Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16280 del 12/07/2010

Cassazione civile sez. un., 12/07/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 12/07/2010), n.16280

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – est. Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso iscritto al n. 6877 R.G. 2010, proposto da;

C.S., rappresentato e difeso, in virtù di procura a

margine del ricorso, dall’avv. IARIA Domenico, domiciliatario in Roma

al Corso Vittorio Emanuele II, n. 18 (Studio legale Lessona);

– ricorrente –

contro

PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTRO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

per la cassazione della sentenza della Sezione Disciplinare del

Consiglio Superiore della Magistratura in data 4 dicembre 2009,

depositata col n. 18/2010 il 27 gennaio 2010.

Udita la relazione del Consigliere Dott. Toffoli;

sentito l’avvocato Domenico Iaria per il ricorrente;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La Sezione disciplinare del C.S.M., con la sentenza indicata in epigrafe, ha irrogato al Dott. C.S. la sanzione disciplinare della perdita dell’anzianità per mesi tre in ordine alle incolpazioni seguenti:

A) “Violazione del R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18, tipizzato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) ed n), per avere, nell’esercizio (dal 1997 al luglio 2008) delle funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, conferito agli architetti recte: ingegneri G. e M., appartenenti allo stesso studio professionale, n. 69 incarichi di consulenza in materia edilizia – dei 159 da lui, nella stessa materia, complessivamente conferiti – che comportavano la liquidazione, per l’ing. G., della complessiva somma di Euro 275.170,47 e per (l’ing.) M. di Euro 244.551,64. Somme che non avevano eguali in quelle, molto più contenute, liquidate agli altri CC.TT. in materia.

Ciò senza osservare il criterio della “rotazione”, raccomandato dal capo dell’ufficio e reso possibile dal numero cospicuo (negli anni, mai inferiore a 27, fino a un massimo di 237) di altri professionisti iscritti negli appositi elenchi esistenti presso il suo ufficio.

In tal modo, con grave; violazione delle disposizioni sul servizio giudiziario date dall’organo competente e dei doveri di imparzialità e correttezza cui era tenuto, compromettendo il prestigio e la credibilità dell’ordine giudiziario, il Dott. C. procurava un indebito vantaggio ai predetti professionisti, da lui privilegiati rispetto agli altri”.

B) “Violazione di cui al R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18, tipizzato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e c) e art. 4, lett. d), in relaz. all’art. 323 c.p., per avere, nell’esercizio delle funzioni di cui sopra e con violazione dei doveri di imparzialità, correttezza ed equilibrio, conferito (ancora nel 2001), gli infrascritti incarichi di c.t. all’architetto Ga.

A., cui era sentimentalmente legato e cui – omettendo di astenersi dato l’interesse che lo muoveva – procurava il relativo indebito vantaggio, con compromissione del prestigio e della credibilità dell’ordine giudiziario e lesione della propria immagine di magistrato:

consulenza n. 82/01 nel proc. 794/01;

consulenza n. 83/01 nel proc. 437/01;

consulenza n. 149/01 nel proc. 3068/01;

consulenza n. 158/01 nel proc. 3398/01;

consulenza n. 64/02 nel proc. 306/01;

consulenza n. 66/03 nel proc. 3409/01”.

E) “Violazione di cui al R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 18, tipizzato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1 e art. 2, comma 1, lett. a) g) o) ff), per avere, nell’esercizio delle funzioni di cui sopra e con violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio, conferito n. 27 incarichi di c.t. per l’archiviazione elettronica degli atti dei procedimenti specificati nell’allegato elenco A), investendo indebitamente i cc.tt., mediante l’adozione di provvedimenti non previsti dalla normativa vigente, di attività estranee alla funzione precipua della c.t. e rientranti invece nell’organizzazione generale dei servizi del proprio ufficio, con compromissione del prestigio e della credibilità dell’ordine giudiziario”.

2.- Nella sentenza – che ha mandato assolto l’incolpato dalle residue (e collegate) contestazioni di cui ai capi C) e D) originari -, in relazione al capo A), si da rilievo alla circostanza della concentrazione di un numero rilevante di remunerativi incarichi in capo alle medesime persone, in violazione dei principi di equa ripartizione degli stessi e delle indicazioni al riguardo impartite dal Procuratore capo, nonchè in contrasto col principio di trasparenza e buona amministrazione nella trattazione degli affari, disatteso anche mediante conferimento di incarichi peritali nell’ambito di fascicoli iscritti a mod. 45 e l’apposizione ai decreti di liquidazione della clausola di provvisoria esecuzione, come risultante dalla deposizione istruttoria dell’impiegata amministrativa Ma. – richiamata mediante trascrizione – e da quelle dei colleghi dell’incolpato Ca. e P.. Anche dalla trascrizione della deposizione del Dott. R., procuratore della Repubblica dell’epoca, del resto, emerge che, pure in mancanza di specifica nota scritta al riguardo, tutti i sostituti erano consapevoli della ricorrente raccomandazione di lui sulla necessità della “rotazione” nel conferimento degli incarichi di consulenza. E, sul punto, il giudice disciplinare ritiene prive di pregio le difese dell’ incolpato, non potendosi sostenere che, in un albo nutrito di consulenti, i soli a renderlo tranquillo sulla professionalità ed indipendenza, fossero gli ingegneri G. e M., ai quali, peraltro, erano affidate consulenze importanti e lucrose, mentre quelle modeste erano assegnate ad altri consulenti.

Quanto al capo B), si ritiene del pari non convincente la precisazione dell’incolpato – secondo cui gli incarichi erano stati tutti conferiti nel corso del 2001, mentre il legame affettivo con la Ga. sarebbe sorto nel 2002 -, avuto riguardo alla testimonianza del procuratore della Repubblica Dott. R., che, avendo notato come la professionista continuasse ad intrattenere rapporti con la Procura per incarichi conferitile dal C., aveva richiamato quest’ultimo sulla necessità di interrompere tale pratica – e l’incolpato, lungi dall’obiettare alcunchè, lo aveva pregato di provvedere lui alle liquidazioni in ordine agli incarichi ancora pendenti -. La Sezione disciplinare ha soggiunto che: “Comunque, a prescindere dalla circostanza se gli incarichi alla Ga. fossero stati conferiti quando era già sorta la simpatia della Ga., come sostiene il Dott. R., o successivamente, è pacifico che gli stessi erano eccessivi e comunque non rispettosi delle istruzioni del procuratore R. e del principio di trasparenza”. Ha altresì puntualizzato come anche tali incarichi non fossero passati inosservati, “tanto che si era vociferato che l’arch. Ga.

potesse far parte dello studio degli ing. G. e M.”, ritenendo finalmente che “l’archiviazione del procedimento penale per il reato di cui all’art. 323 c.p., attenuava ma non faceva venir meno il discredito provocato dai comportamenti del Dott. C.”.

Con riguardo al capo E), infine, la sentenza ritiene illegittimo il conferimento dei 27 incarichi di consulenza tecnica per l’archiviazione elettronica degli atti di taluni procedimenti, trattandosi di attività non delegatali in quanto rientranti in quelle proprie dell’organizzazione del proprio ufficio: in tale maniera erano state poste a carico dei Ministero liquidazioni di compensi assolutamente non dovuti, tanto che il Procuratore della Repubblica succeduto al Dott. R. aveva comunicato (con nota del 25 ottobre 2008) al Procuratore Generale di aver provveduto alla revoca degli incarichi e dei consequenziali atti di liquidazione “nei casi dubbi”.

3.- Per la cassazione ricorre, attraverso dieci motivi, il C., con ricorso depositato il 9 marzo 2010.

Gli intimati non svolgono attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4.- Le censure mosse alla sentenza sono esposte nella maniera che segue.

4.1.- “Nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione del principio di necessaria correlazione tra contestazione e decisione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”: il giudice disciplinare, a fronte di una contestazione fondata esclusivamente sull’asserita mancata osservanza del criterio della “rotazione” nell’attribuzione degli incarichi, ha invece espresso il giudizio di colpevolezza per il diverso fatto dell’abuso dei propri poteri sia conferendo incarichi peritali nell’ambito di fascicoli iscritti a mod. 45, sia dotando i decreti di liquidazione dei compensi della clausola di provvisoria esecuzione – condotta mai contestata -, con lesione del principio di corrispondenza tra addebito e decisione disciplinare ed, ancor prima, del diritto di difesa dell’incolpato, che non aveva potuto prendere posizione sulla legittimità o meno degli indicati comportamenti (pp. 56-65).

4.2.- “Violazione e/o falsa applicazione artt. 516, 521 e 522 c.p.p.;

D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 14, 15 e 16; art. 24 Cost. ai sensi del comma 1 n. 3 c.p.c”: riportando ancora il passo della sentenza in cui si afferma la responsabilità disciplinare “Da tale testimonianza (della impiegata amministrativa Ma.Ra.) si ricava che il Dott. C. abusasse dei suoi poteri in assoluto dispregio del principio di trasparenza e di buona amministrazione. Come quello di conferire incarichi peritali nell’ambito di fascicoli iscritti a mod. 45 e di dotare di provvisoria esecuzione i decreti di liquidazione”, e ponendolo a raffronto con la contestazione, si ripropone la censura sotto il profilo della violazione di legge pp. 65-68).

4.3.- “Nullità della sentenza e/o del procedimento per omessa valutazione di memorie difensive ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 “: la Sezione disciplinare ha infatti completamente omesso di valutare le articolate memorie difensive dell’incolpato – dando atto, nella parte espositiva, del deposito dei memoriali dei Dott.ri Cr. e c., e non anche del Dott. B. – senza riportarne i contenuti, nemmeno in sintesi, e, così, lasciandole al di fuori di ogni valutazione (pp. 68-88);

4.4.- “Violazione e/o falsa applicazione art. 178 c.p.p., comma 1 lett. c) e D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 18, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 “: si tratta della medesima censura di cui sopra, riproposta sotto il profilo della violazione di legge (pp. 88-89).

4.5.- “Insufficienza della motivazione circa un aspetto controverso e decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “: contestando l’affermazione secondo cui la responsabilità del Dott. C. deriverebbe dalle stesse “ammissioni” di lui, vi si contrappongono le puntuali ed esaustive argomentazioni contenute negli scritti difensivi, oltre che nei memoriali depositati nel corso dell’udienza di discussione. D’altro canto, mentre dalle dichiarazioni testimoniali, poste a fondamento della sentenza impugnata, non è dato trarre elementi di prova utili a dimostrare la correttezza degli addebiti – nulla esse rappresentando circa il mancato rispetto del criterio della “rotazione” ed il conseguente indebito vantaggio che la condotta dell’incolpato avrebbe procurato ai consulenti tecnici -, dalle dichiarazioni depositate in udienza (ed in particolare da quelle rese dai Dott.ri R., Cr.

e B. – emerge la legittimità della scelta degli ingegneri G. e M., dettata unicamente dalla loro consolidata esperienza professionale e giudiziaria e, soprattutto, dalla loro assoluta imparzialità ed autonomia intellettuale rispetto all’ambiente ed al contesto sociale circostanti. La sentenza impugnata, in definitiva, non chiarisce in alcun modo le ragioni per cui le tesi difensive svolte dall’incolpato e le dichiarazioni in udienza depositate “meritavano” di cedere a fronte dell’impianto accusatorio (pp. 89-118).

4.6.- “Insufficienza della motivazione su altro aspetto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”: è erronea la sentenza, che fonda il convincimento della illegittimità degli incarichi conferiti all’arch. Ga.

unicamente sulla testimonianza del Dott. R., senza tener conto delle emergenze dell’attività difensiva (in particolare, memoriali B. e Cr.) e del decreto di archiviazione del tribunale di Salerno in ordine all’ipotizzato reato di cui all’art. 323 c.p., da cui emergerebbe la legittimità dell’operato del ricorrente odierno e la sua incensurabilità in sede disciplinare (pp. 118-124).

4.7.- “Violazione e/o falsa applicazione D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 20 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”: proprio dalla disposta archiviazione, in cui si afferma non sussistere nemmeno “il sospetto di parzialità dell’operato del Dott. C.S., sarebbe dovuta derivare l’assoluzione di lui, in ordine al capo B) della incolpazione, essendo i relativi fatti coperti da un giudicato penale di assoluzione (pp. 125-126).

4.8.- “Insufficienza della motivazione su altro aspetto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “: con riguardo alla incolpazione del capo E), si lamenta una ulteriore specifica erroneità della pronuncia, che non ha fornito alcuna ragione del superamento delle argomentazioni difensive e tecniche – le ultime contenute nell’ignorato memoriale del dott. c. (consulente incaricato della informatizzazione degli atti nei procedimenti penali, la cui testimonianza non è stata ammessa) – e non ha considerato come gli incarichi di consulenza informatica rappresentassero una prassi all’interno dell’ufficio giudiziario (p. 126-133).

4.9.- “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 CAD (D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale), art. 1, comma 2 Direttiva 96/9/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 marzo 1996, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 359 c.p.p., art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 546 c.p.p. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”: l’attività di consulenza del P.M. appare indebitamente ridotta alla nozione di archiviazione elettronica – come tale ritenuta non delegabile perchè rientrante nelle funzioni di organizzazione dell’Ufficio -, laddove essa non è riconducibile all’art. 42 CAD, trattandosi piuttosto di un programma per elaboratore utilizzato per la costituzione o il funzionamento di banche dati (in tutto differente dalla dimensione statica di un archivio elettronico), che rende possibile l’implementazione con gli atti delle fasi procedimentali successive, prodotti dalle difese o formatisi nel dibattimento, e rientra fra le prerogative investigative del P.M., a norma del disposto dell’art. 359 c.p.p., che consente la nomina di consulenti non solo per procedere ad accertamenti, ma anche per ogni altra operazione tecnica per la quale siano necessarie specifiche competenze (fattispecie modellata solo in parte su quella disciplinata dall’art. 220 c.p.p., in materia di perizia) (pp. 133-136).

4.10 erroneamente indicato come “Violazione e/o falsa applicazione D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, artt. 1, 2 e 5, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”: i fatti contestati non integrano, quindi, gli illeciti disciplinari affermati (p. 136).

5.- Il ricorso non può trovare accoglimento.

5.1.- In ordine alla prima censura, appare opportuno premettere l’indirizzo delle Sezioni unite – cui si intende dare continuità – in materia di necessaria corrispondenza tra addebito e decisione disciplinare. Fra le più recenti, Cass., Sez. un., 17935/2008 ha affermato che “nel procedimento disciplinare a carico dei magistrati viola il principio della necessaria correlazione tra l’addebito contestato e la decisione, sancito in materia penale dall’art. 552 c.p.p. – ma applicabile in tutti i procedimenti sanzionatori in genere e disciplinari in specie, in quanto corollario naturale dei principi di garanzia della difesa e di assicurazione del contraddittorio -, la sentenza della Sezione disciplinare del C.S.M. che irroga all’incolpato una sanzione, ritenendolo responsabile, oltre che del fatto ritualmente addebitatogli, anche di uno ulteriore e diverso, che abbia assunto valore determinante ai fini della decisione e relativamente al quale l’incolpato non sia stato messo in grado di far valere le proprie difese”. Ciò in quanto – come risulta da Cass., Sez. un., 27172/2006 -, “la necessaria correlazione fra l’accusa contestata e la sentenza (…) mira allo scopo di garantire il contraddittorio, portando a conoscenza del responsabile i fatti che gli vengono addebitati, e di consentirgli così una adeguata difesa: per fatto contestato deve pertanto intendersi, in relazione alla predetta ratio, non solo quello indicato specificamente nel capo di incolpazione ma quanto risulta da tutto il complesso degli elementi portati a conoscenza dell’incolpato, e sui quali lo stesso è stato messo in grado di difendersi”.

Simmetricamente ne discende che “nel procedimento disciplinare a carico di magistrati si ha modificazione del fatto, dalla quale scaturisce la mancanza di correlazione fra l’addebito contestato e la sentenza, solo quando venga operata una trasformazione o sostituzione degli elementi costitutivi dell’addebito ma non quando gli elementi essenziali della contestazione formale restano immutati nel passaggio dalla contestazione all’accertamento dell’illecito, variando solo gli elementi secondari e di contorno ovvero quando ai primi si aggiungano altri elementi su cui l’incolpato abbia avuto modo di difendersi nel procedimento” (così Cass., Sez. un., 20730/2009, che ribadisce il principio già espresso da Cass., Sez. un., 227/2001). Nella medesima direttiva, del resto, anche Cass., Sez. un., 1051/2000 aveva chiarito che “l’esame di fatti o comportamenti non espressamente enunciati nell’incolpazione non determina violazione del principio del contraddittorio quando detti fatti e comportamenti costituiscano oggetto di esame in via meramente confermativa, ovvero si configurino come momenti o singole modalità della condotta contestata”.

La censura – riferibile al capo A) dell’incolpazione -, pure apparendo correlata alla motivazione della sentenza impugnata sul punto, non pare, in effetti, tenerne realmente conto. In essa si legge “(…) risulta per tabulas che il Dott. C. ha concentrato un numero rilevante di remunerativi incarichi di consulenza d’ufficio agli Ing. G. e M. ed all’Arch.

Ga. in contrasto con gli obblighi di trasparenza nella trattazione degli affari in violazione dei principi di equa ripartizione nella trattazione degli affari e delle indicazioni impartite dal Procuratore Capo. Tali comportamenti, diventati notori nell’ambiente, hanno certamente compromesso il prestigio dell’Ordine giudiziario. Infatti il Giudice in qualsiasi manifestazione della sua attività è tenuto sempre a prevenire qualsiasi sospetto di favoritismo che possa pregiudicare anche solo l’apparenza di una corretta e imparziale amministrazione della giustizia. Si riportano di seguito le testimonianze dei Sostituti Procuratori Dott.ssa Ca.La. e P.F., assunte dalla Procura Generale (omissis). Molto eloquente è la testimonianza della Signora Ma.Ra., addetta all’Ufficio Amministrativo della Procura della Repubblica di Castrovillari omissis). Da tale testimonianza si ricava come il Dott. C. abusasse dei suoi poteri in assoluto dispregio del principio di trasparenza e di buona amministrazione. Come quello di conferire incarichi peritali nell’ambito di fascicoli iscritti a mod. 45 e di dotare di provvisoria esecuzione i decreti di liquidazione”.

Appare, con evidenza addirittura letterale, che l’affermazione di responsabilità disciplinare, in ordine al capo di incolpazione contraddistinto con la lettera A), è avvenuta con riferimento alla violazione degli obblighi di trasparenza e di buona amministrazione, con riguardo ai “principi di equa ripartizione degli incarichi” secondo le indicazioni del Capo dell’ufficio. Che tale riferimento sia all’inosservanza del criterio della “rotazione” (espressamente dedotto nella formale incolpazione) non è dato seriamente dubitare, così come apparrà evidente che il richiamo alla pratica di conferire incarichi riguardanti fascicoli iscritti a mod. 45 e di dotare di provvisoria esecuzione i decreti di liquidazione siano stati impiegati, nella motivazione, quali argomenti (si noti l’espressione “come quelli” che precede tali riferimenti) soltanto rafforzativi del convincimento del giudice disciplinare in ordine alla violazione contestata. Non si configura, perciò, il vizio denunciato.

5.2.- Per le stesse ragioni, resta superata la seconda censura.

5.3.- I successivi tre mezzi di impugnazione (cfr. supra, 4.3, 4.4, 4.5) si muovono nella medesima direzione: col primo si denunzia la nullità della sentenza, per avere solo parzialmente ricordato, del tutto ignorandone i contenuti – e, dunque, omettendone ogni valutazione – le memorie difensive dell’incolpato; col secondo si ripropone la censura sotto il profilo della violazione di legge; col terzo si illustra in positivo il conseguente vizio logico della motivazione, riferito a tutte le incolpazioni per cui è intervenuta condanna.

In via generale, restando ancorati alla giurisprudenza più rigorosa in materia (v., fra le più recenti, Cass., Sez. un., 967/2010), deve ribadirsi che “l’omesso esame da parte della Sezione disciplinare del C.S.M., di una memoria difensiva determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), ma il relativo motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile qualora non contenga l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto dai quali la censura trae fondamento e, in particolare, l’enunciazione delle questioni sollevate con la memoria di cui si lamenta la mancata valutazione”.

Ciò premesso, si osserva come, nella parte espositiva della sentenza, si legga che, l’incolpato “ha depositato dichiarazioni del Dott. Cr.Li., decreto di archiviazione del GIP di Salerno nel procedimento di cui all’art. 323 c.p., a carico di C., Ga., G. e M., alcuni decreti di liquidazione e memoriale del Dott. c.d.”; e come – sempre con riguardo alla incolpazione in esame -, nella parte motiva, espressamente si affermi: “La difesa del Dott. C. è priva di pregio. Non si può seriamente sostenere che in un albo nutrito di consulenti, i soli a renderlo tranquillo sulla professionalità e sulla loro indipendenza fossero gli Ing. G. e M.. Ai quali peraltro affidava consulenze importanti e quindi lucrose laddove quelle modeste venivano affidate ad altri consulenti”.

E’ vero che non si menziona – in premessa – il memoriale del Dott. B. (ricorso, p. 68) e non si riportano i contenuti delle tre dichiarazioni (ritenute utili alla difesa), ma mentre la prima carenza appare del tutto marginale, il rilievo conclusivo (contrario alla prospettazione difensiva), mostra all’evidenza come il giudice disciplinare abbia ritenuto di superare, con valutazione di merito, la complessiva posizione dell’incolpato – avvalorata appunto dai richiami che si assumono ignorati – secondo cui la scelta ripetuta dei consulenti G. e M. sarebbe stata dettata dalla consolidata esperienza professionale e giudiziaria di costoro nonchè dall’autonomia intellettuale rispetto all’ambiente ed al contesto sociale circostanti.

In definitiva, pertanto, la dedotta nullità non appare configurabile, riposando unicamente sul rilievo d’insufficienza della valutazione degli scritti difensivi (“Davvero troppo poco per ritenere che la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura abbia effettivamente “preso in considerazione” la articolatissima memoria difensiva (…)”. A ben vedere, quindi, la materia oggetto della censura finirà per interessare solo il, pure dedotto, vizio motivazionale.

5.4.- La medesima conclusione negativa deve aversi pure per il quarto motivo.

5.5.- Anche la quinta censura va disattesa.

Si premette che il sindacato di legittimità, in sede di giudizio disciplinare,, si configura in maniera del tutto conforme alle regole generali (fra le più recenti v. Cass., Sez. un., 23671/2009, 16625 e 2685/2007, 27172/2006), onde, in primo luogo, il discrimine tra vizio di motivazione e vizio di violazione di legge è ravvisabile in ciò, che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (Cass., Sez. un., 10313/2006). Conseguentemente – ed in ordine successivo – deve osservarsi che “in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, alle Sezioni unite della S.C., non è consentito sindacare sul piano del merito le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte medesima limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione” (Cass., Sez. un. 27689 e 18451/2005).

Su tali premesse, ed avuto riguardo al tenore della prima incolpazione (che richiama il conferimento di 69 incarichi di consulenza su 159 a due soli professionisti – con un totale di iscritti negli appositi elenchi variabile, nel periodo considerato, da 27 fino a 237, e per compensi di notevole rilievo), la motivazione di colpevolezza, riportata sub 5.3 che precede, risulta congrua ed immune da vizi logici, laddove le stesse prolungate argomentazioni di segno contrario, svolte dal ricorrente (a parte la insistita asserzione delle peculiari qualità tecniche, professionali e morali dei due professionisti, appartenenti peraltro ad unico studio, sono state via via addotte l’unicità del procedimento che avrebbe comportato il conferimento di incarichi plurimi, ovvero la individuazione di una consulenza c.d. madre che avrebbe necessariamente guidato le nomine successive), mostrano all’evidenza il mero sforzo di offrire una valutazione diversa di dati numerici che appaiono, in. assoluto, non controvertibili, e, così, la semplice offerta di una lettura delle risultanze processuali conforme alla tesi difensiva.

Il motivo di censura va quindi totalmente disatteso, con riguardo al capo A), con riserva di puntualizzazioni ulteriori, circa gli altri due capi.

5.6.- La sesta censura attiene, specificatamente, al capo B) di incolpazione, riguardante il conferimento di incarichi peritali all’arch. Ga.An., cui il ricorrente è apparso sentimentalmente legato.

Essa si rivela inammissibile.

Come si è già puntualizzato, la responsabilità del ricorrente riposa, nella, sentenza, sulla testimonianza del Procuratore capo, ed è seguita dal rilievo che gli incarichi affidati all’arch. Ga.

erano comunque “eccessivi e non rispettosi delle istruzioni del Procuratore R. e del principio di trasparenza”.

Orbene, è evidente la duplicità di rationes decidendi: da un lato, si afferma che fu il Procuratore capo ad invitare il ricorrente ad interrompere ogni rapporto di carattere professionale con l’arch.

Ga.An.; dall’altro, si osserva che comunque a prescindere da tale circostanza”, anche in questo peculiare rapporto il criterio di “rotazione” nel conferire gli incarichi non appariva rispettato.

Ed, al riguardo, il ricorrente, mentre contrasta la prima ratto, ignora totalmente la seconda. Ma la censura si rivela in sè inammissibile, per riferirsi esclusivamente ad una diversa e non consentita valutazione di merito: “In verità, le cose sono andate diversamente”, si legge testualmente a p. 119 del ricorso, dove si puntualizza – anche sulla scorta delle dichiarazioni dei colleghi che si assumono ignorate – che fu lo stesso Sostituto a sollecitare il suo capo a sostituirlo nelle liquidazioni; e si insiste sulla circostanza per cui gli incarichi sarebbero stati conferiti nel corso del 2001, tutti prima dell’insorgere del legame sentimentale: non solo esponendo una diversa valutazione, ma anche senza spiegare perchè mai gli ultimi due incarichi – indicati nella contestazione – appaiano contrassegnati coi nn. 64/02 e 66/03. Essa appare ancora inammissibile, in quanto la seconda ratio, sufficiente da sola a sostenere la valutazione di colpevolezza – ed esposta in sentenza addirittura in premessa all’affermazione di responsabilità per i capi A) e B): ivi, p. 6; v. anche supra, 5.1 -, non appare in alcun modo contrastata: e, ciò, indipendentemente dalla considerazione della estraneità della motivazione, sul punto, rispetto alla contestazione formale del capo B), dal momento che nessun rilievo, su tale specifico punto, è contenuto nel motivo ora esaminato (nè, in alcun modo, nel primo motivo, che pone, in via generale, la questione della mancata corrispondenza tra incolpazione e sentenza).

5.7.- Anche la censura seguente (che riprende la parte finale della sesta, circa l’incidenza delle valutazioni rese in sede penale), che per le prime due incolpazioni avrebbe dovuto precedere i motivi attinenti ai vizi di motivazione già esaminati, appare infondata.

Difatti, costituisce criterio interpretativo univoco (v., fra le altre, Cass., Sez. un., 5132/1995, 5259/1998, 18451 e 27689/2005), anche di recente ribadito – persino sotto il profilo della manifesta infondatezza del sospetto di illegittimità costituzionale -, quello, condiviso dal collegio, secondo cui “qualora il magistrato per la stessa condotta sia perseguito penalmente e in sede disciplinare, quest’ultima azione non è preclusa da un decreto di archiviazione degli stessi fatti in sede penale. Infatti, la regola di cui al citato R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 29, secondo la quale nel procedimento disciplinare fa sempre stato l’accertamento dei fatti che formarono oggetto del giudizio penale, non preclude che in sede disciplinare avvenga una nuova valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, nell’ottica, indubbiamente più rigorosa, dell’illecito disciplinare, essendo diversi i presupposti delle rispettive responsabilità, fermo restando il solo limite dell’accertamento dei fatti nella loro materialità, così come compiuto dal giudice penale” (Cass., Sez. un., 2732/ 2009). Ne deriva che, ferma la impossibilità dell’equiparazione – sostenuta in ricorso – del decreto di archiviazione alla sentenza (unico provvedimento, questo, richiamato nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, indicato nell’enunciazione del motivo), l’esclusione del sospetto di parzialità dell’operato del Dott. C., affermata in sede penale, è adeguatamente superata dalle valutazioni di segno contrario del Giudice disciplinare, che ha ritenuto i comportamenti dell’incolpato, in relazione ai capi A) e B), lesivi dei doveri di imparzialità e correttezza e causa di discredito del prestigio e della credibilità dell’ordine giudiziario.

5.8.- Sfornita di pregio appare anche l’ottava censura.

Sostiene il ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione, l’erroneità dell’affermazione di responsabilità in ordine al capo E), riferita dal giudice disciplinare a “27 incarichi per l’archiviazione elettronica degli atti dei procedimenti (…) in quanto trattasi di attività rientranti nella organizzazione del proprio ufficio e, pertanto, non sono assolutamente delegatali” – con l’aggiunta che alcuni incarichi erano stati poi revocati dal Procuratore capo subentrato al dott. R., con i conseQuenziali atti di liquidazione per complessivi Euro 172.000. Deduce infatti che – come risulta dalla memoria difensiva a suo tempo depositata e dal “memoriale” del Dott. c. (che è lo stesso consulente nominato per le operazioni contestate), non considerati in alcun modo nella sentenza impugnata – non di mera archiviazione si sarebbe trattato, sibbene di attività intesa a “creare un importante ed efficace supporto all’azione investigativa, di agevolare le determinazioni da adottare nel corso delle indagini (misure cautelari, esercizio dell’azione penale) e di assicurare al P.M., in dibattimento, la non dispersione delle più complesse trame probatorie e la completezza dell’accertamento da sottoporre al Giudicante” (v. ricorso, con trascrizione della memoria, p. 128 seg.). Si tratterebbe, pertanto, di attività di ausilio al P.M. che, lungi dal rientrare negli stessi compiti di organizzazione generale dell’ufficio, risolvendosi nella creazione di un data base relazionale e informatico, non può che qualificarsi “operazione tecnica per cui sono necessarie specifiche competenze”, a mente dell’art. 359 c.p.c..

In contrario sì osserva che “in tema di consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero costituisce giudizio di fatto, non sindacabile dal giudice di legittimità, la valutazione se il compito affidato al consulente richieda competenze tecniche o scientifiche specifiche diverse da quelle giuridiche proprie dell’inquirente, o se piuttosto sì tratti di una delega di attività investigative o valutative tipiche del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, come tale non riconducibile alla nozione di consulenza tecnica” (Cass. pen., 6^, 7671/2004, di reiezione del ricorso contro un provvedimento del tribunale che, valutando la opposizione di alcuni imputati contro i decreti di liquidazione adottati dal pubblico ministero, aveva deliberato il parziale annullamento di questi ultimi, sul presupposto che si riferissero ad una attività di conduzione congiunta dell’indagine, come tale non remunerabile. In particolare, essendosi richiesta al consulente la creazione di una banca informatica dei dati d’indagine raccolti a proposito di contratti assicurativi e la individuazione di elementi di anomalia per una parte tra essi, il tribunale aveva ritenuto che tale seconda porzione di attività non costituisse l’oggetto di una consulenza tecnica).

Ne deriva che, al di là di spunti di carattere definitorio, non è dato sovvertire la conclusione cui è pervenuto il giudice disciplinare, posto che l’intera attività non poteva prescindere – come si legge nel ricorso e nella memoria in esso riportata – dalla partecipazione del magistrato, dal suo “impulso”, e, così, dai compiti di organizzazione dell’ufficio, ritenuti appunto, nella sentenza impugnata, non delegabili.

5.9.- Se ciò comporta il superamento dell’ottavo motivo, a conclusioni non diverse sì perviene per quello successivo, che finisce per prospettare la stessa questione, sotto il profilo della violazione di legge, per ribadire che le operazioni di informatizzazione in oggetto oltrepassavano la dimensione “statica” dell’archivio elettronico (o banca dati), essendo intese alla “creazione di data base relazionale ed informatico nel quale confluivano tutti gli atti di procedimenti penali che, per imponenza, numero di atti, gravita dei fatti, quantità degli accadimenti tra di essi collegati, era improntato alla rivelazione di tutte le relazioni possibili tra fatti ed atti” (ricorso, p. 135). Anche in questa prospettiva si coglie invero agevolmente come una tale attività di supporto, lungi dal poter costituire materia di scelte singole, avrebbe semmai richiesto un intervento generalizzato di carattere organizzativo del capo dell’ufficio, per la creazione di un sistema che consentisse (quanto meno per i processi ritenuti più complessi) la inserzione degli elementi considerati rilevanti nel data base così come configurato. Del resto, proprio l’art. 42 CAD, evocato nel precedente – e collegato – motivo, subordina la creazione di un archivio informatico (che, nell’ottica del ricorrente, costituirebbe uno strumento inferiore rispetto a quello cui egli avrebbe fatto riferimento attraverso le singole consulenze tecniche) ad una previa valutazione “in termini di rapporto tra costi e benefici” per il recupero informatico di documenti ed atti cartacei, valutazione certamente preclusa con riguardo a singole pratiche (nel caso in esame, a singoli procedimenti).

Di qui la reiezione anche di questa censura.

5.10.- Ne rimane superata, infine, l’ultima, che riveste carattere meramente conclusivo, per limitarsi all’affermazione secondo cui la Sezione disciplinare del C.S.M. “avrebbe dovuto assolvere il Dott. C. da tutti gli addebiti mossi dalla Procura Generale nei suoi confronti, in quanto i fatti allo stesso contestati non integrano in alcun modo gli estremi di un illecito disciplinare ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 1 e 2, con la conseguenza che nessuna sanzione potrebbe trovare applicazione”.

5.11.- In definitiva, il ricorso va rigettato.

Non conseguono statuizioni sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2010

 

 

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