Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16270 del 03/08/2016


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Cassazione civile sez. VI, 03/08/2016, (ud. 11/03/2016, dep. 03/08/2016), n.16270

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

M.F., in proprio e nella qualità di socio della M.

& MA. S.A.S. DI M.F. & C., elettivamente

domiciliato in Roma, alla F. Grossi Gondi n. 62, presso l’avv. CARLO

SEBASTIANO FOTI, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di

procura speciale per notaio Arturo Dalla Tana dell’11 giugno 2015,

rep. N. 116870;

– ricorrenti –

contro

FALLIMENTO DELLA M. & M. S.A.S. DI M.F.

& C., in persona del curatore p.t. R.B., elettivamente

domiciliato in Roma, alla via degli Scialoja n. 6, presso l’avv.

LUIGI OTTAVI, unitamente all’avv. MASSIMO COLIVA del foro di

Bologna, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e

C.F.;

– intimato –

avverso l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21940/14, pubblicata

il 16 ottobre 2014;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11 marzo 2016 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

udito l’avv. Foti per i ricorrenti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

E’ stata depositata in Cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c.:

“1. – Con sentenza del 7 gennaio 2013, la Corte d’Appello di Bologna rigettò il gravame proposto da M.F., in proprio e nella qualità di socio della M. & Ma. S.a.s. di M.F. & C., avverso la sentenza emessa il 27 luglio 2010, con cui il Tribunale di Parma aveva dichiarato inammissibile l’opposizione alla dichiarazione di fallimento della società e dell’appellante, pronunciata dal medesimo Tribunale con sentenza del 24 luglio 2006.

2. – Il ricorso per cassazione proposto dal M. è stato rigettato da questa Corte con l’ordinanza di cui in epigrafe, avverso la quale il ricorrente ha proposto ricorso per revocazione, affidato ad un solo motivo, al quale il curatore del fallimento ha resistito con controricorso.

3. – A sostegno dell’impugnazione, il ricorrente ha dedotto che, nel confermare l’inammissibilità dell’opposizione, in quanto avente ad oggetto una sentenza dichiarativa di fallimento depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e quindi impugnabile con l’appello, ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 18, come modificato dall’art. 16 D.Lgs. n. 5 cit., questa Corte è incorsa in un errore di fatto, non essendosi avveduta che la sentenza recava la data del 12 luglio 2006, alla quale era stata aggiunta quella del 24 giugno 2006, con la conseguenza che doveva ritenersi emessa anteriormente all’entrata in vigore della norma richiamata.

Aggiunge che la dichiarazione d’inammissibilità dell’opposizione, determinata da contrastanti orientamenti giurisprudenziali, gli ha impedito di ottenere una decisione sul merito delle contestazioni sollevate in ordine alla dichiarazione di fallimento, con conseguente violazione degli artt. 6, 8 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale, nonchè degli artt. 20, 21 e 47 della Carta di Nizza, recepita dall’art. 6, par. 1, del Trattato UE, avuto riguardo anche all’esclusione della deducibilità del vizio di omessa insufficiente o contraddittoria motivazione, per effetto dell’intervenuta modificazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4. – Il ricorso è infondato.

La data di emissione della sentenza dichiarativa di fallimento, individuata dall’ordinanza impugnata ai fini della determinazione della disciplina applicabile alla relativa impugnazione, non può essere in alcun modo considerata frutto di una falsa percezione della realtà di fatto emergente dagli atti processuali, tale da giustificare la revocazione del provvedimento di rigetto del ricorso per cassazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 391-bis c.p.c., comma 1 e art. 395 c.p.c., n. 4, costituendo invece puntuale applicazione di un principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità. Come si evince dalla sentenza di primo grado, la data del 12 luglio 2006, alla quale la difesa del ricorrente vuol far risalire la dichiarazione di fallimento, è quella in cui la decisione fu deliberata in camera di consiglio, mentre quella del 24 luglio 2006, alla quale ha fatto riferimento l’ordinanza impugnata, è la data in cui la medesima sentenza fu depositata in cancelleria: l’affermazione secondo cui, in quanto pronunciata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006, la dichiarazione di fallimento avrebbe dovuto essere impugnata con l’appello dinanzi alla corte d’appello, anzichè con l’opposizione dinanzi al tribunale, trova pertanto giustificazione nell’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui, fatta eccezione per i casi in cui è prevista la lettura del dispositivo in udienza, l’esistenza della sentenza civile è determinata dalla pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunziata, senza che assuma alcun rilievo a tal fine la data della deliberazione, che ha un valore puramente interno (cfr. Cass., Sez. 1, 10 dicembre 2014, n. 26066; 9 maggio 2000, n. 5855; Cass., Sez. 2, 22 novembre 2004, n. 22035). Tale principio è stato ritenuto infatti applicabile anche alla sentenza dichiarativa di fallimento, essendo stato ripetutamente affermato che gli effetti della stessa si producono non già dalla data di deliberazione della decisione in camera di consiglio, che rappresenta soltanto una fase del procedimento di formazione della sentenza, ma da quella del deposito in cancelleria, che attribuisce alla statuizione del giudice il carattere della pubblicità (cfr. Cass., Sez. 1, 20 ottobre 2015, n. 21273; 22 novembre 2013, n. 26215; 11 marzo 1994, n. 2382).

5. – Non possono pertanto trovare ingresso le censure mosse dal ricorrente alla dichiarazione di fallimento, il cui esame deve ritenersi definitivamente precluso dal giudicato formatosi a seguito della dichiarazione d’inammissibilità dell’opposizione, senza che ciò si traduca in una lesione del diritto di difesa costituzionalmente garantito o, come sostiene il ricorrente, del diritto di accesso al tribunale tutelato dagli artt. 6 e 13 della CEDU. Premesso infatti che il diritto di accesso ad un giudice non è assoluto, ma può essere sottoposto a legittime restrizioni, dal momento che la sua stessa natura richiede una regolamentazione da parte dello Stato, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che nella conformazione di tale disciplina gli Stati dispongono di un certo margine di valutazione, i cui confini sono segnati dall’esigenza che le limitazioni apportate non restringano l’accesso offerto all’individuo in modo o fino a un punto tale da pregiudicare in maniera sostanziale il diritto stesso, con l’ulteriore precisazione che tali limitazioni sono conciliabili con l’art. 6 par. 1 della CEDU, a condizione che perseguano uno scopo legittimo e sussista un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (cfr. Corte EDU, sent. 3 dicembre 2009, Kart; 14 dicembre 2006, Markovic; 18 febbraio 1999, Waite e Kennedy). Nel caso in esame, deve d’altronde escludersi la stessa configurabilità di una restrizione del diritto di accesso, dal momento che il D.Lgs. n. 5 del 2006, nel riformare la disciplina delle procedure concorsuali, non ha introdotto alcuna limitazione alla facoltà d’impugnare la sentenza dichiarativa di fallimento, ma ha soltanto sostituito il rimedio dell’opposizione da proporsi dinanzi al medesimo giudice che l’ha pronunciata con quello dell’appello al giudice di secondo grado (art. 18 L. Fall., come sostituito dal D.Lgs. n. 5, art. 16 cit.), la cui applicabilità anche alle sentenze relative a ricorsi proposti anteriormente all’entrata in vigore della riforma, ma pronunciate in data successiva, costituisce un ragionevole effetto della disciplina transitoria dettata dal cit. D.Lgs., art. 150, che non incide sul contenuto del diritto di difesa del fallito, ma solo sulle modalità del suo esercizio. Le incertezze manifestate dalla giurisprudenza di merito in ordine all’interpretazione della predetta disposizione, prima che la questione fosse sottoposta al Giudice di legittimità, non risultavano poi sufficienti ad ingenerare nelle parti un legittimo affidamento in ordine alla perdurante applicabilità della disciplina previgente, la cui lesione possa giustificare dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., essendosi questa Corte pronunciata fin dall’inizio in favore della soluzione adottata nell’ordinanza impugnata (cfr. Cass., Sez. 1, 25 settembre 2014, n. 20289; 28 ottobre 2010, n. 22111; 24 settembre 2009, n. 20551; 20 marzo 2008, n. 7471). In definitiva, la scelta dell’opposizione, anzichè dell’appello, ai fini dell’impugnazione della sentenza di fallimento è riconducibile ad una valutazione di ordine squisitamente tecnico, rivelatasi poi errata, che, pur avendo impedito l’esame nel merito delle contestazioni sollevate dal ricorrente, non implica alcuna lesione del diritto di difesa, la cui garanzia costituzionale non esclude la legittimità di preclusioni o decadenze processuali, non comportando la necessità che ogni giudizio si concluda con una decisione di merito (cfr. Corte Cost., seni. n. 221 del 2008)”.

Il collegio, esaminato il ricorso, la relazione e gli scritti difensivi in atti, rileva innanzitutto che la relazione contiene, a pag. 2, rigo 11, un errore materiale, indicando, quale data asseritamente aggiunta alla sentenza di fallimento, quella del “24 giugno 2006”, anzichè quella del 24 luglio 2006, riportata nel motivo d’impugnazione, e corrispondente alla data di deposito della sentenza.

Corretta in tal senso la relazione, il collegio ritiene condivisibile l’opinione espressa dal relatore e la soluzione da lui proposta, non risultando meritevoli di accoglimento le contrarie argomentazioni svolte nella memoria depositata dai ricorrenti, i quali si limitano ad insistere nella propria tesi difensiva, senza addurre ragioni idonee a giustificare una rimeditazione delle predette conclusioni.

Non appare pertinente, in particolare, la rievocazione del contrasto giurisprudenziale insorto tra le Sezioni di questa Corte in ordine all’individuazione della data di decorrenza del termine per la proposizione dell’impugnazione, nel caso in cui la pubblicazione della sentenza non abbia avuto luogo contestualmente al suo deposito in cancelleria, ed il conseguente richiamo dei ricorrenti ai principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza del 1 agosto 2012, n. 13794 e dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 3 del 2015: non risulta infatti dimostrato che la sentenza dichiarativa di fallimento sia stata depositata in Cancelleria anteriormente alla pubblicazione, effettuata il 24 luglio 2006, non essendo stata prodotta la relativa copia, ma soltanto un estratto, nel quale sono riportate due date, corrispondenti rispettivamente alla deliberazione in camera di consiglio ed al deposito in Cancelleria. Soltanto nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., d’altronde, i ricorrenti hanno affermato che la prima data coincide con quella del deposito in Cancelleria, evidenziando che la stessa è seguita non solo dalla sottoscrizione del Presidente e dell’estensore, ma anche da quella del cancelliere: tale osservazione, tuttavia, oltre a risultare inammissibile, in quanto volta ad introdurre una questione diversa da quella proposta nel ricorso, è rimasta assolutamente indimostrata, per effetto della mancata produzione della copia integrale della sentenza di fallimento.

Va dunque confermata l’applicabilità del consolidato orientamento giurisprudenziale, già richiamato nella relazione, che individua nella data del deposito in Cancelleria, anzichè in quella della deliberazione in camera di consiglio, il momento in cui la sentenza viene ad esistenza, ed al quale occorreva pertanto fare riferimento, nella specie, ai fini dell’individuazione del mezzo d’impugnazione esperibile avverso la dichiarazione di fallimento.

Il ricorso va conseguentemente rigettato, con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che si liquidano come dal dispositivo. Nei rapporti con il C., non occorre invece provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, e condanna M.F. e la M. & M. S.a.s. di M.F. & C. al pagamento delle spese processuali in favore del Fallimento della M. & Ma.i S.a.s. di M.F. & C., che si liquidano in complessivi Euro 2.600,00, ivi compresi Euro 2.500,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 11 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2016

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