Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16231 del 25/07/2011

Cassazione civile sez. II, 25/07/2011, (ud. 04/03/2011, dep. 25/07/2011), n.16231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.S. (OMISSIS), S.A.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA A BRUNETTI

24, presso lo studio dell’avvocato FALZEA PAOLO, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MILORO VINCENZO;

– ricorrenti –

contro

S.R. (OMISSIS), S.M.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA

VESCOVIO 21, presso lo studio dell’avvocato MANFEROCE TOMMASO,

rappresentati e difesi dall’avvocato TERRANOVA VINCENZO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 321/2004 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 19/08/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/03/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO CORRENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso possessorio dell’aprile 1988 S. ed A. S. esponevano che la sorella M., dopo la morte della madre, si era impossessata del l’appartamento abitato dalla predetta, del quale erano comproprietari, e lo abitava con la famiglia.

Chiedevano di essere reintegrati.

La convenuta deduceva che l’immobile si apparteneva in via esclusiva al fratello R., che lo aveva acquistato dai coeredi e di possederlo in virtù di usufrutto da questi costituito in suo favore.

Interveniva S.R. che aderiva alla tesi della convenuta.

Disposta la reintegra, il Tribunale, con sentenza 2121/02 accoglieva la domanda ma su gravame di M. e S.R., la Corte di appello riformava la prima decisione rigettando le domande degli attori, posto che con la scrittura privata prodotta in atti gli stipulanti avevano attribuito efficacia traslativa, dandosi atto che S.R. aveva acquistato l’appartamento e precisamente le quote di S., A. e M., con accessori e che, quale proprietario, aveva ceduto l’usufrutto alla madre M.A. ed alla sorella M..

Il significato letterale non autorizzava incertezza alcuna ed una precedente scrittura indicava i termini dei pagamenti ed in calce vi erano le quietanze, una a saldo e documentazione di bonifici, donde l’inconsistenza delle argomentazioni del primo giudice.

Ricorrono S.S. ed A. con tre motivi, resistono con controricorso S.R. e M., che hanno anche presentato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 1140, 1146, art. 1476 c.c., n. 1 e vizi di motivazione posto che l’esercizio del possesso consiste nel potere di fatto sulla cosa e si trasferisce agli eredi per effetto di fictio iuris senza necessità di materiale apprensione. Riportano atto di compravendita 8.1.1990 e deducono che non è previsto alcun obbligo di consegna.

Col secondo lamentano violazione degli artt. 1362, 1363, 1470 c.c. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione riportando dichiarazione di S.A., promessa di vendita 18 gennaio 1988, compravendita 8.1.1990 e deducendo che la sentenza di primo grado aveva escluso l’idoneità al trasferimento del possesso.

Col terzo motivo lamentano violazione degli artt. 214 e 215 c.p.c. e vizi di motivazione censurando la sentenza impugnata per avere dichiarato la tardività del disconoscimento delle scritture private prodotte da controparte nel corso del giudizio, accogliendo l’eccezione di decadenza tempestivamente proposta in primo grado e ribadita in appello dai resistenti, senza avvedersi che la proposizione medio tempore di istanza di verificazione aveva implicato la rinunzia all’eccezione (punto D pag. 8 sentenza di appello). Riportano verbali di udienza.

Le censure non meritano accoglimento.

Il giudizio di legittimità non può consistere nella riproposizione di quanto precedentemente dedotto ma deve specificamente indicare le violazioni di legge od i vizi logici della motivazione.

Quanto a vizio di motivazione, dedotto in tutti i motivi, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s’imputino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, debba essere intesa a far valere, a pena d’inammissibilità comminata dall’art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa; diversamente, i motivi di ricorso per cassazione si risolverebbero – com’è, appunto, per quelli in esame – in un’inammissibile istanza di revisione delle vantazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè, può imputarsi al detto giudice d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti – come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie – da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.

Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, nè nel loro complesso nè nelle singole considerazioni, a censurare le ratione decidendi dell’impugnata sentenza sulle questioni de quìhus, bensì a supportare una generica contestazione con una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a qua e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ciò che non soddisfa affatto alla prescrizione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto si traduce nella prospettazione d’un’istanza di revisione il cui oggetto è estraneo all’ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni.

In ogni caso, in relazione al primo motivo va precisato che con la scrittura 8.1.90 S.R. acquistò la proprietà dell’immobile e ne trasferì l’usufrutto alla madre ed alla sorella che lo occuparono, immettendosi nella materiale disponibilità in forza di titolo creato da R. nel nome del quale, quali usufruttuarie, iniziarono a detenere.

E’ evidente che, in tal modo, attraverso l’esercizio di fatto del diritto, il possesso passò dai venditori a R. il quale ne trasmise la detenzione alla madre e alla sorella.

Se è vero, infatti, che può aversi il trasferimento della proprietà disgiunto da quello del possesso, l’uno non implicando necessariamente l’altro (Cass. 4.3.93 n. 2660, 11.10.89 n. 4057), è pur vero che il summenzionato effetto naturale del contratto di compravendita (Cass. 11.1.08 n. 569, 28.8.93 n. 9134, 16.3.84 n. 1808, 4.8.77 n. 3504, 9.11.70 n. 2310, 17.8.68 n. 2854) può non verificarsi solo ove risulti dimostrato che il venditore abbia omesso di trasferire il possesso del bene ceduto mantenendolo animo domini (esclusa, quindi, l’ipotesi del costituto possessorio) o che non l’abbia potuto trasferire in quanto esercitato da terzi, ipotesi all’evidenza non verificatesi nella specie, in quanto non è contestato che il venditore abbia cessato di possedere contemporaneamente alla cessione dell’immobile e che questo non fosse occupato da terzi, se non dopo la sua cessione a titolo d’usufrutto dall’acquirente alla madre ed alla sorella.

Quanto al secondo motivo, trattandosi di trasferimento d’un bene immobile, le scritture inter partes relative a tale negozio, preliminari e definitivo, e soltanto queste, dovevano essere prese in considerazione al fine d’indagare la comune volontà delle parti cd.

in primo ed esclusivo luogo, ne doveva, come ne è stato, essere accertato il senso letterale e logico.

Le regole legali d’ermeneutica contrattuale sono, infatti, dettate nel libro 4^, titolo 2^, capo 4^, CC (artt. 1362 – 1371) secondo un rigoroso ordine di priorità nell’utilizzazione, per il quale i criteri ermeneutici soggettivi, previsti nelle norme cosiddette strettamente interpretative degli artt. 1362 al 1365 c.c., debbono trovare preliminare applicazione rispetto ai criteri ermeneutici oggettivi, previsti nelle norme cosiddette interpretative integrative degli artt. dal 1366 al 1371 c.c., e ne escludono la concreta operatività quando la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti (Cass. 12.4.00 n. 4671, 11.8.99 n. 8584, 28.4.99 n. 4241, 26.6.96 n. 5893).

Ad ulteriore specificazione del posto principio generale d’ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, il legislatore ha, quindi, attribuito, nell’ambito della stessa prima categoria, assorbente rilevanza al criterio indicato nell’art. 1362 c.c., comma 1 – eventualmente integrato da quello posto dal successivo art. 1363 CC per il caso di concorrenza d’una pluralità di clausole nella determinazione del pattuito -onde, qualora il giudice del merito abbia ritenuto, come nella specie, il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti idoneo a rivelare con chiarezza ed univocità la comune volontà degli stessi, cosicchè non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti, detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2, che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione (Cass. 4.8.00 n. 10250, 18.7.00 n. 9438, 19.5.00 n. 6482, 11.8.99 n. 8590, 23.11.98 n. 11878, 23.2.98 n. 1940,26.6.97 n. 5715, 16.6.97 n. 5389); non senza considerare, altresì, come detto comportamento, ove trattisi d’interpretare contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non possa, in ogni caso, evidenziare una formazione del consenso al di fuori dell’atto scritto medesimo (Cass. 20.6.00 n. 7416, 21.6.99 n. 6214, 20.6.95 n. 6201, 11.4.92 n. 4474).

Nella specie, il senso letterale e logico delle frasi, come identificate nell’impugnata sentenza, con le quali, nelle scritture in esame, le parti avevano inteso prima promettere e poi trasferire l’immobile non consentiva dubbio alcuno, giusta quanto correttamente ritenuto dal giudice del merito, circa la comune volontà delle parti stesse rispettivamente di vendere ed acquistare quel cespite immobiliare, specificamente e dettagliatamente identificato.

Nè minimamente rileva che nel distinto giudizio di divisione l’immobile de quo sia stato assegnato ad una di coloro che, nel presente giudizio, risultano essere stati i venditori delle rispettive quote di comproprietà sull’immobile medesimo, dacchè, ai fini del preteso spoglio assuntivamente perpetrato nel novembre 1997 e del quale si controverte, ciò che rileva sono la vendita del gennaio 1990 e le consequenziali perdita del possesso da parte dei venditori ed acquisto dello stesso da parte del compratore effettivamente realizzatisi con la consegna della materiale disponibilità da quest’ultimo ai soggetti dallo stesso beneficiati dell’usufrutto.

Neanche il terzo motivo merita accoglimento.

La sentenza ha dedotto che le scritture furono prodotte alla udienza del 14.5.98 e la difesa dei ricorrenti si limitò a contestarne la rilevanza ai fini di causa. Solo alla udienza del 1.10.98 fu chiesta la produzione degli originali al fine di consentire il disconoscimento, donde la tardività.

I passi riportati dei verbali non rendono suffragio alla tesi della implicita rinunzia all’eccezione, risultando – verbale di udienza del 1.10.1998- una riserva, dei procuratori dei resistenti, in subordine di proporre istanza di verificazione e, successivamente – verbale del 20.5.199- che si “propone – ad abundantiam – istanza di verificazione”.

In definitiva il ricorso va rigettato, con la conseguente condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in Euro 3200 di cui 3000 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2011

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