Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16283 del 26/07/2011

Cassazione civile sez. VI, 26/07/2011, (ud. 24/06/2011, dep. 26/07/2011), n.16283

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 5332/2010 proposto da:

T.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE GIULIO CESARE 151, presso lo studio dell’avvocato ANGELO

ROSATI, rappresentato e difeso dall’avvocato NORSCIA Antonio, giusta

procura alle liti a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato ADRIANO

ROSSI, rappresentata e difesa dall’avvocato DI SABATINO Domenico,

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 646/2009 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA del

29.10.09, depositata il 06/11/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

24/06/2011 dal Consigliere Relatore Dott. PAOLO STILE.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. MASSIMO

FEDELI.

La Corte:

letta la relazione del Cons. Dott. Paolo Stile;

esaminati gli atti, ivi compresa la memoria del ricorrente ex art.

378 c.p.c..

Fatto

OSSERVA

1. La Corte d’Appello degli Abruzzi – L’Aquila, con la sentenza n. 646/09 ha rigettato l’appello proposto da T.D., confermando così la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda avanzata, nei confronti di quest’ultimo, da C. A., annullando il licenziamento intimatole il 23/3/2007 (perchè privo di giusta causa) e condannando il resistente datore di lavoro alla riassunzione della lavoratrice entro tre giorni o, in alternativa, al pagamento (a titolo risarcitorio) di una indennità pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accesssori di legge dal dovuto sino al soddisfo.

2. La Corte territoriale, dopo avere puntualizzato che l’addebito, su cui si fondava il recesso datoriale in tronco, si riassumeva nel fatto che la C. aveva stracciato e cestinato, in due occasioni (12 e 13 marzo 2007), un avviso, affisso sulla porta dello studio del T., recante il nuovo orario per il rilascio delle ricette (circostanza, questa, risultata pacifica tra le parti in causa), osservava che giustamente il giudice di prime cure, valutando la reale condotta addebitata nel contesto in cui si erano verificati, era giunto alla conclusione di escludere la configurabilità, in detto accertamento, di un fatto (soggettivamente ed oggettivamente) così grave da integrare una altrettanta grave lesione dell’elemento fiduciario, posto a base del rapporto di lavoro inter partes. Detto comportamento, pertanto, per quanto riprovevole non giustificava l’intimato licenziamento.

3. Con l’unico motivo di ricorso per cassazione – ulteriormente illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c., al quale resiste la lavoratrice, il T. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e art. 156 ccnl 3/5/2006 per gli studi professionali nonchè omessa o insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), contestando il giudizio di proporzionalità della sanzione operato dal Giudice di merito.

4. Il motivo, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è palesemente infondato.

5. Invero, la Corte territoriale si è attenuta al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, bensì con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonchè alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (ex plurimis, Cass. n. 13188/2003).

6. E proprio in considerazione di detti principi il Giudice di appello, con adeguata ed esauriente motivazione, ha rilevato: – che correttamente il Giudice di prime cure aveva valutato la condotta nel contesto in cui gli eventi erano avvenuti; – che in particolare il comportamento della lavoratrice, pur non immune da censure, poteva trovare giustificazione nella reazione ad una unilaterale modifica dell’orario lavorativo da parte del datore di lavoro; – che l’episodio era unico ed isolato nella storia lavorativa della C.; – che tale condotta non aveva comportato danno di rilevante entità.

Tale motivazione, con la quale la Corte territoriale ha ribadito la sproporzione tra addebito e licenziamento disciplinare, già ritenuta dal Giudice di prime cure, non solo è logica ed adeguata, ma anche del tutto conforme alle risultanze istruttorie, dalle quali è emersa la modifica unilaterale dell’orario di lavoro; modifica peraltro illegittima, poichè essa non può essere attuata unilateralmente dal datore di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell’attività aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le parti (tra le tante, Cass. 13470/03, e, nella specifica ipotesi di contratto part-time, v. anche Cass. n. 3898/03).

Nè vale affermare, da parte del ricorrente (v., in particolare, la deduzione nella memoria ex art. 378 c.p.c.), che – contrariamente a quanto sostenuto dal Giudice a quo, sulla base della “corrispondenza intercorsa tra le parti” – la modifica avrebbe riguardato solo “l’orario di accesso al pubblico e non anche l’orario di lavoro della lavoratrice che continuava ad avere un rapporto di quattro ore”, dal momento che la difesa del T. si è ben guardata dal produrre detta corrispondenza, ed, in ogni caso, dal riportare, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il contenuto di detta documentazione. Tanto più che la C., nel controricorso, ha tenuto a specificare che “la modifica unilaterale dell’orario di lavoro risulta dalla nota dell’8 febbraio 2007 (doc. n. 1 fascicolo di parte di 1^ grado) e dal telegramma del 12 marzo 2007 (doc. n. 3 fascicolo di parte di 1^ grado), con il quale il T. ribadiva alla lavoratrice che la sua prestazione lavorativa doveva svolgersi dalle 8,00 alle 10,00”.

Quanto agli altri rilievi del ricorrente, va precisato che la Corte territoriale non ha ritenuto che la rimozione degli avvisi fosse avvenuta una sola volta e non due; nella sentenza qui impugnata la Corte, infatti, da atto che la rimozione avvenne due volte, ma correttamente inquadra le condotte in un unico episodio, riferendosi nel complesso all’addebito contestato, mai preceduto, peraltro, da altri addebiti o contestazioni disciplinari, mentre nessuna errata interpretazione o applicazione dell’art. 156 ccnl, richiamato solo “a titolo esemplificativo”, risulta essersi realizzata.

Quanto al dedotto grave danno all’immagine, il Giudice di appello lo ha escluso sulla base dal materiale probatorio fornito ed in base alla considerazione, implicita me non per questo poco chiara, che la dimostrazione incombeva al datore di lavoro.

Per quanto esposto il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 30,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2011

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