Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16256 del 26/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 26/07/2011, (ud. 22/06/2011, dep. 26/07/2011), n.16256

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

LA RESTRUCTURA S.C.A R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTEZEBIO 32, presso

lo studio degli avvocati TAMBURRO LUCIANO e PICCININNO SILVANO, che

lo rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIULIO

ROMANO 5, presso lo studio dell’avvocato PRUNAS FRANCESCO,

rappresentato e difeso dall’avvocato MONTERA AMERICO, ANDREA

CRISCUOLO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 183/2009 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 23/04/2009, r.g.n. 60/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2011 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato PICCININNO SILVANO;

udito l’Avvocato FRANCESCO PRUNAS per delega AMERICO MONTERA e ANDREA

CRISCUOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo

del ricorso, assorbiti gli altri.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 ottobre 2006 il Tribunale di Sala Consilina, giudice del lavoro, accogliendo parzialmente la domanda proposta da M.M. nei confronti de La Restructura Società Cooperativa r.l., dichiarava che fra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato, dal 13 giugno 2001 al 4 marzo 2002, e che il licenziamento intimato in tale data dalla datrice di lavoro era illegittimo, in quanto privo di giustificazione, accertando, inoltre, il credito del dipendente per differenze retributive;

condannava, pertanto, la società al pagamento degli importi retributivi relativi a queste ultime, respingendo però la domanda relativa al risarcimento del danno, in mancanza di esplicita richiesta di una pronuncia costitutiva e non essendovi prova del danno dedotto.

2. Tale decisione veniva riformata dalla Corte d’appello di Salerno, che, con la sentenza qui impugnata, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal lavoratore, condannava la società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni pari alle mensilità di retribuzione maturate dal recesso alla reintegra.

In particolare, la Corte di merito rilevava che la domanda attorea, facendo, fra l’altro, esplicito riferimento alla tutela reale, imponeva la pronuncia di reintegrazione, in conseguenza dell’accertata declaratoria di illegittimità del licenziamento; il diritto al risarcimento, inoltre, scaturiva da tale declaratoria, ai sensi della normativa sui licenziamenti, non essendovi necessità di provare specificamente l’esistenza e l’entità del danno.

2. Avverso questa decisione la società propone ricorso per cassazione con quattro motivi di impugnazione, illustrati anche con memoria, cui il lavoratore resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., degli artt. 112 e 434 c.p.c., si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto ammissibile in appello, siccome non nuova, la domanda di reintegrazione ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ritenuta, erroneamente, implicitamente contenuta nella richiesta di declaratoria di illegittimità del recesso, nonchè in quella di risarcimento del danno, senza considerare che in prime cure il lavoratore non aveva neppure allegato l’esistenza del requisito dimensionale deducendone, anzi, la inapplicabilità nei confronti del socio – lavoratore.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 437 e 421 c.p.c., anche in relazione all’art. 101 c.p.c. e art. 24 Cost. Si lamenta che la Corte d’appello abbia disposto la reintegrazione sulla base di una circostanza – quale la dimensione occupazionale dell’azienda – non allegata nel ricorso introduttivo di primo grado, e introdotta per la prima volta in appello, con allegazione del tutto nuova supportata da documentazione mai prodotta dinanzi al Tribunale.

3. Col terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, si censura l’affermazione della decisione impugnata secondo cui dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento derivava l’applicazione delle conseguenze automatiche previste da tale norma, cioè la reintegrazione e il risarcimento.

4. Il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 2909 c.c.. Si sostiene che, in ogni caso, si era formato il giudicato interno sulla statuizione del Tribunale – non impugnata in appello dal lavoratore – di rigetto della domanda di risarcimento.

5. I primi tre motivi di ricorso devono essere trattati in modo unitario, per l’intima connessione delle censure; e l’esame congiunto ne rivela la infondatezza per ognuno degli evidenziati profili.

5.1. L’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (cfr. Cass. n. 17947 del 2006).

5.2. Nella specie, la società ricorrente deduce la violazione del criterio esegetico prescritto dall’art. 1362 c.c.. La censura si fonda, nella sua essenza, nella mancata considerazione, da parte della Corte d’appello, della assoluta, e letterale, carenza di un petitum riguardante la reintegrazione nel posto di lavoro. Il rilievo, però, non tiene conto che nel rito del lavoro l’inesatta e incompleta indicazione, nel ricorso introduttivo, dell’oggetto della domanda e degli elementi di diritto, tale da non impedire l’identificazione dell’oggetto e dei motivi in diritto della pretesa, può essere superata dal giudice attraverso l’interpretazione complessiva dell’atto di parte, così ritenendo assolto l’onere gravante sul ricorrente in funzione del pieno spiegamento del contraddittorio e della formazione della decisione giudiziale in modo aderente ai legittimi interessi delle parti (cfr. Cass. n. 15966 del 2007). Ebbene, la Corte territoriale ha ravvisato, nella specie, nelle espressioni contenute nel ricorso al giudice di primo grado un’implicita invocazione della tutela reale, insita nella esplicita e ribadita deduzione della normativa dello Statuto dei lavoratori, ritenendo quell’invocazione tempestiva in primo grado ed ammissibile in appello. La valutazione, così operata, non è peraltro dissimile – a ben vedere – dalla qualificazione della domanda adottata dal Tribunale, che, da un lato, aveva rilevato che non erano “state richieste dalle parti pronunce costitutive”, ma, dall’altro, aveva ritenuto di precisare che non era “stata raggiunta la prova che ne ricorressero le condizioni”, escludendo infine il diritto al risarcimento per la genericità della domanda “non indicante il danno subito”: una conclusione che è fatta propria, in questa sede, dalla datrice di lavoro, e che, però, presupponendo una domanda del tutto svuotata di contenuti – se pure ricondotta in maniera esplicita alla tutela reale – richiederebbe una qualche valutazione, in ordine alla configurazione della volontà espressa dalla parte, ai fini della effettività della tutela richiesta, specialmente nell’ambito di un giudizio vertente sulla dedotta illegittimità del licenziamento. Nè può soccorrere, ai fini della censurata configurazione del petitum ad opera del giudice d’appello, la circostanza che il lavoratore non avesse ab origine allegato la ricorrenza del requisito dimensionale:

ed invero l’allegazione di tale fatto non era certo imposta al dipendente licenziato, visto che l’onere di dimostrarne l’esistenza spetta al datore di lavoro, e non al lavoratore licenziato, sì che, d’altra parte, perdono ogni rilievo le osservazioni della ricorrente circa la produzione in appello della relativa documentazione (cfr.

Cass., sez. un., n. 141 del 2006).

Ne consegue che, in questa situazione processuale, l’attività interpretativa della Corte d’appello si sottrae alle critiche sollevate dalla società datrice di lavoro.

6. Non fondato è anche il quarto motivo, poichè dalla decisione impugnata risulta che l’appello ha investito espressamente la statuizione del Tribunale relativa al rigetto della domanda di risarcimento, dovendosi pertanto escludere la formazione del giudicato interno in parte qua.

7. In conclusione il ricorso è respinto. La ricorrente va condannata al pagamento delle spese del giudizio, secondo soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in 20,00 Euro per esborsi e in Euro tremila/00 per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2011

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