Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16300 del 30/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/07/2020, (ud. 02/07/2020, dep. 30/07/2020), n.16300

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16801/2018 R.G. proposto da:

A.N., rappresentato e difeso dall’Avv. Tarchini Maria

Cristina, con domicilio eletto in Roma, largo Somalia, n. 53, presso

lo studio dell’Avv. Pinto Guglielmo;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO – COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI BRESCIA;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia n. 1715/17

depositata l’11 dicembre 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 2 luglio 2020

dal Consigliere Mercolino Guido.

 

Fatto

RILEVATO

che A.N., cittadino del Pakistan, ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, avverso la sentenza dell’11 dicembre 2017, con cui la Corte d’appello di Brescia ha rigettato il gravame da lui interposto avverso l’ordinanza emessa il 7 marzo 2016 dal Tribunale di Brescia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dal ricorrente;

che il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, censurando la sentenza impugnata per aver escluso la credibilità delle dichiarazioni da lui rese sulla base di affermazioni generiche ed apodittiche, senza esaminare approfonditamente gli elementi di fatto allegati a sostegno della domanda e i documenti prodotti, da cui emergevano i gravi atti di persecuzione da lui subiti a causa del coinvolgimento nella morte di due amici e l’impossibilità di continuare a vivere nel suo Paese di origine e di mantenere la sua famiglia;

che il motivo è inammissibile;

che, nell’escludere la credibilità della vicenda personale narrata a sostegno della domanda, la Corte territoriale ha ampiamente motivato il proprio apprezzamento, non essendosi limitata a dare atto dell’assenza di qualsiasi riscontro probatorio, ma avendo posto in rilievo il carattere poco circostanziato e molto confuso delle dichiarazioni rese dal ricorrente, ed avendone altresì evidenziato l’intrinseca contraddittorietà, in ragione della mancata denuncia alla polizia delle aggressioni che egli aveva riferito di aver subito;

che la predetta valutazione, correttamente condotta sulla base dei criteri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, costituisce un apprezzamento di fatto, rimesso al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, per omesso esame di un fatto decisivo che ha costituito oggetto del dibattito processuale, dovendosi escludere l’ammissibilità della prospet-tazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente (cfr. Cass., Sez. I, 7/08/2019, n. 21142; 5/02/2019, n. 3340);

che con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e c), osservando che, nell’escludere la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dei rischi che egli correrebbe in caso di rimpatrio, a causa del coinvolgimento nella morte dei due amici, che lo esporrebbe all’arresto o a vendette dei familiari, e quindi alle conseguenze della grave situazione giudiziaria e penitenziaria del Pakistan, nonchè dell’alto grado di corruzione delle istituzioni pubbliche e della tolleranza dimostrata dalle autorità verso le vendette private;

che il motivo è infondato, avendo la sentenza impugnata correttamente evidenziato il carattere strettamente privato e personale delle ragioni sottese all’allontanamento del ricorrente dal suo Paese di origine, in quanto connesse a liti familiari e non suffragate dal previo ricorso alla tutela delle autorità statali, nonchè l’assenza di qualsiasi collegamento tra la vicenda narrata e la situazione generale del Pakistan, peraltro non prospettata in sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale;

che le liti tra privati non possono essere infatti addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di vicende estranee al sistema della protezione internazionale, in quanto non riconducibili nè alla lett. e), nè alla lett. g) dell’art. 2, dal momento che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, la violenza o la minaccia proveniente da soggetti non statuali è configurabile come persecuzione o danno grave soltanto se lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano il territorio o una parte consistente dello stesso, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro di essa (cfr. Cass., Sez. VI, 1/04/ 2019, n. 9043);

che l’omesso esercizio dei poteri istruttori officiosi spettanti al giudice, ai fini della verifica della denunciata inadeguatezza del sistema giudiziario del Paese di origine e dell’atteggiamento di tolleranza mantenuto dalle autorità dello stesso nei confronti delle vendette private, trova giustificazione nel mancato superamento del vaglio di credibilità soggettiva delle dichiarazioni rese dal ricorrente, il quale consente di escludere l’operatività del dovere di cooperazione istruttoria previsto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., Sez. I, 12/06/2019, n. 15794; Cass., Sez. VI, 19/02/ 2019, n. 4892; 27/06/2018, n. 16925);

che con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, censurando la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza tener conto della situazione di vulnerabilità in cui egli verrebbe a trovarsi in caso di rientro nel Paese di origine, per le stesse ragioni che l’hanno indotto ad allontanarsene, e dell’avvenuto radicamento nel territorio nazionale, dove egli risiede e lavora da anni;

che il motivo è infondato;

che la ritenuta inattendibilità della vicenda personale narrata a sostegno della domanda consente infatti di ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria, ai fini della quale non può considerarsi sufficiente la mera allegazione della situazione generale d’insicurezza del Paese di origine, la quale risulta di per sè inidonea ad evidenziare una condizione di vulnerabilità soggettiva, in assenza di uno specifico collegamento con la situazione personale del richiedente;

che la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria dev’essere infatti ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata non già alla situazione generale del Paese di origine, ma a quella personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (cfr. Cass., Sez. VI, 3/04/2019, n. 9304; 7/02/2019, n. 3681);

che il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 2 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2020

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