Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16237 del 28/06/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 28/06/2017, (ud. 25/05/2017, dep.28/06/2017),  n. 16237

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15435-2013 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, V. NAZARIO SAURO

16, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA REHO, rappresentata e

difesa dall’avvocato MASSIMO PISTILLI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1738/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/05/2017 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO.

Fatto

RILEVATO

che:

il Tribunale di Viterbo ha accolto parzialmente la domanda proposta da C.M., lavoratrice assunta alle dipendenze del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in qualità di supplente con una serie di contratti a tempo determinato, e per effetto ha condannato il Ministero al risarcimento del danno subito dalla lavoratrice, quantificato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge; ha invece rigettato la domanda avente ad oggetto la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato;

la Corte d’appello di Roma, decidendo sugli appelli principale e incidentale proposti, rispettivamente, dalla C. e dal Ministero ha accolto l’appello incidentale e, per l’effetto, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta dalla lavoratrice, così respingendo totalmente le sue domande, condannandola al pagamento delle spese di entrambi gradi del giudizio;

la Corte territoriale, dopo aver esaminato la normativa primaria e secondaria di settore, ha osservato che il conferimento delle supplenze annuali e temporanee è disciplinato dall’art. 4 della L. 124 del 1999; che, in ragione della specialità della complessiva disciplina, non erano applicabili le disposizioni del D.Lgs. n. 368 del 2001, che non aveva determinato l’abrogazione della disciplina del rapporto a termine contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001;

ha quindi ritenuto che l’abuso nella reiterazione fosse ravvisabile solo per i contratti conclusi ai sensi della L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1, (supplenze annuali), e non anche per quelli di cui all’art. 4, comma 2, (supplenze sino al termine delle attività didattiche), e comma 3 (supplenze temporanee) della medesima legge: e, poichè dalla documentazione in atti era emerso che tra le parti era intercorso un unico contratto di supplenza annuale, ed in applicazione dei principi espressi con l’ordinanza C 161-2011 della Corte di giustizia, – secondo cui non è applicabile la disciplina comunitaria in caso di stipulazione di un solo contratto a termine, riguardando la direttiva unicamente la successione di più contratti -, non sussisteva il diritto della parte al risarcimento del danno;

per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice sulla base di quattro motivi;

il Miur non ha svolto attività difensiva;

la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

la ricorrente ha depositato memoria;

il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.Con il primo articolato motivo, la ricorrente denuncia la violazione della Direttiva del Consiglio CE 1999-70-CE (considerando n. 16 dell’art. 2 e preambolo), della clausola 5, punto 1), dell’Accordo quadro CES-UNICE-CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4, 5, 10 e 11 anche in combinato disposto con la L. 4 giugno 1999, n. 124, art. 4.

1.1. In sintesi sostiene che le disposizioni previste dalla L. n. 124 del 1999, in particolare l’art. 4, sono state abrogate per incompatibilità con il D.Lgs. n. 361 del 2001; che in ogni caso esse sarebbero in contrasto con la direttiva comunitaria 70-1999-CE, non sussistendo alcuna ragione obiettiva idonea ad introdurre deroghe al divieto di reiterazione di contratti a tempo determinato imposto dalla clausola 5 dell’Accordo quadro, considerato che le regioni di contenimento della spesa pubblica non possono mai comportare la deroga al diritto dell’Unione. Sotto tale aspetto rinnova la richiesta di sottoporre la questione pregiudiziale alla Corte di giustizia di Lussemburgo, in punto di compatibilità tra la disciplina nazionale di cui alla L. n. 124 del 1999, ove ritenuta ancora vigente, e la direttiva comunitaria 70-1999-CE, unitamente all’accordo quadro in essa trasposto.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36 con riferimento alle norme comunitarie già invocate nei precedenti motivi (Direttiva del Consiglio CE 1999-70-CE, Accordo quadro) e del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4, 5, 10 e 11 e ribadisce l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che la specialità della disciplina normativa del pubblico impiego legittimi una deroga alle norme del diritto comunitario in tema di prevenzione dell’abuso alla reiterazione dei contratti a termine. Contesta gli approdi interpretativi raggiunti dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 10127 del 2012.

3. Con il terzo motivo, la parte denuncia ancora una volta la violazione e falsa applicazione delle norme del diritto unitario succitate, con particolare riguardo alla violazione dell’obbligo internazionale derivante all’Italia dall’art. 6, comma primo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, determinata dalla promulgazione del cosiddetto decreto sviluppo di cui al D. L. 70/2011, nella parte in cui ha escluso espressamente dall’applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2011 contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente e ATA.

4. Il quarto motivo ha invece ad oggetto la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ., e con esso la parte si duole della mancata compensazione delle spese di lite in considerazione della opinabilità della questione, attestata dalle diverse pronunce dei giudici di merito.

5. I primi tre motivi sono infondati alla luce dei principi espressi da questa Corte nelle sentenze n. 22553/2016 e 22556/2016 ai cui principi occorre uniformarsi.

I passaggi motivazionali che rilevano nella presente controversia possono così riassumersi:

a) la disciplina speciale prevista dalla L. n. 124 del 1999, è incompatibile con la normativa di carattere generale dettata per il contratto a termine dal D.Lgs. n. 368 del 2001: con la L. n. 124 del 1999 il legislatore ha tipizzato ex ante le ragioni sottese alle diverse tipologie di supplenze, considerando, nella disciplina delle proroghe e dei rinnovi, oltre che le peculiarità del sistema del doppio canale per le assunzioni anche le esigenze di continuità didattica;

b) il D.L. n. 70 del 2011, art. 9, comma 18, con l’introduzione nel D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 10, del comma 4-bis ha espressamente previsto la inapplicabilità del D.Lgs. n. 368 del 2001 al personale della scuola ed ha escluso che potesse essere allo stesso esteso il limite fissato dall’art. 5, comma 4-bis; si tratta di un intervento additivo, espressione della potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l’interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell’ordinamento giuridico;

c) la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 207 del 2013, ha già sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la questione di interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato: la Corte di giustizia, con la sentenza del 26 novembre 2014 (nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri), ha deciso nel senso che “La clausola 5, punto 1, dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, (…(…)…) deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonchè di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e per detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo”;

d) con la sentenza n. 187 del 2016 la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, commi 1 e 11, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonchè di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”.

6. La Corte è pervenuta al predetto dispositivo riconoscendo il proprio obbligo di attenersi all’inequivocabile verdetto della Corte di Giustizia sulla non conformità alla clausola 5 comma 1 della Direttiva del 1999 delle disposizioni menzionate (punto 47), in tal modo dando seguito al fondamentale principio del primato del diritto comunitario, posto alla base della richiamata ordinanza n. 207 del 2013 della Corte Costituzionale e sempre riconosciuto dalle pronunzie di questa Corte.

6.1. La Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto di dovere integrare il dictum del giudice comunitario ed ha esaminato la questione, oggetto dei giudizi nei quali era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, dello jus superveniens, costituito dalla L. n. 107 del 2015, adottata dal legislatore al fine di garantire la corretta applicazione dell’Accordo quadro.

6.2. Dalla combinazione dei vari interventi, sia a regime che transitori, effettuati con la suddetta L. n. 107 del 2015, il Giudice delle leggi ha desunto l’esistenza, “in tutti i casi che vengono in rilievo”, di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di Giustizia, individuandole, quanto ai docenti, nelle procedure privilegiate di assunzione che attribuiscono a tutto il personale interessato serie ed indiscutibili chances di immissione in ruolo.

6.3. La Corte ha precisato, da ultimo, che grazie alla L. n. 107 del 2015 l’illecito di cui si è reso responsabile lo Stato italiano, a causa della violazione del diritto dell’UE, è stato “cancellato” dal legislatore italiano con la previsione di adeguati ristori al personale interessato.

6.4. I giudici delle leggi hanno pertanto precisato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale, in parte qua e con effetto ex tunc, della L. n. 124 del 1999, art. 4, commi 1 e 11 comporta che la reiterazione dei contratti a termine stipulati ai sensi della richiamata disposizione configura un illecito, rilevante sul piano del diritto comunitario e, quindi, sul diritto interno.

7. In ordine alle condizioni in presenza delle quali può dirsi integrato l’illecito questa Corte, nelle sentenze citate, ha posto l’accento sia sulle ragioni delle supplenze sia sul dispiegamento nel tempo dei contratti a tempo determinato, precisando che, sotto il primo profilo, tanto la Corte di Giustizia quanto la Corte Costituzionale hanno fatto riferimento alla sola tipologia contrattuale delle supplenze “organico di diritto”, regolate dalla L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1, e, dunque, i principi enunciati non si estendono a quelle su organico di fatto; sotto il secondo profilo che, pur in assenza di disposizioni di legge che espressamente individuino il tempo in cui il rinnovo dei contratti a termine possa integrare la illegittima ed abusiva reiterazione delle assunzioni a termine, è stato ritenuto idoneo parametro il termine triennale previsto per l’indizione delle procedure concorsuali per i docenti (art. 400 del T. U., come modificato dalla L. n. 124 del 1999, art. 1): esso infatti, trasposto in tetinini di rinnovi contrattuali, sarebbe stato idoneo a giustificare fino a tre contratti a termine, ciascuno di durata annuale ed è, quindi, desumibile in via interpretativa proprio dal sistema peculiare della scuola, ricevendo specifica conferma nel fatto che avranno cadenza triennale i futuri concorsi pubblici, come previsto dalla L. n. 107 del 2015, art. 1, comma 113 che ha riformato l’art. 400 del T.U..

7.1. E’ stato, altresì, chiarito che ad attestare la esistenza di una ragionevolezza del parametro triennale può richiamarsi il fatto che uguale limite massimo di trentasei mesi è fissato per la durata del rapporto di lavoro a termine in ambito privato per lo svolgimento di mansioni equivalenti alle dipendenze del medesimo datore di lavoro (D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4- bis, introdotto dalla L. n. 247 del 2007 e da ultimo D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 19, comma 2).

7.2. E’ stato, così, conclusivamente affermato che la complessiva durata massima di trentasei mesi costituisce un parametro tendenziale del sistema delle assunzioni a tempo determinato che porta ad allineare, ferma la specialità del D.Lgs. n. 165 del 2001, il settore privato e il settore pubblico, se pur esclusivamente in ordine al limite temporale oltre il quale è configurabile l’abuso (quanto al settore privato, cfr. da ultimo S.U. 11374/2016).

8. Nella specie, si evince dalla stessa sentenza impugnata (pag. 13) che tra le parti è intercorso un unico contratto di supplenza annuale (su organico di diritto) con la conseguenza che non è configurabile l’abuso nei termini su descritti.

Ne consegue la correttezza della decisione impugnata, che a tali principi si è attenuta e che non appaiono scalfiti dalle pur diffuse osservazioni contenute nella memoria della ricorrente, che sono, invece, inammissibili nella parte in cui introducono circostanze fattuali non dedotte in ricorso.

9. E’ del pari infondato il quarto motivo di ricorso, dovendosi al riguardo richiamare i principi più volte espressi da questa Corte secondo cui non è censurabile il mancato ricorso – da parte del giudice di merito – all’istituto della compensazione delle spese del giudizio (Cass. 6/10/2011, n. 20457 Cass. 20/11/1998, n. 11770).

10. Pertanto, il ricorso va rigettato. La novità e la complessità della questione, diversamente risolta dalle Corti territoriali, giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio.

Poichè il ricorso è stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1. In tema di impugnazioni, il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass., ord.13 maggio 2014 n. 10306).

PQM

 

Rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2017

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