Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16277 del 26/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 26/07/2011, (ud. 23/06/2011, dep. 26/07/2011), n.16277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25 B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’avvocato SIGILLO’MASSARA GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.L. elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA TARQUINIA

5/D (STUDIO AVVOCATO MARIA LUISA FALLA TRELLA), presso lo studio

dell’avvocato RIOMMI MAURIZIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MICHELI CARLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 722/2006 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 12/03/2007 r.g.n. 617/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega SIGILLO’ MASSARA GIUSEPPE;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO per delega RIOMMI MAURIZIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di Appello di Perugia, con sentenza del 12.3.2007, notificata il 15.6.2007, rigettava l’appello proposto dalla s.p.a.

Poste Italiane avverso la decisione del Tribunale di Perugia che, ritenuta ingiustificata la causale apposta a contratto a termine, stipulato con C.L., con decorrenza dal 1.3.2000 sino al 30.6.2000 (per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi…”, ex art. 8 del ccnl 26.11.1994) – per avere gli accordi attuativi dell’art. 8 ccnl 26.11.1994 previsto quale termine finale per procedere alle assunzioni quello del 30.4.1998 e per essere, pertanto, venuta meno successivamente la contrattazione autorizzatoria – aveva condannato la società al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dalla data di messa in mora.

Propone ricorso per cassazione, con quattro motivi la società, che ha altresì, depositato memoria illustrativa si sensi dell’art. 378 c.p.c..

Resiste, con controricorso, la C..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società deduce la violazione e l’erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 e dell’art. 1362 c.c. e segg. a nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Asserisce la natura non negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto, degli accordi successivi a quello del 25.9.1997, rilevando che la norma contrattuale non deve necessariamente avere una efficacia temporale e che assume significato, a fini interpretativi, anche il comportamento complessivo delle parti posteriore alla conclusione del patto collettivo oggetto di interpretazione, aggiungendo che occorreva pertanto verificare unicamente la permanenza del fenomeno di ristrutturazione invocato a fondamento dell’apposizione del termine. Pone, a conclusione della parte argomentativa del motivo, specifico quesito, domandando se, in virtù della delega in bianco contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23 l’autonomia sindacale investita di funzioni paralegislative non incontra limiti ed ostacoli di sorta nella tipologia dei nuovi contratti a termine in relazione alle ipotesi che ne legittimano la conclusione per cui gli accordi successivi a quello del 25.9.1997, non hanno natura negoziale, ma meramente ricognitiva, e se la norma contrattuale debba necessariamente prevedere una specificazione della causale collettiva in una causale individuale.

Rileva, ulteriormente, che l’interpretazione del contratto deve essere condotta non fermandosi al senso letterale delle espressioni usate dovendo valutarsi il comportamento delle parti anche successivo alla conclusione del contratto e pone quesito domandando se il sistema delineato dalla legge preveda la necessità che – ove le nuove ipotesi di contratto a termine siano dotate di particolare ampiezza tale da capovolgere ti rapporto tra la regola generale dell’assunzione a tempo indeterminato e l’assunzione a termine – la norma contrattuale debba necessariamente avere una efficacia temporale limitata.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo che la Corte territoriale ha trascurato di valutare circostanze quali la durata appena trimestrale del contratto, che i rapporti di lavoro a tempo determinato si erano conclusi senza contestazione alcuna da parte della lavoratrice, che il lavoratore aveva accettato il TFR e le altre indennità connesse alla cessazione del rapporto senza formulare alcuna riserva e che solo molti anni dopo la cessazione del rapporto il lavoratore aveva contestato la legittimità del termine apposto Con specifico quesito di diritto, domanda se, nel caso di notevole lasso di tempo intercorso tra la data di scadenza del rapporto a termine e quella in cui il lavoratore si e attivato per far valere il diritto di conversione del rapporto di lavoro, il giudice debba valutare – eventualmente in concorso con altre indicative circostanze di fatto – la volontà tacita del lavoratore, espressa per fatti concludenti, di risolvere il rapporto, rinunciando a far valere l’eventuale illegittimità del termine apposto al contratto.

Con il terzo motivo, la società lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 evidenziando che l’aliunde perceptum non può che essere dedotto genericamente dall’istante e che dovrebbe essere onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione e formulando quesito di diritto, con cui domanda se, nel caso di oggettiva difficoltà della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande o eccezioni – e segnatamente per la prova dell’aliunde perceptium -, il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto.

Infine, con il quarto motivo censura la decisione per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, e per insufficiente e contraddittoria motivazione, rilevando che il giudice del merito avrebbe ignorato il principio della corrispettività della prestazione, in forza del quale il ricorrente avrebbe avuto diritto alle retribuzioni solo dal momento dell’effettiva ripresa del servizio e domanda, con specifico quesito, se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione dei principio generale di effettività e di corrispettività delle prestazione, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retribuivo pure in assenza di attività lavorativa e se tale erogazione abbia natura retribuiva o risarcitorie.

Quanto al primo dei motivi di ricorso, osserva il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per esigenze eccezionali … – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento a sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – e sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto de quo.

Al riguardo, sulla scia di Cass SU 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v, Cass. 4-8-2008 n. 21063. v. anche Cass 20-4-2006 n. 9245. Cass 7-3-2005 n. 4862. Cass 26-7-2004 n. 14011).

“Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatali, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste, dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre. Cass. 4-8-2008 n. 21062. Cass 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v, fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n, 2866).

In particolare, quindi come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre. Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n 28450, Cass, 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass, 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr., Cass. 29-7^2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo.

In ordine al secondo motivo, deve rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione de rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, la valutazione del significato e della portata dei complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto” (v, Cass. 10-11-2008 n 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390 Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass 11- 12-2001 n 15621).

Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è stato precisato “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Nella specie la Corte d’Appello, confermando sul punto la sentenza del Tribunale di Perugia, ha osservato, con motivazione immune da vizi logico giuridici, che nella specie non vi era stato alcun comportamento del lavoratore che potesse far presumere una sua acquiescenza alla risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la cessazione di quest’ultimo ed il tentativo di conciliazione non poteva essere in alcun modo interpretato come volontà di accettazione della risoluzione per mutuo consenso.

Quanto al terzo motivo, deve affermarsene la inammissibilità, atteso che il relativo quesito risulta del tutto generico e astratto, mancando qualsiasi riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato.

Pure il quarto motivo si conclude con quesito non correttamente formulato, oltre che per le ragioni già indicate con riferimento al precedente di cui al n. 3, anche per la sua parziale estraneità alle argomentazioni sviluppate nell’esposizione del corrispondente motivo di ricorso, osservandosi che con esso si lamenta che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente considerato che la messa in mora coincidesse con la comunicazione della richiesta de tentativo obbligatorio di conciliazione, e di tale questione non vi e traccia nel quesito stesso.

Infine, osserva il Collegio che con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società ricorrente, invoca, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, a prescindere dalla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 della citata norma applica i precedenti commi 5 e 6, anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass, 27-2-2004 n. 4070), Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Conclusivamente, li ricorso deve essere respinto e la soccombenza della società costituisce valido motivo per porre le spese di lite del presente giudizio a carico della stessa.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 48,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e Cpa come per legge.

Così deciso in Roma, il 23 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2011

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