Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16236 del 09/07/2010

Cassazione civile sez. III, 09/07/2010, (ud. 06/05/2010, dep. 09/07/2010), n.16236

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – rel. Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29325/2007 proposto da:

LABORATORIO ANALISI CLINICHE TIBURTINO S.R.L. (OMISSIS), in persona

dell’Amministratore Unico Sig.ra D.A.A.M.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VICOLO ORBITELLI 31, presso lo

studio dell’avvocato CLEMENTE Michele, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ZENO ZENCOVICH VINCENZO giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M., C.G., L.L., EDITRICE ROMANA

S.P.A. (OMISSIS), in persona del suo legale rappresentante pro

tempore T.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

PARIOLI 76, presso lo studio dell’avvocato LIBERATI Maurizio, che li

rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

R.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4140/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

Sezione Prima Civile, emessa il 07/07/2006, depositata il 02/10/2006

R.G.N. 5653/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

06/05/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO SPAGNA MUSSO;

udito l’Avvocato ZENO ZENCOVICH VINCENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione, notificato il 12.10.98, il Laboratorio Analisi Cliniche Tiburtino s.r.l. conveniva avanti al Tribunale di Roma l’Editrice Roma s.p.a., quale editrice del quotidiano (OMISSIS), C.G., quale direttore di detto quotidiano, G.M., C.G. e L.L., nella qualità i primi due di cronisti ed il terzo di articolista, per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti dall’attrice a seguito della pubblicazione di una serie di articoli dal contenuto diffamatorio avvenuta sul quotidiano (OMISSIS) nelle edizioni del (OMISSIS).

Deduceva l’attrice: che i cronisti de (OMISSIS), dopo aver versato alcuni litri di tè in contenitori sterili, li avevano portati presso alcuni laboratori, fra i quali quello gestito dalla società attrice, per farli analizzare, avendoli “spacciati” come urina; che avevano così ottenuto referti secondo i quali nessun dubbio sussisteva circa la possibilità che il liquido esaminato non fosse urina; che, a seguito di tali risultati, sul quotidiano erano apparsi diversi articoli che, narrando l’accaduto, avevano rappresentato il fatto come esempio di “malasanità” commesso ai danni dei cittadini, invitando i competenti organi pubblici ad intervenire; che il contenuto dell’articolo era, quindi, palesemente diffamatorio della figura della società attrice, sia per la falsità delle notizie riportate sia per il tono stesso dell’articolo.

Ciò premesso, chiedeva che il Tribunale, accertata la natura diffamatoria di detti articoli, condannasse i convenuti in solido al risarcimento dei danni, con le conseguenze di legge.

Con sentenza 10510/2002, l’adito Tribunale di Roma, espletata consulenza di ufficio, accertava il carattere diffamatorio del solo articolo pubblicato nell’edizione del 19.9.1998 da parte del quotidiano (OMISSIS), con condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni (liquidati in Euro 51.000,00, oltre Euro 10.000,00 a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 12 legge sulla stampa), oltre alla pubblicazione della sentenza su alcuni giornali.

A seguito dell’appello de L’Editrice Romana s.p.a., di G.M., di C.G. e di L.L., costituitosi il Laboratorio, la Corte d’Appello di Roma, con la decisione in esame, depositata in data 7.7.2006, in riforma di quanto statuito in primo grado e in accoglimento dell’appello, rigettava la domanda del Laboratorio.

Affermava, in particolare, la Corte Territoriale che “….non può dubitarsi della veridicità della notizia riportata sul giornale. Neppure, poi, può dubitarsi che la notizia rivestisse un grande interesse per l’opinione pubblica, coinvolgendo la stessa il bene primario della salute e dei mezzi a disposizione per adeguatamente presidiarla, tra i quali rivestono un ruolo preminente le analisi di laboratorio.

Non può essere, al riguardo, condiviso l’assunto dell’appellante secondo il quale i giornalisti avrebbero fraudolentemente predisposto una trappola, al solo fine di fare un scoop giornalistico. Appare infatti evidente che l’intento era esclusivamente quello di verificare il grado di attendibilità dei risultati delle analisi di laboratorio, che certamente risulta gravemente compromessa quando il tè, sostanza di natura vegetale, viene confusa con l’urina, sostanza di natura organica umana”.

Ricorre per cassazione il Laboratorio con tre motivi, e relativi quesiti; resiste con controricorso L’Editrice Romana, mentre non hanno svolto attività difensiva gli intimati G.M., C.G., L.L. e R.R..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi di ricorso si deduce violazione dell’art. 21 Cost., nonchè degli artt. 51 e 595 c.p., e relativo vizio di motivazione, “in ordine alla sussistenza della scriminante della verità” e “in ordine alla sussistenza della scriminante della continenza espressiva”. Si afferma in proposito che “la sentenza impugnata non ha colto che il fatto narrato è frutto di una dolosa artefazione della realtà per poter additare a pubblico scandalo e disprezzo la ricorrente”…..e che “all’origine della vicenda vi è un evidente dolo contrattuale….”; inoltre si afferma che “il servizio giornalistico per cui è causa rappresenta un autentico paradigma di illiceità alla luce delle regole scolpite dal decalogo”; che “nell’intero servizio vi è una terminologia che mira a suggestionare il lettore per inibirne le capacità critiche” e che “la sentenza impugnata ha del tutto ignorato il basilare principio di proporzionalità tra la critica e i fatti narrati.

Il quotidiano non ha riferito o commentato i fatti, li ha materialmente posti in essere al fine di creare clamore e scalpore”.

Con il terzo motivo si deduce difetto di motivazione in ordine alla valutazione dei risultati della consulenza di ufficio.

Il ricorso non merita accoglimento in relazione a tutte le suesposte censure.

Deve, innanzitutto, rilevarsi che nel caso di specie si verte in tema di c.d. giornalismo di inchiesta, espressione più alta e nobile dell’attività di informazione; con tale tipologia di giornalismo, infatti, maggiormente si realizza il fine di detta attività quale prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione, per sollecitare i cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli, per il rilievo pubblico delle stesse.

Con il giornalismo di inchiesta l’acquisizione della notizia avviene “autonomamente”, “direttamente” e “attivamente” da parte del professionista e non mediata da “fonti” esterne mediante la ricezione “passiva” di informazioni.

Il rilievo del giornalismo di inchiesta, anch’esso ovviamente espressione del diritto insopprimibile e fondamentale della libertà di informazione e di critica, corollario dell’art. 21 Cost. (secondo cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”) nonchè della Legge Professionale n. 69 del 1963, art. 2 (dedicato alla deontologia del giornalista nell’ambito dell’Ordinamento della professione di giornalista), è stato, tra l’altro, riconosciuto dalla Corte di Strasburgo (che, in particolare, con sentenza 27.3.1996 ha riconosciuto il diritto di liberamente ricercare le notizie sia l’esigenza di protezione delle fonti giornalistiche) e dalla Carta dei doveri del giornalista (firmata a Roma l’8 luglio 1993 dalla Fnsi e dall’Ordine nazionale dei giornalisti) che, tra i principi ispiratori, prevede testualmente che “il giornalista deve rispettare, coltivare e difendere il diritto all’informazione di tutti i cittadini; per questo ricerca e diffonde ogni notizia o informazione che ritenga di pubblico interesse, nel rispetto della verità e con la maggiore accuratezza possibile. Il giornalista ricerca e diffonde le notizie di pubblico interesse nonostante gli ostacoli che possono essere frapposti al suo lavoro e compie ogni sforzo per garantire al cittadino la conoscenza ed il controllo degli atti pubblici. La responsabilità del giornalista verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra. Il giornalista non può mai subordinarla ad interessi di altri e particolarmente a quelli dell’editore, del governo o di altri organismi dello Stato”.

In tale contesto, al giornalismo di inchiesta, quale species, deve essere riconosciuta ampia tutela ordinamentale, tale da comportare in relazione ai limiti regolatori, dell’attività di informazione, quale genus, già individuati dalla giurisprudenza di legittimità, una meno rigorosa e comunque diversa applicazione dell’attendibilità della fonte (su cui, tra le altre, Cass. n. 1205/2007), fermi restando i limiti dell’interesse pubblico alla notizia (tra le altre, Cass. n. 7261/2008), e del linguaggio continente, ispirato ad una correttezza formale dell’esposizione (sul punto, tra le altre, Cass. n. 2271/2005); è, infatti, evidente che nel giornalismo di inchiesta, viene meno l’esigenza di valutare l’attendibilità e la veridicità della provenienza della notizia, dovendosi ispirare il giornalista, nell'”attingere” direttamente l’informazione, principalmente ai criteri etici e deontologici della sua attività professionale, quali tra l’altro menzionati nell’ordinamento ex lege n. 69 del 1963 e nella soprarichiamata Carta dei doveri (con particolare riferimento alla Premessa).

Ne consegue che detta modalità di fare informazione non comporta violazione dell’onore e del prestigio di. soggetti giuridici, con relativo discredito sociale, qualora ricorrano: l’aggettivo interesse a rendere consapevole l’opinione pubblica di fatti ed avvenimenti socialmente rilevanti; l’uso di un linguaggio non offensivo e la non violazione di correttezza professionale.

Inoltre, il giornalismo di inchiesta è da ritenersi legittimamente esercitato ove, oltre a rispettare la persona e la sua dignità, non ne leda la riservatezza per quanto in generale statuito dalle regole deontologiche in tema di trattamento dei dati personali nell’eserciziò dell’attività giornalistica (ai sensi della L. 31 dicembre 1996, n. 675, art. 25; del D.Lgs. n. 467 del 2001, art. 20 e del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12).

Viene dunque in evidenza un complessivo quadro disciplinare che rende l’attività di informazione chiaramente prevalente rispetto ai diritti personali della reputazione e della riservatezza, nel senso che questi ultimi, solo ove sussistano determinati presupposti, ne configurano un limite.

In particolare, è da considerare in proposito che, pur in presenza della rilevanza costituzionale della tutela della persona e della sua riservatezza, con specifico riferimento all’art. 15 Cost., detta prevalenza del fondamentale e insopprimibile diritto all’informazione si evince da un duplice ordine di considerazioni:

a) innanzitutto l’art. 1 Cost., comma 2, nell’affermare che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercitai nelle forme e nei limiti della Costituzione”, presuppone quale imprescindibile condizione per un pieno, legittimo e corretto esercizio di detta sovranità che la stessa si realizzi mediante tutti gli strumenti democratici (art. 1 Cost., comma 1), a tal fine predisposti dall’ordinamento, tra cui un posto e una funzione preminenti spettano all’attività di informazione in questione (e quindi a maggior ragione, per quanto esposto); vale a dire che intanto il popolo può ritenersi costituzionalmente “sovrano” (nel senso rigorosamente tecnico-giuridico di tale termine) in quanto venga, al fine di un compiuto e incondizionato formarsi dell’opinione pubblica, senza limitazioni e restrizioni di alcun genere, pienamente informato di tutti i fatti, eventi e accadi menti valutabili come di interesse pubblico.

b) Inoltre, non può non sottovalutarsi che lo stesso legislatore ordinario, sulla base dell’ampia normativa sopra richiamata, ha ricondotto reputazione e “privacy” nell’alveo delle “eccezioni” rispetto al generale principio della tutela dell’informazione; tant’è vero che in proposito, nello stesso Codice deontologico dei giornalisti (relativo al trattamento dei dati personali all’art. 6 si legge testualmente che “la divulgazione di notizie di rilevante interesse pubblico o sociale non contrasta con il rispetto della sfera privata quando l’informazione, anche dettagliata, sia indispensabile in ragione dell’originalità del fatto o della relativa descrizione dei modi particolari in cui è avvenuto, nonchè della qualificazione dei protagonisti. La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul “loro ruolo o sulla loro vita pubblica. Commenti o opinioni del giornalista appartengono alla libertà di informazione nonchè alla libertà di parola e di pensiero costituzionalmente garantita a tutti”; come anche deve ricordarsi che con Risoluzione dell’assemblea n. 1003 del 1 lugLio 1993, relativa all’etica del giornalismo, il Consiglio d’Europa ha, tra l’altro, affermato che “i mezzi di comunicazione sociale assumono, nei confronti dei cittadini e della società, una responsabilità morale che deve essere sottolineata, segnatamente in un momento in cui l’informazione e la comunicazione rivestono una grande importanza sia per lo sviluppo della personalità dei cittadini, sia per l’evoluzione della società e della vita democratica”.

La sentenza impugnata ha correttamente applicato i suesposti principi, pur non enunciandoli del tutto esplicitamente.

Ha, infatti, con sufficiente e logica motivazione, in riforma della decisione di primo grado, affermato la non diffamatorietà dell’articolo in questione (pubblicato il (OMISSIS)), sostenendo, in generale, che: “perchè sussista la scriminante del diritto di cronaca,è necessario che sussistano i seguenti requisiti: la verità della notizia riportata; l’interesse che i fatti riportati rivestano per l’opinione pubblica; la correttezza dell’esposizione di tali fatti, secondo il principio della continenza”, e, con specifico riferimento al caso di specie, sulla base di un compiuto esame dello risultanze processuali (tra cui la consulenza di legittimità, che “la società appellata, sia in primo grado che nel presente giudizio, mai ha contestato che il campione analizzato fosse effettivamente tè… non può dubitarsi della veridicità della notizia riportata sul giornale… neppure, poi, può dubitarsi che la notizia rivestisse un grande interesse per l’opinione pubblica, coinvolgendo la stessa il bene primario della salute e dei mezzi a disposizione per adeguatamente presidiarla, tra i quali rivestono un ruolo preminente le analisi di laboratorio”; per poi aggiungere che “non può essere, al riguardo, condiviso l’assunto dell’appellante secondo il quale i giornalisti avrebbero fraudolentemente predisposto una trappola, al solo fine di fare un scoop giornalistico. Appare infatti evidente che l’intento era esclusivamente quello di verificare il grado di attendibilità dei risultati delle analisi di laboratorio, che certamente risulta gravemente compromessa quando il thè, sostanza di natura vegetale, viene confusa con l’urina, sostanza di natura organica umana”.

Inoltre, riguardo al requisito della continenza, anch’esso rientrante nella valutazione discrezionale del giudice del merito, la Corte territoriale ha ritenuto che “l’articolo in questione risulta redatto in forme espressive corrette e conferenti rispetto a ciò che veniva narrato, senza eccessi e senza espressioni ultronee o gratuitamente infamanti nei confronti dell’ appellata”, con ciò dando ulteriormente conto della propria decisione.

Deve aggiungersi, con particolare riferimento ai primi due motivi del ricorso, che priva di pregio è la censura secondo cui nella vicenda in esame si tratta di “affermazioni consapevolmente false”, frutto di “un evidente dolo contrattuale” con “artifici e menzogne che hanno avuto una decisiva influenza causale sul consenso del Laboratorio Tiburtino”: da quanto emerge dallo svolgimento delle vicenda, per come esposta dalla Corte di merito, non sussiste per nulla detto comportamento doloso poichè i giornalisti si sono limitati a far analizzare dei “campioni” di thè, senza artifizi, per poi denunciare, nell’ambito della loro attività professionale di inchiesta (connessa all’insopprimibile e fondamentale diritto all’informazione) il deprecabile risultato delle analisi svolte, attestanti trattarsi di un liquido organico (e non di una bevanda come nella realtà) in virtù di un errore del Laboratorio (non provocato quindi dai giornalisti mediante dolo).

Inoltre, rientra nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, definire ” scandalosi ” e “sconcertanti” i risultati dell’inchiesta svolta, finalizzata a correttamente e compiutamente informare la pubblica opinione sul livello di professionalità dei laboratori di analisi nella Capitale, tra l’altro, come detto, mediante l’uso di un linguaggio ritenuto in sede di merito non sconveniente ed oltraggioso ma “in linea” con i fatti narrati.

In definitiva, i giornalisti si sono limitati ad accertare fatti, agendo autonomamente mediante lo svolgimento di un’ inchiesta, per poi renderne edotta la collettività mediante articoli su un quotidiano romano.

Infine, non meritevole di accoglimento è la terza e ultima censura: ferma restando, come già esposto, la sufficienza, coerenza e logicità della motivazione (svolta anche in virtù dell’esame dei dati peritali), è preclusa, nella presente sede di legittimità, ogni ulteriore valutazione della consulenza di ufficio, per come prospettato in ricorso.

Deve ribadirsi in proposito quanto già statuito da questa Corte, secondo cui la valutazione delle indagini svolte dal consulente di ufficio è un accertamento di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione adeguata e sufficiente, come nel caso esame; ne consegue che eventuali errori del consulente tecnico di cui si sia avvalso il giudice sono suscettibili di esame in sede di legittimità unicamente sotto il profilo del vizio di motivazione della sentenza che li recepisce, quando siano riscontrabili carenze e deficienze diagnostiche o affermazioni scientificamente errate, e non già quando si prospettino semplici difformità tra la valutazione del consulente e la valutazione della parte.

Ancora, quando sia denunciato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza, così come dedotto con la censura in esame, sotto il profilo dell’omessa valutazione di fatti, circostanze, rilievi mossi alle risultanze di ordine tecnico ed al procedimento tecnico seguito dal c.t.u., è necessario che il ricorrente non si limiti a censure apodittiche di erroneità o di inadeguatezza della motivazione, o anche di omesso approfondimento di determinati temi di indagine, ma precisi e specifichi, sia pure in maniera sintetica, le risultanze e gli elementi di causa dei quali lamenta la mancata od insufficiente valutazione, evidenziando, in particolare, le eventuali controdeduzioni alla consulenza d’ufficio che assume non essere state prese in considerazione, ovvero gli eventuali mezzi di prova contrari non ammessi, per consentire al giudice di legittimità di esercitare il controllo sulla decisività degli stessi, che, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere effettuato sulla sola base delle deduzioni contenute in tale atto (in proposito, tra le altre, Cass. nn. 4254/2009 e 8383/2009).

Il ricorrente con detto terzo motivo si limita a generiche e non pertinenti critiche (nel senso sopra prospettato) in punto di valutazione delle risultanze peritali, con relativa deduzione di un inesistente vizio motivazionale.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, a favore della sola resistente Editrice Romana.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese de la presente fase che liquida in complessivi Euro 2.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre spese generali ed accessorie come per legge.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2010

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