Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1622 del 19/01/2022

Cassazione civile sez. II, 19/01/2022, (ud. 18/11/2021, dep. 19/01/2022), n.1622

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5739/2017 R.G. proposto da:

S.V., rappresentato e difeso dall’avv. Carmelo Ruta, con

domicilio eletto in Roma, Via Salaria n. 292, presso l’avv. Pietro

Roccasalva;

– ricorrente –

contro

V.G., E O.B., rappresentati e difesi

dall’avv. Vincenzo Iozzia, con domicilio in Modica, alla Via Sacro

Cuore 114/A.

– controricorrenti –

e

P.M.C.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 128/2017,

pubblicata in data 24.1.2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno

18.11.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data 18 giugno 2007, V.G. e O.B. hanno evocato in giudizio S.V. dinanzi al Tribunale di Modica, esponendo di aver acquistato uno stacco di terreno sito in (OMISSIS), contraddistinto in catasto al fg. (OMISSIS) da P.G.F., che ne era divenuto proprietario esclusivo per atto di divisione ereditaria del 12.2.1988 riguardante i beni devoluti per successione legittima di P.S.; che con il medesimo atto di divisione era stato assegnato a P.M.C. il confinante stacco di terreno, in catasto al fg. (OMISSIS), successivamente venduto S.V. con atto pubblico del 21 marzo 1997; che questi, in luogo di immettersi nel possesso del terreno acquistato, si era insediato sul terreno contermine posto più a monte, occupando le (OMISSIS).

Hanno chiesto di ordinare il rilascio della porzione occupata, con condanna del S. al risarcimento dei danni derivanti dalla perdita dei frutti durante il periodo della illegittima detenzione. Il convenuto si è costituito, chiedendo di chiamare in causa il coniuge, avendo acquistato le particelle controverse in regime di comunione legale, e la venditrice P.M.C., per essere manlevato in caso di soccombenza.

Ha contestando le pretese degli attorii ed ha proposto domanda riconvenzionale di accertamento dell’usucapione ordinaria, sostenendo di poter unire il proprio possesso con quello della dante causa, risalente al 1988.

Si è costituita la P., instando per il rigetto della domanda principale.

Esaurita l’istruttoria, il tribunale, con sentenza n. 411/2011, ha ordinato al convenuto di rilasciare il bene illegittimamente detenuto, respingendo ogni altra domanda e regolando le spese.

La sentenza è stata confermata in appello.

Secondo il giudice distrettuale, non occorreva disporre la chiamata in causa del coniuge del S., non avendo gli attori contestato il titolo di acquisto del convenuto.

Ha posto in rilievo che l’appartenenza esclusiva della porzione controversa in capo a V.G. e O.B. trovava titolo nell’atto di vendita del 27 novembre 1989.

Il bene era stato assegnato al venditore P.G.F. con atto di divisione dell’asse ereditario di P.S., rogato in data 2.2.1988. A sua volta il S. aveva acquistato da P.M.C. il confinante stacco di terreno contraddistinto in catasto al fg. (OMISSIS), pervenuto alla venditrice con il medesimo atto di divisione, essendo ugualmente ricompreso nell’asse ereditario di P.S.. L’esistenza di una comunione ereditaria da cui traevano origine i beni acquistati dalle parti in causa, esonerava gli appellati dall’onere probatorio tipico dell’azione di rivendica.

La Corte di merito ha dichiarato inammissibile la domanda di usucapione speciale introdotta in appello, rilevando che il S. aveva chiesto in primo grado di dichiarare l’usucapione ordinaria senza allegare anche i presupposti applicativi dell’art. 1159 bis c.c.. Ha infine accolto l’appello incidentale dei coniugi V. e ha liquidato equitativamente il danno per la perdita dei frutti, pari ad Euro 2000,00.

La cassazione della sentenza è chiesta da S.V. con ricorso in quattro motivi, cui resistono con controricorso V.G. e O.B..

In prossimità dell’adunanza camerale il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 102 c.p.c., sostenendo che la domanda doveva esser proposta anche nei confronti del coniuge del ricorrente, avendo il S. acquistato l’immobile in comunione legale.

Il motivo è infondato.

A norma dell’art. 948 c.p.c. l’azione con cui, a qualsiasi titolo, si rivendica la proprietà va diretta unicamente nei confronti del possessore o il detentore, ossia verso chiunque sia in condizione di restituire il bene in caso di soccombenza (Cass. 17270/2015; Cass. 5335/2000).

Rispetto all’azione di rivendica, che tende all’attuazione di un mero obbligo giuridico di rilascio, non è configurabile l’ipotesi del litisconsorzio necessario neppure tra compossessori o co-detentori.

La domanda può esser proposta anche nei confronti di uno solo degli occupanti, avendo comunque l’effetto pratico di far escludere dal compossesso il convenuto, impregiudicato il diritto del rivendicante di agire separatamente verso gli altri, ove si oppongano all’esecuzione della sentenza (Cass. 1011/1962; Cass. 1590/1962; Cass. 4049/1974; Cass. 3108/1985; Cass. 1454/1994; Cass. 3108/2005; Cass. 24260/2018).

Anche in tal caso la pronuncia è – difatti – idonea a spiegare effetti nel rapporto con la parte evocata in giudizio (Cass. s.u. 2427/1992; Cass. 1044/1995; Cass. 13624/2004).

E’ esclusa la necessità di integrare il contraddittorio anche nel caso in cui il bene rivendicato possa risultare in capo a più soggetti poiché, ove non ne sia disposta la chiamata in giudizio, l’unica conseguenza è che la sentenza, facendo stato solo tra le parti del giudizio, non sarà opponibile ai terzi interessati rimasti estranei al giudizio, non potendo considerarsi “inutiliter data” (Cass. 3119/1975; Cass. 2048/1976; Cass. 1613/1987; Cass. 3875/1987; Cass. 2327/1990; Cass. 9851/1997; Cass. 8748/1997; Cass. 10739/2001; Cass. 6697/2002; Cass. 7295/2013).

2. Il secondo motivo denuncia la violazione degli artt. 948 e 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che nessuna attenuazione dell’onere della prova poteva invocarsi in virtù del fatto che i beni appartenevano originariamente ad un unico titolare, considerato che il titolo di proprietà degli attori risaliva al 27.11.1989, mentre quello del dante causa del ricorrente era datato 2.2.1988 e che il bene acquistato dal S. era stato posseduto dalla venditrice sin dalla data di divisione, senza che gli attori ne avessero rivendicato la proprietà. Era poi necessaria la prova della corrispondenza tra i beni menzionati nei titoli e quelli richiesti in rivendica, non potendo ritenersi sufficienti i dati catastali, avendo le mappe solo un valore probatorio sussidiario.

Il motivo è infondato.

La sentenza ha stabilito in fatto che il bene controverso ricadeva nell’asse ereditario di P.S..

Il complesso ereditario era stato diviso con atto del 2.2.1988, con attribuzione delle (OMISSIS) a P.G.F., dante causa dei coniugi V., e con assegnazione a P.M.C. della porzione successivamente alienata al S..

Il fatto che il bene appartenesse in origine ad un unico titolare senza che la proprietà di quest’ultimo fosse oggetto di contestazione – giustificava di per sé un’attenuazione dell’onere probatorio richiesto dall’art. 948 c.c., potendo i rivendicanti limitarsi a provare i successivi passaggi di proprietà fino al loro acquisto, essendo irrilevante che gli atti con cui le parti avevano acquistato le singole porzioni fossero l’uno anteriore rispetto all’altro.

Nel caso in cui il convenuto non contesti l’originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, l’onere probatorio a carico dell’attore si riduce alla prova del proprio titolo di acquisto e dell’appartenenza del bene medesimo al comune dante causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assume di avere iniziato a possedere e alla prova che quell’appartenenza non è stata interrotta da un possesso idoneo ad usucapire da parte del convenuto (Cass. 9303/2009; Cass. 22598/2010; Cass. 15539/2015; Cass. 694/2016).

Nessuna incidenza sull’onere probatorio poteva dunque derivare neppure dalla proposizione della riconvenzionale di usucapione, poiché l’acquisto a titolo originario si fondava sul presupposto che il possesso fosse stato esercitato in epoca successiva alla divisione dell’immobile e quindi in epoca successiva a quella in cui l’intero complesso faceva capo al comune dante causa.

Quanto all’identità tra il bene rivendicato e quello contemplato dai titoli, si è già detto che la pronuncia ha ricostruito i successivi passaggi dello stacco di terreno dall’originario titolare, sull’indiscusso presupposto della loro corrispondenza con quelli pervenuti alle parti. Il relativo accertamento è insindacabile in cassazione.

3. Il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c., e art. 1159 bis c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che la domanda di usucapione speciale era proponibile in appello, avendo la parte già proposto tempestivamente la domanda di usucapione ordinaria.

Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

La pronuncia – nel ritenere che la domanda di usucapione speciale non fosse proponibile in appello, è conforme all’insegnamento – cui si intende dare continuità – secondo cui l’usucapione speciale per la piccola proprietà rurale, disciplinata dall’art. 1159 bis c.c., richiede l’accertamento di un diritto che postula requisiti specifici, quali la classificazione rurale del fondo, l’annessione di un fabbricato, l’insistenza in un territorio classificato montano e un’attribuzione reddituale non superiore a determinati limiti stabiliti dalla legge.

Tale domanda non può ritenersi immanente in ogni domanda di usucapione ordinaria; ove proposta per la prima volta in appello, può reputarsi ammissibile se le condizioni costitutive del diritto siano state oggetto di specifiche allegazioni e prove già introdotte ritualmente in causa, dovendosene altrimenti dichiarare la tardività (Cass. 30251/2019; Cass. 7543/2011).

Come ha osservato la sentenza, mancava – nello specifico l’allegazione dei presupposti richiesti per l’acquisto per usucapione speciale, non essendo sufficienti l’indicazione del carattere rurale del fondo e i dati catastali risultanti dal rogito di acquisto, per cui correttamente la domanda ex art. 1159 bis c.c., formulata solo in appello, è stata dichiarata inammissibile.

4. Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 1226 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che la Corte abbia liquidato equitativamente il danno in carenza di prova dell’an, non potendo ritenersi che sulla sussistenza del pregiudizio si fosse formato il giudicato.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di precisare che “in caso di impugnazione parziale, l’acquiescenza alle parti non impugnate della sentenza si verifica soltanto quanto le diverse statuizioni, non essendo astrattamente connesse e collegate tra loro e concernendo questioni che potrebbero in astratto essere decise in separati giudizi, siano tra di loro indipendenti, in modo che l’una possa sussistere (e passare in giudicato) anche qualora venga meno l’altra, ma non anche se una singola statuizione costituisca una conseguenza dell’altra, cioè abbia per necessario presupposto la statuizione impugnata, ovvero ne costituisca essa stessa l’antecedente logico-giuridico (Cass. s.u. 3498/1976, Cass. 533/1979; Cass. 3461/1983; Cass. 9626/1994; Cass. 8276/1997).

Pertanto, tra l’accertamento della sussistenza del diritto e la sua quantificazione sussiste un legame indissolubile che, in caso di appello limitato alla contestazione del quantum (o delle modalità di calcolo), inibisce il formarsi di un giudicato interno sul primo o la configurabilità di una forma di acquiescenza (Cass. 19949/2015).

E’ anche insegnamento di questa Corte che, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’impugnazione motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione (Cass. 12202/2017; Cass. 2217/2016).

Sebbene, quindi, sulla sussistenza del danno non poteva considerarsi formato il giudicato, essendo stato proposto appello sul quantum del risarcimento, deve però escludersi che il giudice territoriale abbia omesso di accertare l’esistenza del danno nella sua oggettività.

Sia per l’accertamento dell’an, che per la quantificazione del risarcimento, la pronuncia ha valorizzato la natura del terreno, la sua produttività e la presenza di alberi da frutto quali elementi che in via presuntiva provavano l’esistenza di un pregiudizio risarcibile, data la pacifica impossibilità dei titolari di raccogliere i frutti nel periodo di occupazione illegittima, avendo ritenuto sussistenti tutti i presupposti per l’accoglimento della domanda.

Il passaggio argomentativo che ha valorizzato la mancata impugnazione della sentenza di primo grado anche con riferimento all’an della pretesa, appare svolta in via solo incidentale, non costituendo la reale ratio decidendi della pronuncia.

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio delle spese liquidate in dispositivo.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4100,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Seconda civile, il 18 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022

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