Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16277 del 12/07/2010

Cassazione civile sez. un., 12/07/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 12/07/2010), n.16277

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Primo Presidente f.f. –

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.S.A. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

BRUNO BUOZZI 59, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO STEFANO, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VACCARELLA ROMANO,

per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 20/200 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 27/01/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 del Consigliere Dott. PICCIALLI Luigi;

uditi gli avvocati GIORGIO Strefano, Romano VACCARELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituito Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso, p.q.r., per l’accoglimento

del ricorso.

 

Fatto

I FATTI ED IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE

Con ordinanza in data 8.6.2005, estesa dal relatore dott. D.S.A.,il Tribunale de Riesame di Napoli annullò una misura di custodia cautelare in carcere a carico di un sospetto camorrista,tra l’altro motivando il provvedimento con la mancanza, tra gli atti trasmessi dalla Procura, del verbale integrale, in forma stenotipia reso da un collaboratore di giustizia. Il P.M. di udienza, dott. A., oltre ad impugnare per cassazione la suddetta ordinanza, sporse denunzia per falso ideologico, presso la Procura della Repubblica di Roma, competente ex art. 11 c.p.p., a carico del dott. D.S., il quale reagì, a sua volta denunziando per falso e calunnia il suddetto sostituto procuratore. Al dott. D.S., indagato per il delitto cui all’art. 479 c.c., con l’aggravante di cui al D.L. n. 203 del 1991, art. 7 fu applicata la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio delle funzioni giudiziarie con ordinanza del G.I.P. di Roma in data 25.9.06, che tuttavia venne annullata dal Tribunale del Riesame della stessa sede, con ordinanza dell’8.11.06, impugnata dal P.M. con ricorso per cassazione, poi rigettato con sentenza del 27.3.07 cui fece seguito, in data 10.9.07, l’archiviazione da parte del G.I.P. del procedimento a carico del D.S.; analogo esito ebbe, successivamente con decreto del 20.2.08, quello relativo alla contro – denuncia sporta da quest’ultimo contro il dott. A..

Nelle more, intanto, delle suddette vicende penali, pervenute attraverso notizie di stampa a conoscenza del Ministro della Giustizia, erano stati da questo disposti accertamenti ispettivi, venendo all’esito promosso, in data 29.3.2007, un procedimento disciplinare, nell’ambito del quale il P.G. presso questa Corte, aveva contestato al dott. D.S. gli addebiti, come di seguito articolati:

“della violazione in ordine all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1art. 2, lett a, d, ff, perchè, quale giudice del Riesame del Tribunale di Napoli, si è reso immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato in modo da compromettere il prestigio e la credibilità dell’intero ordine giudiziario, violando nell’esercizio delle funzioni i doveri di diligenza e di correttezza nei rapporti, interni o correlati all’ufficio giudiziario (segnatamente nei confronti del PM e dei suoi rappresentanti) e di imparzialità, con le seguenti condotte:

1) attestando falsamente,coscientemente e reiteratamente, la mancata presenza agli atti del verbale di interrogatorio in forma stenotipica di S.R. e ciò attraverso una attestazione negativa esplicitata per iscritto nel provvedimento de libertate 8.6.2005 con cui veniva annullata l’ordinanza applicativa della, misura cautelare in carcere al G. e successivamente riproposta con modalità peraltro aggressive nei confronti dei magistrati della Procura, con plurime accuse di falsificazione di atti e di manipolazione di faldoni, relativi al fascicolo, al momento della trasmissione in Cassazione del medesimo;

2) utilizzando, come pure pacificamente ammesso, nella redazione di un provvedimento giurisdizionale in atto proveniente dalla difesa dell’indagato, scannerizzando ed operando degli interventi sul testo, peraltro con evidenti e macroscopici errori, quali l’aver dato per assente il P.M in udienza. Con siffatta antidoverosa condotta il dott. D.S. procurava un indebito vantaggio all’indagato, rimesso in libertà per effetto di un provvedimento fondato su un falso presupposto, ovvero l’assenza agli atti del verbale di interrogatorio in forma integrale del pentito S., e, nel contempo, comprometteva le sue indispensabili qualificazioni di credibilità professionale, fiducia ed esteriore considerazione, altresì vulnerando il prestigio e l’affidabilità dell’ordine giudiziario nel suo complesso, atteso il clamore mediatici) della vicenda, interessando il provvedimento esaminato la scarcerazione di un pericoloso esponente della criminalità organizzata della Campania”.

Ma a seguito e sulla scorta della citata sentenza di questa Corte del 27.3.07, che aveva confermato non solo l’insussistenza della materialità del reato, la lesione della fede pubblica, ma anche l’impossibilità di ravvisare il dolo, per difetto d’intenzionalità delle non veritiere attestazioni, il Procuratore Generale formulò, in data 8.3.08, richiesta conclusiva alla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, di non luogo a procedere in ordine agli addebiti disciplinari.

Tale richiesta fu però disattesa dalla suddetta sezione, che dispose farsi luogo al dibattimento con provvedimento in camera di consiglio del 26.5.08, cui fece seguito la fissazione di ufficio, con decreto del 28.8.08, della pubblica udienza per il giudizio disciplinare.

In tal sede con preliminare istanza del 16.09 il D.S. ricusò, richiamando gli artt. 34 e 35 c.p.p., alcuni componenti del collegio giudicante, per avere i medesimi fatto parte di quello che aveva disposto il suo rinvio a giudizio, così già pronunziandosi in ordine agli addebiti;ma la richiesta fu dichiarata inammissibile, anche sotto i dedotti subordinati profili d’illegittimità costituzionale, da un diverso collegio della sezione disciplinare, con ordinanza del 3.2.2009, la cui impugnazione fu del pari dichiarata inammissibile, con sentenza n. 15969 dell’8.7.2009 di queste Sezioni Unite.

Infine, all’esito del dibattimento, nel quale il P.G. e la difesa avevano entrambi concluso per il proscioglimento dell’incolpato da ogni addebito, la sezione disciplinare, con dispositivo letto all’udienza del 28.9.2009, “dichiara (va) il dott. D.S.A. responsabile della incolpazione ascrittagli limitatamente al punto 2 dell’incolpazione e nei limiti di cui in motivazione e gli infligge (va) la sanzione disciplinare della censura”. Le ragioni di tale decisione, contenute nella motivazione della sentenza successivamente depositata in data 27.1.2010 possono come di seguito riassumersi:

a) la specificità del procedimento disciplinare, regolato dalle norme del codice di procedura penale solo nelle parti espressamente richiamate e caratterizzato da struttura essenzialmente “monofasica”, escludeva l’applicabilità delle incompatibilità dedotte in sede di ricusazione e riproposte quali eccezioni di nullità, attesa la complessiva unitarietà del giudizio, sia pure articolalo nei suoi graduali passaggi, nell’ambito del quale erano assicurate all’incolpato tutte le garanzie costituzionali di difesa e di terzietà del collegio giudicante, non escluse dalla precedente attività di mera delibazione prevista dal rito;

b) l’eccezione di nullità dell’ordinanza che aveva disposto il giudizio, perchè deliberata da cinque, anzichè dai sei previsti dalla legge, componenti del collegio, per la dedotta ed asseritamente documentata assenza, negli ultimi undici minuti, di uno di essi, in quanto figurante contemporaneamente presente, da consultazione del sito “INTRANET” del C.S.M. presso la prima commissione referente di tale consesso, non era fondata, tenuto conto dell’inidoneità della suddetta fonte informativa ad attestare l’ininterrotta presenza dei consiglieri alle sedute di commissione e la probabilità di eventuali ed incolpevoli imprecisioni o omissioni, circa eventuali eventuali ritardi o allontanamenti dei consiglieri, nei verbali donde l’inutilità della sollecitata acquisizione documentale, comunque inidonea a superare la pubblica fede rivestita dal verbale dell’udienza camerale;

c) l’eccepita deroga dalle regole “Tabellari” nella composizione del collegio giudicante, non poteva tradursi in motivo di nullità del giudizio,a tanto non conducendo il richiamo all’art. 33 c.p.p., al riguardo prevedente solo la violazione delle regole attinenti alla capacità del giudice, intesa quale generica capacità all’esercizio delle funzioni giurisdizionali ed escludente, tra l’altro ed espressamente, rilievo alle disposizioni relative alla formazione dei collegi tanto in conformità al costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità sull’inconfigurabilità, in siffatte irregolarità, della violazione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge;

d) altrettanto infondata era l’eccezione preliminare deducente la nullità dell’instaurazione del giudizio disciplinare, perchè alla citazione dell’incolpato per il dibattimento aveva provveduto di ufficio il presidente della sezione, senza attendere la richiesta del P.G. la mancanza di tale atto d’impulso, pur previsto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, comma 8, non era sanzionata sotto comminatoria di nullità, sicchè in base al principio di tassatività di queste ultime, la mera irregolarità, che non aveva comportato alcun pregiudizio alle parti, attenendo l’omissione ad un atto dovuto da parte del PG., comunque tenuto a formulare la richiesta, ed essendosi risolta in una semplice accelerazione dell’iter processuale, non aveva inficiato la vocatio in ius;

e) non miglior sorte meritava l’ultima eccezione preliminare decadenza dall’azione disciplinare,essendo stata questa esercitata D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 14, commi 1 e 2 dal Ministro il 29.3.07, con la richiesta di indagini al PG., dopo la conclusione di quelle ispettive che avevano accertato compiutamente gli elementi dell’illecito disciplinare e che erano state disposte a seguito di un articolo pubblicato il 31.3.06 su un quotidiano napoletano, sicchè, quand’anche a tale notizia risalisse la conoscenza dei fatti, l’iniziativa sarebbe stata comunque tempestiva, in relazione al termine annuale di cui all’art. 15 col cit. D.Lgs.; nè poteva sostenersi la necessità di promuovere una nuova azione a seguito del decreto, in data 10.9.07, di archiviazione del procedimento penale, stante l’autonomia di quello disciplinare, non necessitante di un nuovo atto d’impulso, pur dopo la sospensione in pendenza di quello del penale; quanto, infine, al termine biennale entro il quale avrebbe dovute essere formulata, ex art. 17, comma 2, la richiesta di citazione a giudizio da parte del P.G., valeva, ad evitale la decadenza della richiesta conclusiva di proscioglimento, avente i medesimi effetti ai sensi dell’art. 15, comma 2, nella specie formulata l’8.3.08;

f) nel merito, la sezione condivideva le argomentazioni esposte dal P.G. a sostegno della sua richiesta finale di proscioglimento, limitatamente al primo addebito, nonchè ai connessi profili del secondo, sull’essenziale considerazione che a D.S. fosse sfuggita, non solo per la ponderosa mole degli atti, ma anche a cagione di un approccio troppo approssimativo e frettoloso agli stessi, sotto la “potente…suggestione delle asserzioni contenute nella memoria difensiva in presenza del verbale integrale delle dichiarazioni rese dal “pentito”, peraltro rivelatasi irrilevante ai fini della decisione (tanto che una nuova ordinanza del Tribunale del Riesame, diversamente composto, reinvestito della questione a seguito del dell’annullamento in cassazione dell’ordinanza “incriminata” aveva deciso in modo conforme a quella); conseguentemente cadevano anche l’addebito sub 2), nella parte in cui l’attestazione d’inesistenza agli atti era stata contestata quale falso presupposto del provvedimento di rimessione in libertà del presunto camorrista, quello, compreso nel primo capo, di aver reagito con “modalità aggressive” (tanto da denunciarla sua volta, di falso il P.M. di udienza, accusa che sarebbe stata poi archiviata) nei confronti dei magistrati della Procura napoletana, tenuto conto del suo convincimento al riguardo e del comprensibile risentimento per la gravissima accusa di collusione a suo carico;

g) a diversa conclusione perveniva invece la sezione disciplinare, quanto al rimanente addebito, di cui sub 2), depurato dei suesposti profili collusivi, considerato che la contestata ed ammessa “scannerizzazione” di passi della memoria difensiva, trasfusi pressocchè integralmente (con qualche marginale modifica) nella parte motiva de provvedimento, senza “virgolette”, nè citare la paternità delle argomentazioni pedissequamente riportate, aveva travalicalo i limiti di un’ammissibile motivazione per relationem, denotando non solo superficialità, di cui gli stessi errori materiali (in particolare lo “svarione” informatico relativo all’assenza del P.M.) costituivano un significativo indice, ma anche acritica ricezione delle tesi sostenute dal difensore aprioristicamente valorizzale a tutto discapito di quelle dell’accusa, con conseguente svalutazione del ruolo del P.M. e violazione del principio di terzietà del giudice;

h) quanto al trattamento sanzionatorio,pur risultando in astratto più favorevole la disciplina previgente rispetto a quella contenuta nel D.Lgs. n. 109 del 2006, perchè per il fatto, nell’una e nell’altra previsto quale illecito disciplinare, non prevedeva una sanzione minima, le concrete modalità del fatto, concretante una “caduta di professionalità” particolarmente grave per un “magistrato d’esperienza” ed i precedenti disciplinari, quelli conclusisi con proscioglimenti, che comunque avevano segnalato carenze professionali sul piano della diligenza e correttezza”, ed uno recente conclusosi con condanna, per fatto commesso fuori dell’esercizio delle funzioni, ma “dimostrativi degli stessi tratti di arroganza e insufficiente rispetto del proprio ruolo dimostrati nella vicenda appena esaminata”, inducevano ad irrogare “il biasimo formale che si esprime nella censura”.

Avverso la suddetta sentenza il dott. D.S. ha proposto ricorso a queste Sezioni Unite, affidato a dieci motivi d’impugnazione.

Il Ministero della Giustizia ed il Consiglio Superiore della Magistratura non hanno svolto attività difensiva.

Il ricorrerne ha infine depositato una memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I motivi d’impugnazione saranno esaminati secondo l’ordine di priorità logico giuridica, cui non è del tutto rispondente quello di esposizione nel ricorso.

1) Quanto sopra premesso, va anzitutto esaminato, per la sua potenziale attitudine assorbente rispetto a tutti i rimanenti, il terzo motivo, con il quale, denunciando “violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), dell’art. 178 c.p.p., comma 1, in riferimento alla L. 24 marzo 1958, n. 195, artt. 4 e 6 e succ. modd.”, si deduce la “nullità assoluta ed insanabile, dell’udienza in camera di consiglio del 26.5.2008, per sopravvenuto difetto di costituzione (5 e non 6 componenti), dalle ore 15,15 sino alla fine (ore 15,26) del 26.5.2008, e conseguente incapacità della Sezione disciplinare del C.S.M. rilevabile anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, all’esito della quale fu emessa l’ordinanza di rigetto della richiesta del Procuratore Generale di non farsi luogo al rinvio al dibattimento disciplinare”, con conseguente nullità assoluta di tutti gli atti di quest’ultimo e della sentenza: tanto perchè, come già si è riferito in narrativa, il consigliere F. sarebbe risultato contemporaneamente presente anche nella seduta della prima commissione referente del C.S.M., dalle ore 15,15 alle 17,15, il che avrebbe implicato la sua assenza all’atto della deliberazione dell’ordinanza di rinvio a giudizio. Il motivo non merita accoglimento,poichè le censure sulle quali si fonda si risolvono in una contestazione dell’efficacia fidefacente del processo verbale redatto dal segretario della sezione disciplinare, che, non diversamente da quelli redatti dal cancelliere, sia nelle udienze civili, sia in quelle penali (per queste ultime, con riferimento al nuovo codice di procedura, v. in particolare Cass. pen. sez. 1A,n. 20993/04, sez. 3A. n. 9975/03. n. 7785/96), in quanto atto pubblico redatto da pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni ai sensi dell’art. 2700 c.c., comporta l’attestazione, fino querela di falso, delle attività compiute alla presenza dell’estensore. Essendo pertanto riportata in quel verbale la composizione del collegio, da presumersi immutata sino alla fine dell’udienza, in assenza di alcuna annotazione di eventuali allontanamenti di alcuno dei componenti, l’unica via consentita dall’ordinamento per impugnare tale attestazione sarebbe stata quella di proporre una querela di falso, ai sensi dell’art. 221 c.p.c. avverso detto atto. Non essendo ciò avvenuto,non può censurarsi l’impugnata decisione che, nel rigettare l’eccezione, ha tra l’altro espressamente osservato che “a far fede della corretta costituzione della sezione disciplinare sono il verbale dell’udienza e la stessa ordinanza”. Conseguentemente irrilevanti si palesano i profili di censura relativi alla mancata acquisizione del verbale della prima commissione e diretti contro le altre argomentazioni, che si assumono meramente congetturali e probabilistiche. contenute nella sentenza impugnata di cui si è fatta menzione in narrativa, in quanto non necessario al rigetto dell’eccezione ed attinenti ad una questione, quella della correttezza di quel verbale, e non di quello dell’udienza camerale, estranea al presente giudiziose discende, pertanto, l’irrilevanza dell’avvenuta allegazione (peraltro palesemente tardiva ex art. 372 c.p.c.), della copia conforme di tale atto con la memoria illustrativa.

2) Segue, in ordine di priorità logico – giuridica, il secondo motivo ricorso, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), art. 178 c.p.p,.comma 1, lett. a), art. 179 c.p.p., in riferimento al combinato disposto dell’art. 125 c.p.p. e D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 17, commi 6 e 8, deducendosi la nullità assoluta dell’ordinanza della Sezione Disciplinare adottata all’udienza in camera di consiglio del 26.5.2008, per omessa pubblicazione ed omessa motivazione. Richiamate le norme sopra indicate, in particolare l’art. 17, comma 6 cit. D.Lgs., impotente, al pari dell’art. 185 c.p.c., ed in conformità al principio dettato dall’art. 111 Cost., l’obbligo della motivazione, e la copiosa giurisprudenza penale di legittimità, si sostiene che la suddetta omissione abbia determinato non solo la nullità del provvedimento carente, ma anche quella derivata di tutti gli atti successivi, fino alla sentenza; ulteriore conseguenza sarebbe quella dell’estinzione del procedimento disciplinare per superamento del termine biennale massimo, pur tenendo conto della subita sospensione in costanza di quello penale, dalla data del suo inizio. Anche tale motivo deve essere respinto.

Pur non avendo il giudice disciplinare esaminato tale eccezione, la relativa omissione di pronunzia risulta irrilevante, considerato che la stessa avrebbe dovuto essere rigettata, come la si rigetta in questa sede, per le considerazioni di seguito esposte. Il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 8 prevede che “decorsi i termini di cui al comma 7, sulla richiesta di non luogo a procedere la sezioni disciplinare decide in Camera di consiglio. Se accoglie la richiesta, provvede con ordinanza di non luogo a procedere. Se rigetta la richiesta, il Procuratore generale formula l’incolpazione e chiede al presidente della sezione disciplinare la fissazione dell’udienza di discussione orale..”. Dalla sequenza in cui vengono esposti e delineati i due possibili, alternativi, esiti della richiesta di proscioglimento del P.G., risulta evidente come il provvedimento (che, significativamente, non viene qualificato ordinanza così come quello di cui al periodo precedente), con il quale la sezione disciplinare del C.S.M. vada di diverso avviso dell’organo requirente, non possa avere altra motivazione, se non quella di non condividerne la proposta assolutoria “allo stato degli atti”, ravvisando invece l’esigenza di passare al suo successivo esame, con gli approfondimenti in contraddittorio, consentiti dal pubblico dibattimento, con il quale si completa quel giudizio (sostanzialmente “monofasico”, per quanto si dirà oltre) nell’ipotesi in cui, alla prima valutazione delle risultanze acquisite nel l’istruttoria, la fattispecie non risulti, ad avviso del collegio giudicante, connotata dall’evidenza decisoria ravvisata dal titolare dell’azione disciplinare. In siffatto contesto processuale, l’esigenza di una espressa e specifica motivazione può trovare giustificazione soltanto per l’ipotesi in cui, aderendo alla richiesta de P.G.. il giudice disciplinare, l’accolga, considerato che tale provvedimento (l’ordinanza di non luogo a procedere di cui al citato art. 17, comma 8, secondo periodo),ponendo termine,con una pronunzia decisoria, al procedimento disciplinare, debba rendere conto, in ossequio al principio dettato dall’art. 111 Cost, comma 6 pubblicamente e definitivamente delle ragioni comportanti il proscioglimento. Non altrettanto può ritenersi, quanto all’altro provvedimento, che, di natura interlocutoria ed interno ad un giudizio non ancora completato, altrimenti non può spiegarsi se non in considerazione della ravvisata necessità di passare ad un successivo e più approfondito vaglio dibattimentale degli addebiti, ipotesi nella quale il provvedimento,quale che sia il nomen iuris, se di ordinanza o decreto, allo stesso attribuibile, trova la sua implicita motivazione nel sistema stesso della legge, che limitandosi a prevedere il rigetto della richiesta ed il conseguente obbligo del P.G. di formulare l’incolpazione (ove non vi abbia già provveduto), lascia chiaramente intendere che le ragioni, in re ipsa, di siffatta pronunzia (che ove espresse si risolverebbero immancabilmente in tautologiche formule,parafrasanti il dettato normativo, del tipo “ritenuta l’opportunità di procedere al dibattimento” e similia) risiedano nella non ravvisata evidenza dell’infondatezza dell’accusa e nella connessa necessità di aiutarla in pubblica udienza.

L’ordinamento, peraltro, annovera altri casi in cui il transito del giudizio dall’udienza camerale, nella quale avrebbe potuto concludersi, a quella pubblica del medesimo giudice, avviene mediante provvedimento non richiedente particolare motivazione: basti menzionare, nel campo civile,” ipotesi di cui all’art. 380 bis, u.c., e quella corrispondente di cui all’art. 375 c.p.c., penultimo comma, (nel testo previgente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 40 del 2006) per i casi in cui la Corte di Cassazione ritiene di non poter definire il giudizio, fissato per l’esame preliminare in camera di consiglio, e di doverlo rimettere alla pubblica udienza la cui motivazione, implicita, altra non può essere che quella di dover procedere ad una più approfondita valutazione della fattispecie.

3) Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), art. 179 c.p.c., comma 1, in riferimento al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 17, comma 8, – violazione del principio ne proceda index ex officio — omessa vocatio in ius”, censurandosi il rigetto della corrispondente eccezione, di cui sub d) in narrativa, perchè, nel ritenere non affetta da nullità l’emissione del decreto disponente il giudizio, senza attendere la richiesta del P.G., non si sarebbe tenuto conto della giurisprudenza penale di legittimità, uniforme e costante nell’escludere alcuna possibilità, da parte del giudice, di sostituirsi al pubblico ministero nell’esercizio non solo dell’accusa, ma anche dei relativi e conseguenti atti d’impulso processuale, non essendo siffatte iniziative consentite dal principio costituzionale della terzietà ed imparzialità. Si cita, a sostegno una sentenza di queste Sezioni Unite (la n. 17938/08) in materia disciplinare forense e si critica in particolare la giustificazione esposta nella sentenza impugnata, secondo cui la richiesta suddetta sarebbe stata un atto dovuto da parte del P.G., obiettando che l’impropria “supplenza” esercitata dal presidente della sezione disciplinare, in virtù di un non consentito interesse processuale alla sollecita definizione del giudizio, trasformando il giudice in attore, avrebbe precluso al requirente sia la possibilità di riformulare il capo di imputazione” secondo la sua indefettibile scelta discrezionale”, sia quella di lasciar estinguere il procedimento disciplinare, astenendosi dalla richiesta di fissazione del dibattimento. Il motivo è infondato.

Va anzitutto ribadito, in conformità a quanto più volte precisato da queste Sezioni Unite in tema di disciplina dei magistrali, che l’estensione in materia delle norme regolanti il processo penale, essendo D.Lgs. n. 109 del 2006, ex artt. 16 e 18 limitata agli atti indagine ed alle attività dibattimentali e, peraltro, temperata dal criterio della “compatibilità”, non può essere automatica (v. in particolare sent. n. 18374/09), tenuto conto della “peculiarità ed atipicità” del procedimento in questione che, come evidenziato dalla stessa Corte Costituzionale (sent. n. 262/03), lo rendono non del tutto assimilabile a quello penale, ferma restante comunque la necessità di proteggere in ogni caso il fondamentale valore dell’imparzialità del giudice; ne consegue la non decisività dei richiami ai principi enunciati dalla giurisprudenza penale, che, ove ispirata alla salvaguardia di tali valori, possono rilevare, in materia disciplinare e comportare la nullità di atti, soltanto nei casi in cui sussista perfetta analogia tra le relative lesioni.

Ma siffatta condizione non può ritenersi verificata nel caso di specie, in cui il giudice, emettendo il decreto di fissazione del giudizio dibattimentale, non si è sostituito al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione disciplinare, essendo stata questa già in precedenza promossa dai titolari della stessa, Ministro della Giustizia e Procuratore Generale, con formulazione da parte di quest’ultimo dei capi di incolpazione; nè può ritenersi che la sezione disciplinare abbia compiuto un atto d’impulso processuale, in ordine al quale il requirente disponesse di margini di discrezionalità. La richiesta di proscioglimento anticipato, infatti, non era stata accolta e la tassatività della norma di riferimento, in precedenza riportata, imponente al P.G. di formulare gli addebiti (ovviamente, se non già formulati) e di chiedere la fissazione dell’udienza pubblica, non lasciava alcuna scelta, configurandosi quest’ultima richiesta come atto vincolato (dall’esito dell’udienza camerale) e di passaggio obbligato al successivo momento processuale, costituito dall’approfondimento degli addebiti in sede dibattimentale, senza alcuna possibililà, da parte dell’organo requirente di recedere dall’azione suddetta, resa irretrattabile dalla pronunzia del giudice, che aveva dissentito dalla richiesta assolutoria allo stato degli atti.

Vanno pertanto condivise, confermandosi un indirizzo espresso da una recentissima pronunzia di queste Sezioni Unite, in una vicenda disciplinare in cui si era posta una questione analoga alla presente (sent. 27.1.2010 n. 1628), la ragioni che hanno indotto la sezione disciplinare a ritenere la mera irregolarità non produttiva di nullità, in assenza di una norma che la sanzionasse e di alcuna violazione dei principi in materia di titolarità dell’azione disciplinare, esercizio della stessa ed impulso processuale, in un contesto nel quale neppure sussisteva la necessità di formulare i capi d’incolpazione, non era possibilità di eliminare o modificare alcuno degli stessi, non autorizzando il provvedimento reiettivo della richiesta di proscioglimento alcun distinguo al riguardo. Quanto alla ventilata ipotesi di una sceltala parte del già dissenziente P.G. di lasciar estinguere il procedimento per superamento dei termini, prospettando una patologica inerzia processuale, incompatibile con il dettato normativo e l’irretrattabilità dell’azione disciplinare sancita dall’esito della delibazione camerale, trattasi di obiezione palesemente priva di consistenza e fondamento normativo.

Deve infine escludersi che sia di alcun apporto alla tesi dei ricorrente il richiamo giurisprudenziale, relativo alla pronunzia di queste Sezioni Unite n. 17938/08, ad oggetto di un giudizio disciplinare a carico di un avvocato, che, a seguito della cassazione con rinvio da parte delle stesse sezioni, era stato riassunto “di ufficio” con decreto di fissazione dell’udienza emesso dal Consiglio Nazionale Forense, dando luogo a successivo annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, sul rilievo che detto Consiglio, in quanto “giudice terzo”, non avrebbe potuto sostituirsi, con iniziata ex officiosa una parte del processo, nella specie al P.G., unico titolare dell’azione disciplinare. Al riguardo è agevole osservare che il procedimento disciplinare de qua, soggetto in sede di impugnazione di legittimità alle regole di quello civile, non era stato riassunto, secondo il disposto di cui all’art. 392 c.p.c., e, pertanto, si era estinto ai sensi dell’art. 393 c.p.c., che espressamente prevede tale effetto nell’ipotesi in cui le parti non provvedano alta riassunzione del giudizio entro il termine di legge. Il principio applicato, dunque, atteneva alla mancata osservanza di una specifica regola, altrettanto precisamente sanzionata, regola, dettata dal codice di rito civile, applicabile in un nuova fase del processo, conseguente alla cassazione della precedente sentenza, nella quale l’effetto estintivo viene ricollegato all’inerzia dell’una e dell’altra parte (ancorchè nella specie una delle stessevi P.G…fosse pubblica) ed al principio dispositivo che regola il processo civile, nell’ambito del quale alle parti è consentita la facoltà di astenersi dagli ulteriori atti d’impulso processuale necessari alla prosecuzione del giudizio e di lasciarlo pertanto estinguere; analoga facoltà, invece, come si è già evidenziato, esaminando la sequenza procedimentale di cui all’art. 17, comma 8 D.Lgs. non può ritenersi spettante nell’abito dell’unitario e monofasico procedimento disciplinare, al P.G. nell’ipotesi in cui la competente sezione del C.S.M. abbia dissentito dalla sua richiesta di proscioglimento anticipato.

4) Con il quarto motivo di ricorso, violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), art. 178 c.p.p., lett. a), art. 179 c.p.p., con riferimento al combinato disposto del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 18, comma 4, e art. 34 c.p.p.”, si ribadisce la denuncia di incompatibilità dei componenti della sezione disciplinare “che avevano già giudicato in ordine alla medesima res iudicando ammettendo l’ordinanza, in precedenza menzionata, di farsi luogo al dibattimento disciplinare, così già pronunziandosi in ordine agli addebiti disciplinari e compromettendo i requisiti d’imparzialità ed assenza di prevenzione richiesti dai principi costituzionali, dalle convenzioni internazionali, dalla giurisprudenza costituzionale e da quella di legittimità in materia penale.con riferimento ai procedimenti analogamente caratterizzati da diverse fasi di cognizione, esigenti, a pena di nullità- che i giudici chiamati successivamente a decidere siano diversi da quelli che abbiano già conosciuto della vicenda. Si confuta, segnatamente, la natura “monobasica” del giudizio disciplinare, al riguardo affermata dalla sezione disciplinare, in contrario evidenziando la diversità di rito e la soluzione di continuità processuale, con il relativo intervallo degli atti preliminare al dibattimento, esistente tra l’udienza camerale, destinata all’esame della richiesta di proscioglimento proposta dal P.G., e quella successiva pubblica disposta nell’ipotesi di dissenso da parte della sezione; si richiama, in particolare, una pronunzia di queste Sezioni Unite (n. 5895/98), che avrebbe affermato, con riferimento a tali casi, la natura “bifasica” del procedimento disciplinare.

Neppure tale motivo supera le pertinenti argomentazioni, reiettive della corrispondente eceezione, esposte dalla sezione disciplinare del C.S.M..che risultano in linea con un indirizzo, da ritenersi ormai costante nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite che in questa sede si ribadisce, secondo cui il giudizio disciplinare a carico dei magistrati è caratterizzato da una struttura essenzialmente “monofasica”, in quanto affidato ad un unico organo, la sezione disciplinare del C.S.M., che ne conosce in tutto il relativo corso, sia pure attraverso graduali tappe conducenti alla decisione finale, in un contesto processuale complessivo nel quale l’esame delibativi, sia esso cautelare o preliminare, assolve ad una funzione preparatoria rispetto a quello conclusivo, che non compromette, tenuto conto della natura meramente interna di tali passaggi, le garanzie di difesa ed i principi di terzietà ed imparzialità del giudice, anche quando il medesimo sia stato chiamato, prima della decisione finale, ad un esame allo “stato degli atti” degli clementi acquisiti fino a quel momento. In tal senso queste Sezioni Unite si sono espresse, sia durante la vigenza dell’abrogata disciplina, sia con riferimento a quella attuale, nelle sentenze n. 5895/98, 28871/08 e 18374/09 (quest’ultima già in precedenza citata) pervenendo a soluzioni univoche, escludenti l’applicabilità al procedimento disciplinare a carico di magistrati dei motivi di incompatibilità previsti dall’art. 34 c.p.p. per quei componenti della sezione disciplinare del C.S.M. che siano chiamati a far parte del collegio giudicante in sede dibattimentale, dopo aver già esaminato in precedenza le risultanze d’indagine. Dalle suddette decisioni si ricava il principio, pienamente condiviso da questo collegio, a termini del quale, sulla premessa che l’applicabilità al procedimento disciplinare delle disposizioni previste dal codice di rito penale può avvenire solo in “quanto compatibili”, tale compatibilità non sussiste in siffatte ipotesi, per la peculiare configurazione monofasica del giudizio in questione, demandato ad un unico organo, sebbene la disamina, allo stesso affidata, delle risultanze accusatorie offerte dal P.G)..possa svolgersi in momenti successivi; quelli antecedenti, infatti, non implicando un compiuto appezzamento di merito, ma solo una valutazione provvisoria delle risultanze acquisite, suscettibili di integrazione ed approfondimenti nella successiva sede dibattimentale, non determinano quella prevenzione dei giudicante, che si verificherebbe nell’ipotesi in cui la res iudicanda fosse rimasta immutata. Trattasi, dunque, di un giudizio progressivo, che pur potendo arrestarsi al primo esame, nell’ipotesi in cui sia condivisa la richiesta di proscioglimento anticipato del P.G., non perde il carattere essenziale dell’unitarietà che lo connota anche nel caso in cui il collegio ritenga, come nella specie è avvenuto, di dover approfondire la vicenda disciplinare nelle forme del pubblico dibattimento in contraddittorio e con le connesse possibilità di integrazione delle indagini.

Giova, al riguardo, precisare che, contrariamente a quanto si sostiene nel mezzo d’impugnazione (con citazione, asseritamente testuale, che tuttavia non trova effettivo riscontro nella motivazione della sentenza citata), i suddetti caratteri, di unitarietà e monofasicità del giudizio disciplinare, tali da escludere l’incompatibilità dei componenti della competente sezione del CSM nei due successivi momenti in cui lo stesso poteva, anche nella disciplina previgente al D.Lgs. n. 109 del 2006, svilupparsi, risultano chiaramente affermati – e motivati nei sensi innanzi precisati – nella sentenza di queste Sezioni Unite n. 5895/98, con specifico riferimento all’ipotesi in cui il collegio abbia prima esaminato, in camera di consiglio, la richiesta di proscioglimento del P.G., disattendendola, e poi proceduto all’esame della stessa nel disposto dibattimento. Tale pronunzia, invero, non opera alcuna distinzione al riguardo, limitandosi a far salvo con proposizione evidentemente fraintesa dal ricorrente, “il caso in cui sia immediatamente evidente la necessità di prosciogliere l’incolpato con decreto e vi sia richiesta in tal senso da parte dell’accusa…” (distinzione poi ribadita nel successivo periodo, laddove viene fatta “salva la suddetta eccezione…”), ipotesi nella quale chiaramente, concludendosi il procedimento in sede di preliminare esame camerale, il problema della reiterazione dell’esame della vicenda disciplinare non si pone affatto.

Da quanto sopra esposto consegue l’insussistenza delle dedotte violazioni delle garanzie della difesa e dell’imparzialità del giudice, in riferimento ai citati principi costituzionali ed alla copiosa giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia, nelle quali le tematiche attenevano in massima parte, ad ipotesi di incompatibilità determinale dall’appartenenza del magistrato a diversi organi, chiamati a pronunziarsi sulla medesima fattispecie, in gradi diversi o fasi successive dello stesso grado del processo. Per quanto attiene, invece al procedimento disciplinare il problema dell’incompatibilità è stato affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 262 del 2003 in relazione alla diversa problematica, determinala dai casi di annullamento con rinvio della sentenza della Sezione Disciplinare del C.S.M., della composizione del nuovo collegio giudicante rispetto a quello del giudizio cassato, ma le ragioni d’illegittimità costituzionale ravvisate in quella pronunzia non sono di alcun apporto alla tesi sostenuta nel motivo di ricorso, essendo in quel caso evidenti l’identità della res iudicando e la palese condizione di prevenzione dei componenti del collegio, chiamati per la seconda volta ad esprimersi nel merito di vicende, già compiutamente esaminate nel primo giudizio. Il motivo va, conclusivamente, respinto.

V) Con il quinto motivo di ricorso si deduce “violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), art. 178, lett. a), art. 179 c.p.p., con riferimento al combinato disposto dell’art. 25 Cost, comma 1, secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge e art. 111 Cost., concernente l’applicazione dei principi del giusto processo..”, per l’avvenuta sostituzione del “componente titolare, relatore del procedimento, Cons. R.G., sebbene non fosse impedito” e per essere stata successivamente demandala la decisione ad un “collegio ad hoc” della Sezione disciplinare del C.S.M., appositamente costituito per il solo D.S., nonostante in quella udienza fosse stato poi presente anche il suddetto originario relatore. Si censurano, pertanto, le argomentazioni di rigetto della corrispondente eccezione (v. sub c) in narrativa) obiettandosi, in particolare, con richiamo anche a giurisprudenza di legittimità, che nella fattispecie non vi sarebbe stata una semplice inosservanza delle regole tabellari, ma addirittura, un abnorme stravolgimento delle stesse, comportante la nullità del giudizio, per violazione dei citati principi costituzionali. Il motivo è infondato.

Queste Sezioni Unite, con particolare riferimento alle irregolarità incorse nella sostituzione dei componenti della titolari della Sezione Disciplinare del C.S.M, ribadendo l’indirizzo già precedentemente segnato dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare da quella penale (cui si è uniformato la sentenza disciplinare impugnata, segnatamente richiamando Cass. 6A pen. n. 27856/05 e n. 33519/06), hanno affermato il principio a termini del quale l’inosservanza delle disposizioni di carattere amministrativo, relative all’individuazione dei componenti supplenti della sezione disciplinare non determina nullità del giudizio disciplinare nei confronti dei magistrati, ove non comporti anche la violazione dei criteri di composizione dettati dalla L. n. 195 del 1958, artt. 16 e 18″ (sent. 21.12.09 n. 26828), escludendo pertanto l’invalidità del giudizio, in un caso in cui era stata dedotta l’inosservanza, nell’individuazione di un consiglie supplente, dei criteri interni di distribuzione degli incarichi dettati dal decreto del presidente di quella sezione, con decreto del 2.8.06, in ottemperanza all’art. 3 bis comma 3 del regolamento interno del C.S.M.. Da tale principio, che ben si attaglia anche alla presente fattispecie, in cui non si configura alcuna delle eccezionali ipotesi, di violazione di criteri ordinamentali, legislativamente determinati, di cui all’ultima parte della riportata massima, il collegio non ritiene di doversi discostare, considerato che, al di fuori dei suesposti casi, le inosservanze delle regole “tabellari” incorse nella formazione dei collegi, integrano delle mere irregolarità non invalidanti, come chiaramente si desume dalle norme del codice di procedura penale, contenute nell’art. 177 (principio di tassatività delle nullità), art. 178 c.p.p., lett. a (prevedente, quale causa di nullità, la violazione delle disposizioni concernenti “le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici per costituire i collegi stabilite dalle leggi di ordinamento giudiziario”) e art. 33 c.p.p., comma 2 (escludente l’attinenza alla “capacità del giudice”, tra le altre, delle “disposizioni sulla formazione dei collegi”). Quanto alla tesi “estrema” dell’abnormità della violazione, per assoluto e radicale “stravolgimento” delle regole tabellari interne, essendosi creato un collegio ad hoc per giudicare il solo dott. D.S., cosi travalicandosi nella violazione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito, è sufficiente osservare come la stessa risulti contraddetta dalla stessa narrativa contenuta nel mezzo d’impugnazione, da cui si rileva che il giudizio de quo, chiamato per la prima volta all’udienza del 24.10.08, nella quale, per assenza sia del designato relatore, cons. R., sia del supplente tabellare, cons. C.P., il processo era stato affidato ad un terzo, cons. P. (cd “supplente del supplente”), venne tuttavia rinviato all’udienza del 16.1.09 (da cui pervenne a quella finale del 28.9.09), confermandosi quel relatore che era, concretamente, subentrato all’originario. Le ragioni di tale confermar nulla rilevando che in quell’udienza fosse, per altri processi ed in diversi collegi, presente finche l’originario relatore cons. R., ormai spogliatosi della causa a seguito della sostituzione, risultano evidenti nei già avvenuti incardinamento del giudizio ed affidamento dell’affare al supplente, divenutone pertanto titolare, nonchè nella necessità di non vanificare il presumibile studio degli atti conseguito a quella designazione:esigenze che comunque, a prescindere dall’idoneità o meno delle ragioni delle precedenti assenze, a termini delle norme regolamentari interne al CSM., a giustificare le sostituzioni (le cui inosservanze, come si è detto, di per sè non incidono sulla validità dei giudizi) chiaramente escludono ogni ipotesi di preordinata costituzione di un collegio speciale, creato per il solo odierno ricorrente e dunque, della dedotta violazione del principio di cui all’art. 25 Cost., comma 1.

6) Con il sesto motivo si deduce “violazione dell’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. c) ed e), art. 178 c.p.p., lett. a), art. 179 c.p.p., con riferimento al combinato disposto del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 19 e art. 525 c.p.p.”.per violazione della regola dell’immediatezza delle deliberazione, da assumersi subito dopo la chiusura del dibattimento, omessa pronuncia sul capo 1) dell’incolpazione, nonchè, in parte qua del capo 2), in ordine al quale doveva essere pronunziata sentenza di assoluzione”, con conseguente nullità assoluta della sentenza impugnata.

Le censure che traggono spunto dalla formulazione, nei termini letteralmente riportati in narrativa, del dispositivo della sentenza, per affermare che con lo stesso (nella parte in cui la parziale assoluzione dall’addebito sub 2) veniva disposta “nel limiti di cui in motivazione”) si sarebbe trasgredito al principio sopra indicato, per assumere una inammissibile riserva, poi sciolta con la successiva motivazione, sono infondate. Ritiene il collegio che dal contenuto del dispositivo, redatto e pubblicato dopo la deliberazione in camera di consiglio, conseguente alla discussione, risulti chiaro il tenore complessivo della decisione adottata dalla sezione disciplinare.

Il D.S. venne, anzitutto ed inequivocamente, assolto dal primo capo di addebito, nel quale gli era stato ascritto un comportamento essenzialmente doloso, consistito in una falsa attestazione, finalizzata a favorire il camorrista colpito dalla misura custodiale; la chiarezza di tale parte della decisione, così come indicata nel dispositivo, non autorizzava dubbi di sorta, sicchè la censura, come sopra formulata di “omessa pronuncia sul capo 1) dell’incolpazione si palesa del tutto priva di fondamento.

Ma anche con riferimento al secondo capo le doglianze non meritano accoglimento. Il nucleo centrale di tale addebito, come si rileva dalla letterale formulazione in narrativa esposta, era costituito dalla compiuta “scannerizzazione” di una memoria difensiva, operazione considerata sete censurabile non solo sotto il profilo della diligenza e del decoro professionale del magistrato estensore, oltre che lesiva della credibilità dell’ordine giudiziario nel suo complesso, ma anche perchè finalizzata, come contestato nel secondo periodo del capo d’incolpazione, a procurare “un indebito vantaggio all’indagato”. Ma, una volta escluso, con la pronunziata assoluzione dal capo 1), che il D.S. avesse agito all’espresso fine di favorire il camorrista, necessariamente e conseguentemente cadevano i connessi profili dolosi ascritti nel capo 2), rimanendo soltanto ferma quella parte dello stesso con la quale l’incolpato era stato censurato per la poco dignitosa operazione informatica di “copia e incolla”, cui era ricorso per motivare il provvedimento de libertate: risultando dunque palese, sia pure “per differenza”, l’oggetto della dichiarazione di colpevolezza pronunziata con il dispositivo, nell’immediatezza della deliberazione seguita alla discussione, il rinvio alla successiva motivazione, con la quale sarebbero state rese note le ragioni della differenziata, ma comprensibile, decisione, non poteva dunque equivalere ad un’ indebita riserva anche sul contenuto e sui limiti della stessa.

7) Con il settimo motivo si deduce “violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione al D.Lgs. 20 febbraio 2006, n. 109, art. 20, comma 2 e art. 2, comma 1, lett. d) – violazione del giudicato, per avere la sentenza disciplinare contraddetto all’accertamento del giudice penale con riferimento alla affermazione (erronea) che il PM. non è comparso all’udienza dell”8.6.2005, contenuta nell’ordinanza depositata dal dr. D.S. in data 12.8.2005 – violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza – insussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare”. Si lamenta con tale mezzo d’impugnazione che la sezione disciplinare non abbia tenuto conto dell’accertamento, contenuto nel decreto di archiviazione del procedimento penale a carico del D.S., secondo cui l’aver dato il P.M. assente nell’udienza del riesame non era dovuto ad una volontaria falsa attestazione dell’estensore, ma soltanto ad una svista informatica, incorsa nell’utilizzazione di uno schema di provvedimento, nel quale tale presenza non figurava, in conformità a quanto, di fatto, si verificava nella maggior parte dei casi; l’aver invece affermato i giudici disciplinari che, con tale attestazione, l’incolpato avesse perseguito la malcelata intenzione di non tener conto delle richieste ed argomentazioni del P.M., in realtà comparso al fine di procurare un vantaggio all’indagatoci sarebbe risolto, dunque, oltre che nella violazione del giudicatocene nell’introduzione di un nuovo addebito, non contenuto nei capi contestati. Neppure tale motivo merita accoglimento.

La sezione disciplinare, nel censurare il comportamento del D.S., con particolare riferimento all’indicazione nell’ordinanza da lui motivata dell’assenza del P.M. non ha inteso trasformare in intenzionale una condotta che, già nel capo d’incolpazione, era stata contestata quale colposa, ma ha solo voluto evidenziare come siffatto infortunio, incorso nell’adattamento del modulo informatico predisposto dal magistrato, fosse sintomatico, sul piano psicologico, della complessiva grave negligenza con la quale il suddetto aveva assolto il suo compito di relatore, giudicante ed estensore, denotando anche quella svista la nulla o scarsa considerazione del ruolo svolto nell’udienza dal P.M., le cui richieste ed argomentazioni accusatorie, nell’ambito di una frettolosa redazione del provvedimento, erano state del tutto obliterate, a vantaggio delle posizioni della difesa, recepite testualmente ed, addirittura, graficamente trasfuse nella motivazione dell’ordinanza.

La sezione disciplinare, dunque, non ha violato il principi di correlazione tra i fatti contestati ed il decisum, poichè ha lasciato immutata la configurazione colposa di tale profilo dell’incolpazione, in ordine alla cui qualificazione, peraltro, non era vincolala dal decreto di archiviazione, che si era limitato sul punto ad escludere l’intenzionalità dell’apparente “falso” e che, peraltro, contrariamente a quanto sostenuto nel motivo di ricorso, non era a tali effetti equiparabile ad una sentenza passata in giudicato, essendo un effetto del genere attribuibile, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, commi 2 e 3, soltanto alle sentenze irrevocabili, di condanna o di patteggiamento, oppure a quelle di assoluzione, per insussistenza del fatto o perchè l’imputato non lo ha commesso.

L’inidoneità del decreto di archiviazione a spiegare, sull’accertamento dei fatti e sulla relativa qualificazione, effetti di cosa giudicatagli considerazione della natura revocabile del provvedimento, è stata del resto sempre pacifica nella giurisprudenza penale di legittimità (al riguardo v. Cass. 6A pen n. 3896/95), mentre l’equiparazione, agli effetti del procedimento disciplinare, con riferimento alla previgente normativa ordinamenlale, è stata sì affermata dalla giurisprudenza di queste Sezioni Unite, ma non ai suddetti fini, bensì in una prospettiva del tutto diversa, soltanto a quelli della determinazione dei termini decadenziali dell’azione per i fatti oggetto di un procedimento penale esaurito o ancora pendente, vale a dire dell’applicazione del D.P.R. n. 916 del 1958, art. 59 anzichè del R.D. n. 511 del 1946, art. 29 (v. S.U. 16620/07.3612/07.17/07, 15287/06 10384/03, 7406/97).

Da quanto sopra consegue l’irrilevanza di tutte le residue doglianze ed argomentazioni contenute nel mezzo d’impugnazione che, laddove sono dirette a sostenere la tesi della non intenzionalità dell’errore, risultano superflue, e per il resto si risolvono in censure di merito avverso un accertamento di fatto, quello della natura colposa dell’errore suddetto, in quanto frutto di negligenza e superficialità, adeguatamente motivato e, pertanto, insindacabile nella presente sede.

8) Con l’ottavo motivo il ricorrente deduce “violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 20, comma 2 e art. 2, comma 1, lett. d) – violazione del giudicato – motivazione apodittica, insufficiente ed illogica – Travisamento del fatto che emerge dal testo stesso della sentenza impugnata – violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza”.

Si lamenta che la sentenza impugnata, nell’addebitare al D.S. l’omesso vaglio critico delle questioni di diritto che il P.M. aveva esposto all’udienza dell’8.6.05 con una memoria, non presente agli atti, abbia effettuato una valutazione “al buio”, senza procedere al diretto esamcritenendone addirittura superflua la relativa acquisizione, sia di quella memoria, che avrebbe dimostrato che le relative questioni non erano state ivi svolte, sia della stessa ordinanza “incriminata” redatta dall’incolpato (in realtà presente in atti), oltre che della sentenza della Corte di Cassazione che l’aveva annullata; sarebbero stati così disatteso l’accertamento contenuto nel giudicato penale, costituito dall’ordinanza del Tribunale del Riesame di Roma dell’8.11.06, che aveva annullato quella in data 25.6.06 del G.I.P, di applicazione della misura interdittiva, e violato il principio di correlazione tra contestazione e decisione, mediante l’introduzione di un nuovo addebito. Si contesta, inoltre, di essere incordo nei “macroscopici” errori di diritto, tra cui in particolare quello relativo all’interpretezione dell’art. 335 c.p.p e della relativa possibilità di “retrodatazione” da parte del giudice della data di iscrizione delle notizie di reato, questione controversa in giurisprudenza, in riferimento alla quale all’incolpato sarebbe stato sostanzialmente ascritto un ulteriore addebito, non previsto tra quelli articolati e in palese violazione della norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2, nella parte in cui non consente che l’interpretazione delle norme di diritto possa dar luogo a responsabilità disciplinare. Anche tale motivo va respinto.

L’addebito essenzialmente ascritto all’odierno ricorrente che i giudici disciplinari hanno ritenuto fondato, è consistito, come si è già visto, nell’aver passivamente recepito, trasfondendole addirittura graficamente nella motivazione del provvedimento, le principali argomentazioni esposte dalla difesa nella sua memoria difensiva, sulla base di un accertamento di merito la cui adeguatezza ed incensurabilità nella presente sede avrà modo di evidenziare esaminando il successivo motivo, e di aver, nel contempo, praticamente ignorato le posizioni dell’accusa, data addirittura per assente nell’ordinanza.

Tale inesattezza, sia pur involontaria, ma tuttavia colpevole in quanto indice di approssimazione ed aprioristica ed irriguardosa sottovalutazione del ruolo del P.M., aveva dato luogo alla redazione di un provvedimento, che, pur non essendo stato in sè censurato (come non avrebbe potuto esserlo ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 2) dalla sezione disciplinare nel suo intrinseco contenuto decisorio, lo è stato tuttavia sul piano formale, risultando lo stesso, nelle motivazioni che lo sorreggevano, palesemente sbilanciato per effetto dell’esclusiva considerazione e testuale riproduzione delle tesi difensive, senza tenere in alcun conto quelle del P.M., la cui menzione, come pur accertato, mancava del tutto, pur essendo stato il requirente presente in udienza, producendo documenti ed una memoria. Ciò posto, non era tanto rilevante accertare quali fossero in concreto le argomentazioni, di fatto e giuridiche, esposte in quella memoria, essendo comunque certo che della stessa, di cui il ricorrente non contesta l’avvenuto deposito, bensì il contenuto, quale che ne fosse quest’ultimo, nessun cenno, neppure narrativo, è stato riscontrato da parte dei giudici disciplinari (sia pur sulla base di accertamento indiretto, ammissibile come si vedrà di seguito). Questi ultimi hanno pertanto correttamente censurato al riguardo il comportamento dell’estensore che, inquadrato nel particolare contesto della vicenda, non è stato preso in considerazione per i suo intrinseco contenuto valutativo del materiale probatorio e per le conclusioni trattene sul piano decisionale, bensì per le modalità con le quali le posizioni delle parti contrapposte sono state prese in considerazione, recependo letteralmente dunque quella della difesa, e praticamente ignorando l’altra quella dell’accusa che, quand’anche infondate (sicchè poco o punto rilevava acquisire copie della memoria del P.M. del successivo ricorso per cassazione e della sentenza di accoglimento).avrebbero comunque dovuto essere oggetto, quanto meno, di menzione; non rientrava, infatti, tra i compiti del giudice disciplinare quello di procedere ad una nuova valutazione dei termini della vicenda decisa dal Tribunale del Riesame di Napoli e dei suoi successivi sviluppi a seguito dell’impugnazione quanto invece verificare le modalità, rilevanti sotto il profilo deontologico, con le quali il D.S. aveva svolto il suo compito nell’ambito della stessa. Quanto alle ulteriori considerazioni esposte nella sentenza impugnata, in ordine ai ravvisati “macroscopici errori di diritto” (segnatamente con riferimento alla questione della c.d. “retrodatazione” dell’iscrizione della notitia crimis), ritiene il collegio che trattasi di argomentazioni aggiuntive che non hanno dato luogo a nuovi addebiti e che, seppur esposte a fini rafforzativi (se non di obiter dicta) del nucleo essenziale della motivazione, costituito dall’accertata copiatura della memoria difensiva (da cui tali errori sarebbero stati mutuati), non risultano funzionali alla decisione adottata, neppure agli effetti del trattamento sanzionatorio. A sorreggere l’affermazione di parziale colpevolezza sono, infatti, sufficienti le rimanenti e principali, già menzionate, ragioni esposte (vale a dire l’accertamento che l’incolpato era ricorso alla tecnica della “scannerizzazione” dello scritto defensiodifensionale ed aveva di fatto ignorato le deduzioni e produzioni ulteriori del P.M. così fornendo l’immagine di un giudice non equidistante dalle parti) mentre ai fini della scelta della sanzione, oltre all’apprezzamento del particolare disvalore deontologico della suddetta operazione riproduttiva, risoltasi nell’acritica ricezione delle sole ragioni della difesa (a prescindere dalla fondatezza giuridica o meno delle stesse) e dei conseguenti negativi riflessi sul prestigio e sull’affidabilità dell’ordine giudiziario, un ruolo rilevante ha spiegato la valutazione dei precedenti disciplinari: ne consegue l’infondatezza dei profili di censura, con i quali si lamenta che all’incolpato sarebbe indebitamente ascritto, eccedendo anche i limiti della contestazione di cui al rinvio a giudizio, un ulteriore illecito disciplinare, per la non condivisa interpretazione di norme di diritto.

Per quanto attiene, infine, alla “violazione del giudicato”, è sufficiente rinviare a quanto già esposto nell’esame del precedente motivo, ribadendosi il richiamo alla tassativa previsione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, commi 2 e 3, che non menziona tra i provvedimenti dei giudici penali, spieganti efficacia di cosa giudicata in sede disciplinare, quelli emessi in materia cautelare e sulle relative impugnazioni.

9) Con il nono motivo, si deducono, con richiamo all’art. 606 c.p.c., comma 1, lett. c) ed e) in rel. al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20, art. 2, comma 1, lett. d), “violazione del giudicato – motivazione apodittica, insufficiente ed illogica – travisamento del fatto che emerge dal testo stesso della sentenza impugnata – violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza – violazione del principio di collegialità della decisione – violazione dell’art. 25 Cost., comma 2”.

Il ricorrente si duole, anzitutto, della circostanza, emergente dalla motivazione della sentenza impugnata, che l’accertamento dell’identità delle argomentazioni contenute nell’ordinanza “incriminata” con quelle esposte nella memoria del difensore sia stato compiuto senza un effettivo e diretto raffronto testuale, compiuto dalla sezione disciplinarcene ritenendo superflua l’acquisizione dei due atti, senza peraltro avvedersi che il primo era presente nell’incarto processuale, avrebbe basato l’affermazione di tale identità in realtà non sussistente, non ammessa, ma confutata dall’incolpato nel corso del suo interrogatorio, non sugli atti del processo, ma su mera “inventiva processuale”. La censura non è fondata, poichè la sezione disciplinare, pur non esaminando e comparando direttamente tali atti, nell’affermare la sostanziale identità nelle parli salienti delle rispettive argomentazioni non si è affidata a mere congetture o ipotesi, ma ha basato il relativo accertamento sulle copie di due provvedimenti (le ordinanze emesse dal G.I.P. del Tribunale di Roma del 15.4. e del 25.9.2006), che avevano trascritto vari passi sia dell’ordinanza redatta dall’incolpato, sia della memoria difensiva, i documenti le cui copie erano presenti in atti e che, peraltro, erano ben noti all’odierno ricorrente, essendo stati emessi all’esito di procedimenti svoltisi in contraddittorio con lo stesso e con le previste garanzie difensive. Il suddetto richiamo deve ritenersi ammissibile alla stregua del costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, (v. tra le tante e più recenti, in civile, n. 2749/09 – 979/09, 13937/02, in penale 46056/08.42688/08, 30412/08, 9153/08, 4181/08, 1533/O8).a termini del quale il rinvio per relationem ad altri provvedimenti, sia amministrativi, sia giurisdizionale assolve all’obbligo della motivazione tutte le volte in cui la fonte richiamata sia ben identificabile ed accessibile alle parti interessate, segnatamente nei casi in cui sia rinvenibile in atti cui le stesse abbiano partecipato o dei quali siano venute a formale conoscenza nelle relative sedi.

Nel caso di specie, dal contenuto degli utilizzati provvedimenti del G.I.P di Roma, in entrambi i quali erano stati riportati “parecchi passaggi” dell’ordinanza redatta dal dottor D.S. e della memoria del difensore dei presunto camorrista, ponendoli a confronto ed evidenziandone l’identità “salvo modestissime rielaborazioni terminologiche” i giudici disciplinari hanno tratto, con apprezzamento di merito adeguatamente motivato, indipendentemente dall’ammissione o meno da parte del dott. D.S. (sicchè irrilevante risulta il profilo di censura deducente contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui avrebbe dato per resa una confessione, per poi confutare le dichiarazioni difensive al riguardo rese dal magistrato).sulla scorta di elementi documentali validamente acquisiti al processo la prova degli elementi di fatto integranti l’oggettività dell’illecito. Tale specifico accertamento documentale, ancorchè indiretto, risulta tuttavia esente da vizi logici ed inammissibilmente si tenta di porlo in discussione nella presente sede, limitandosi ad indicare alcuni punti dell’ordinanza redatta dal dr. D.S., nei quali l’estensore avrebbe citato le fonti degli innesti testuali (la difesa o le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia).omettendo tuttavia di riportare estensivamente i relativi passi e di precisare se gli stessi esaurissero quelli riproducenti, mediante la “scannerizzazione”, i corrispondenti passaggi della memoria del difensore, con conseguente palese difetto di autosufficienza e specificità della censura.

Per quanto attiene ai profili di censura deducenti la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, per aver affermato che il D.S. avrebbe, mediante la testuale riproduzione delle argomentazioni difensive e l’obliterazione di quelle del P.M., scientemente procurato un indebito vantaggio all’indagato, così introducendo un nuovo addebito o, comunque esprimendo un giudizio di colpevolezza in contraddizione con quello assolutorio emesso in ordine al primo capo di incolpazione, è sufficiente, per disattenderli erichiamare le considerazioni svolte in precedenza, laddove, esaminando il quinto ed il sesto motivo, si è avuto già modo di evidenziare come il magistrato sia stato incquivocamente assolto non solo dall’addebito di falso contenuto nel primo capo d’incolpazione, ipotizzante un preciso intento di favorire l’indagato, ma anche da quelli di natura dolosa figuranti nel secondo capo, precisandosi come l’effetto delle residue condotte censurate (la scannerizzazione e l’aver erroneamente dato per assente il P.M.)-di aver procurato un indebito vantaggio al presunto camorrista, fossero stati al medesimo ascritti solo a titolo di colpa, sia pur grave.

Quanto al profilo di censura deducente la violazione del giudicato si rinvia alle considerazioni svolte nell’esame di quello analogo contenuto nei due precedenti motivi. Il ricorrente lamenta, ancora, di essere stato egli solo colpevolizzato per una decisione collegiale; il profilo di censura è manifestamente infondato considerato che l’addebito di cui è stata ritenuta la fondatezza non attiene, come già si è avuto modo di evidenziare, alla decisione in sè considerata ed alla sua intrinseca legittimità o meno, quanto invece alle modalità di redazione del provvedimento, vale a dire al compimento di un atto rientrarne tra i compiti specificamente demandati al magistrato relatore ed estensore. Altrettanto infondato è, infine, il profilo di censura con cui, richiamandosi la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, sancita dall’art. 27 Cost., comma 2 si lamenta che i giudici disciplinari avrebbero ascritto a dott. D.S., nella motivazione della sentenza impugnata, un censurabile “pregiudizio innocentista”, così ponendosi in contrasto con il suddetto principio, cui egli si sarebbe conformato. Ma è agevole in contrario, osservare come suddetta presunzione di innocenza, di contenuto essenzialmente processuale, non possa autorizzare il giudice a venir meno ai, doveri, pur derivanti da principi costituzionali (quelli sul giusto processo di cui all’art. 111 Cost.) di imparzialità ed equidistanza tra le parti, ivi compresa quella pubblicatile nel processo penale e costituita dal P.M. manifestando un’aprioristica propensione alle tesi difensive e valorizzando esclusivamente o prevalentemente le stesse a discapito di quelle accusatorie, fino recepirle passivamente nella motivazione della decisione; in tal senso va pertanto e nel particolare contesto della decisione impugnata, intesa e giustificata l’affermazione contenuta nella motivazione, di cui si è doluto il ricorrente.

10) Con il decimo motivo vengono, infine, dedotte, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e) in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 19 e all’art. 192 c.p.p. “motivazione perplessa, per la contemporanea esclusione ed affermazione della pretesa responsabilità disciplinare dell’incolpato in relazione ai medesimi fatti. Violazione dei criteri di valutazione della prova. Manifesta contraddittorietà.

Si sostiene che la sezione disciplinare, dopo aver assolto l’incolpato dagli addebiti contestati al capo 1) e da parte di quelli contenuti nel capo 2), successivamente pronunziando sulla residua parte di quest’ultimo ed attribuendogli nella relativa motivazione l’intento di favorire il camorrista lo avrebbe sostanzialmente e contraddittoriamente considerato colpevole anche delle accuse – in precedenza dichiarate infondate:ed a tal riguardo non avrebbe tenuto in alcuna considerazione le specifiche difese dell’incolpato, segnatamente una memoria difensiva, nella quale, confutando analiticamente le tesi del denunciante P.M A., si sarebbe dimostrata la documentale infondatezza di queste, con particolare riferimento alla presenza in atti della copia integrale stenotipica del verbale delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia.

Anche tale motivo deve essere respinto, alla luce delle considerazioni che sono state in precedenza svolte, evidenziando il complessivo ed inequivoco tenore della decisione adottala dai giudici disciplinari, chiaramente espressa nella motivazione che la sorregge, con la quale è stato escluso qualsiasi profilo doloso e collusivo nella condotta temila dal magistrato nella vicenda processuale da cui scaturì l’incolpazione, evidenziandosi come quell'”indebito vantaggio” procurato all’indagato costituisse una conseguenza della negligenza, mancanza di equilibrio e superficialità, vale a dire di un comportamento esclusivamente colposo, con il quale il suddetto aveva assolto il proprio compito di relatore ed estensore del provvedimento, nella cui motivazione si era limitato a far proprie, riproducendole anche graficamente, le tesi difensive.senza compararle con quelle dell’accusa come se quest’ultima fosse stata assente nel processo nè esprimere le ragioni della scelta operata. Tali essendo le linee essenziali della decisione impugnata e delle ragioni sulla quale essa si fonda, non è dato intravedere quell’insanabile ed irresolubile contrasto tra le argomentazioni che la sorreggono, tale da non consentire l’individuazione della effettiva ratio decidendi e configurare quel radicale ed assoluto vizio, la perplessità, parificabile all’inesistenza della motivazione. Consegue, da quanto precede l’inammissibilità, per difetto di interesse e rilevanza ai fini della decisione, dei successivi profili di censura in quanto attinenti ad un addebito, quello di aver falsamente attestato l’inesistenza agli atti del più volte menzionato atto da cui il ricorrente è stato assolto. Il ricorso va conclusivamente, respinto.

Non vi è luogo, infine, a regolamento delle spese, in assenza di resistenza del Ministero della Giustizia.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2010

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