istante di tutela e aprire
la strada, come ha indicato il CdS, a una discrezionalità foriera di
discriminazioni.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso.
Le spese di lite devono essere compensate, attesa la eccezionale novità del

PQM
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.
Spese compensate.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili il 12
marzo 2013

caso.

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