Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16214 del 28/06/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. II, 28/06/2017, (ud. 17/11/2016, dep.28/06/2017),  n. 16214

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 21932/12) proposto da:

AVV. D.L.U., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine della terza pagina del ricorso, dall’Avv.to Carlo

Spillare del foro di Vicenza ed elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’Avv.to Giorgio Gelera in Roma, via Germanico n. 107;

– ricorrente –

contro

C.I., e S.A., rappresentati e difesi

dall’Avv.to Francesco A. Beccara del foro di Trento, in virtù di

procura speciale apposta a margine del controricorso, e domiciliati

presso la cancelleria della Corte di Cassazione in Roma, piazza

Cavour n. 1;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trento n. 150 depositata

il 29 giugno 2011;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 17

novembre 2016 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito l’Avv.to Giorgio Gelera (con delega dell’Avv. Carlo Spillare),

per parte ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 6/8 marzo 2007 C.I. ed S.A. evocavano, dinanzi al Tribunale di Trento – Sezione distaccata di Cavalese, l’Avv. D.L.U. deducendo che il professionista li aveva assistiti in una causa civile di risarcimento dei danni per un sinistro stradale fra il 1998 ed il 2003, pretendendo illegittimamente la complessiva somma di Euro 166.628,68, di cui solo Euro 84.098,97 erano stati fatturati, mentre il restante importo di Euro 82.529,71, peraltro trattenuti dal legale al momento della liquidazione dei danni, non era stato neanche contabilizzato; chiedevano la restituzione di quest’ultima somma indebitamente trattenuta dal convenuto.

Instaurato il contraddittorio, resisteva il convenuto eccependo preliminarmente la incompetenza per territorio del giudice adito per essere competente il Tribunale di Vicenza in relazione a tutti i criteri di collegamenti previsti dal codice di rito, nonchè la prescrizione della pretesa attorea per essere la richiesta di rimborso intervenuta trascorso un tempo superiore a cinque anni rispetto alla data dell’ultimo pagamento; nel merito, assumeva essere intervenuta fra le parti una pattuizione per il riconoscimento al legale di un palmario nella misura del 20% di quanto liquidato a titolo di danni, somma congrua in relazione alla complessità del procedimento trattato e svolgeva domanda riconvenzionale per ottenere il pagamento del residuo importo.

Il giudice adito, espletata istruttoria, in accoglimento della domanda attorea, condannava il convenuto alla restituzione di Euro 67.035,99, oltre alle spese processuali.

In virtù di rituale appello interposto dall’Avv.to D.L., la Corte di appello di Trento, nella resistenza degli appellati, respingeva il gravame e per l’effetto confermava la decisione del giudice di primo grado.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava, quanto alla competenza territoriale, che il giudice competente andava individuato – come correttamente rilevato dal giudice di prime cure – nel Tribunale di Trento quale forum destinatae solutionis, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., trattandosi di obbligazione restitutoria da eseguirsi presso il domicilio del creditore, come previsto dall’art. 1182 c.c., comma 3, avendo la domanda restitutoria ad oggetto una somma determinata e comunque quantificabile in base a meri calcoli.

Relativamente alla eccezione di prescrizione rilevava che dovendo qualificarsi la domanda di ripetizione di indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., trovava applicazione la prescrizione ordinaria decennale, che cominciava a decorrere dal luglio 2003, data accertata di cessazione della prestazione professionale, stante il carattere unitario della stessa, con conseguente infondatezza della censura.

Nel merito, osservava che dalle testimonianze assunte e dalle dichiarazioni rese dal professionista in sede di interrogatorio formale, risultava che gli appellati avevano corrisposto la complessiva somma di Euro 151.134,96, emesse fatture per soli Euro 84.098,97; di converso, non aveva trovato alcun riscontro probatorio l’assunto dell’appellante di un accordo con i clienti per la determinazione del compenso nella misura pretesa, non attribuito valore in tal senso ai versamenti effettuati dagli appellati, piuttosto riconducibile all’esigenza di non incorrere nel rischio di pregiudicare l’efficacia della prestazione professionale. Del resto erano andati dello stesso avviso anche i competenti organismi professionali pervenendo all’irrogazione di una sanzione disciplinare nei confronti del professionista. Nè era configurabile il diritto di trattenere l’intero importo in forza dell’asserita pattuizione di un c.d. palmario, in mancanza di prova, tanto meno scritta. dell’accordo. D’altro canto la valorizzazione delle dichiarazioni degli appellanti in sede di interrogatorio formale e davanti agli organismi investiti del procedimento disciplinare del professionista costituivano al più prova di un patto di quota lite, vietato dalla legge.

Nel merito, non trovava accoglimento neanche la tesi dell’appellante secondo cui nella specie sussistevano i presupposti per l’applicazione della norma di raddoppio degli onorati massimi, trattandosi di controversia che poteva risultare di una certa complessità solo per la ricostruzione dei fatti; proseguiva che il versamento dell’importo di Euro 84.098,87 fatturato doveva ritenersi comprensivo anche del patrocinio prestato dal professionista nel procedimento instaurato davanti alla Corte di appello di Trento a seguito del gravame proposto dalla controparte, con conseguente rigetto della riconvenzionale spiegata.

Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Trento ha proposto ricorso per cassazione il medesimo professionista, sulla base di sei motivi, cui hanno replicato gli intimati con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1182 c.c. e art. 20 c.p.c., oltre a vizio di motivazione, per avere erroneamente la corte di merito determinato la competenza del foro di Trento attribuendo natura di credito liquido ed esigibile ad un credito che fino alla sentenza tale non era, in quanto dovevano essere compiuti accertamenti per la sua quantificazione. Ragione per la quale – ad avviso del ricorrente – doveva trovare applicazione l’art. 1182 c.c., comma 4, che individua il foro competente nel domicilio che ha il debitore al tempo della scadenza dell’obbligazione.

Il primo mezzo, con il quale è dedotta la violazione degli artt. 1182 e 20 c.p.c., non può essere accolto, perchè le conclusioni alle quali la Corte territoriale è pervenuta sono conformi a diritto.

Si impone, peraltro, una integrazione della motivazione della sentenza impugnata, sollecitata dalle considerazioni svolte in ricorso in merito alla nozione di credito liquido ed esigibile.

Il Collegio condivide e fa propri i principi di diritto recentemente affermati da questa Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 17989 del 2016 con la quale, esaminati i diversi orientamenti espressi in merito al concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell’art. 1182 c.p.c., comma 3, ha ritenuto di dovere risolvere il contrasto confermando l’orientamento tradizionale – osservando preliminarmente che il contrasto riguardava non già la necessità del requisito della liquidità dell’obbligazione pecuniaria per essere adempiuta al domicilio del creditore, ma piuttosto il modo di intendere tale requisito – secondo cui sono tali (agli effetti sia della mora “ex re” sia del “forum destinatae solutionis”) esclusivamente quelle liquide, delle quali cioè il titolo determini l’ammontare o indichi criteri determinativi non discrezionali, precisandosi che la liquidità sussiste anche nel caso in cui l’ammontare del credito può essere determinato con un semplice calcolo aritmetico e senza indagini od operazioni ulteriori (già Cass. n. 22326 del 2007).

In altri termini, rientrano nella previsione di cui all’art. 1182 c.c., comma 3, esclusivamente le obbligazioni pecuniarie liquide, il cui ammontare, cioè, sia determinato direttamente dal titolo ovvero possa essere determinato in base ad esso con un semplice calcolo aritmetico. Dovendo, inoltre, la liquidità del credito essere effettiva, per cui il principio che la competenza va determinata in base alla domanda non può essere esteso sino al punto di consentire all’attore di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di allegare fatti privi di riscontro probatorio; ovviamente tali fatti sono accertati dal giudice, ai soli fini della competenza, allo stato degli atti secondo la regola di cui all’art. 38 c.p.c., u.c..

Ciò posto, le ragioni per le quali la sentenza impugnata ha dichiarato la competenza del giudice di Trento non contrastano in alcun modo con i principi di diritto sopra sintetizzati, che il Collegio intende ribadire. La Corte territoriale, infatti, non ha affermato che il “forum destinatae solutionis” si fondava sull’oggetto della domanda determinata dagli attori nel quantum, bensì, valutate sommariamente le risultanze istruttorie, ha ritenuto che la pretesa creditoria di C. e S. era in ogni caso quantificabile in base a meri calcoli matematici tenuto conto delle somme riscosse dal convenuto (v. pag. 10 della sentenza impugnata).

In sostanza il giudice di appello, valutate le allegazioni delle parti e il materiale probatorio acquisito, ha ritenuto di dovere escludere la illiquidità dell’obbligazione pecuniaria ed ha anche accennato ad un possibile mero calcolo per la quantificazione.

Orbene, il motivo – lamentando la violazione di legge, oltre al vizio di motivazione – ha la finalità di censurare proprio detto accertamento di fatto, poichè il ricorso si risolve in una inammissibile critica del ragionamento decisorio seguito dalla Corte territoriale al quale contrappone una diversa lettura delle risultanze processuali.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2947, 2033 e 2043 c.c. quanto al termine decennale di prescrizione ritenuto applicabile, senza tenere in alcun conto che la qualificazione del rapporto atteneva ad una condotta dell’accipiens qualificata come dolosa, per cui non troverebbe applicazione l’art. 2033 c.c. ai fini della prescrizione, ma piuttosto l’art. 2043 c.c., con conseguente quinquennalità della prescrizione. Il professionista ribadisce che il termine di decorrenza risalirebbe al 13.7.2001, data dell’ultimo pagamento, per cui la prima richiesta di restituzione, intervenuta con lettera del 25.7.2006, proveniente dalla sola C., sarebbe avvenuta fuori termine massimo di dodici giorni.

Anche il secondo mezzo non può trovare ingresso.

Gli attori hanno agito in giudizio per esercitare un’azione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., come ritenuto dai giudici del merito, non già per far valere un diritto al risarcimento del danno da illecito penale, peraltro deduzione della commissione del reato di estorsione prospettata per la prima volta in sede di legittimità. Infatti la corte d’appello ha giudicato sulla domanda attorea di restituzione e stabilire quale fosse la qualificazione giuridica del diritto azionato e quale ne fosse la fonte è compito riservato al giudice di merito, il quale nell’assolverlo non è vincolato alle qualificazioni date dalle parti ai loro atti.

La fattispecie – tutta incentrata sulla oggettività dell’indebito, e non sull’illiceità della condotta del professionista – esula pertanto dal disposto e dagli effetti dell’art. 2043 c.c..

Quanto, poi, all’esatta individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione decennale, si ritiene di dover condividere quanto osservato dalla corte di appello (sent. pag.11), secondo cui solo con il definitivo venir meno del rapporto con il professionista per cessazione della prestazione si è concretizzato il ricorso di tutti gli elementi costitutivi dell’indebito e, dunque, del credito di restituzione dedotto in giudizio, poichè solo da questo momento è divenuto attuale l’interesse delle parti alla restituzione della somma indebitamente percepita, e certo il loro diritto.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1427 e 1428 c.c., oltre a vizio di motivazione, quanto alla ritenuta inesistenza di un accordo tra le parti in ordine ai pagamenti effettuati dai resistenti, in mancanza di una eccezione della controparte di un vizio del consenso. In altri termini, la sentenza impugnata avrebbe suffragato il proprio convincimento della inesistenza di prove su un argomento basato su ingiustificate presunzioni.

Parimenti è infondato il terzo mezzo.

In materia di indebito oggettivo questa Corte ha enunciato i principi per cui l’attore che chieda la restituzione di somme versate è tenuto a provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, gli elementi costitutivi della domanda quindi non solo la consegna, ma anche il titolo della stessa, dal quale derivi l’obbligo della reclamata restituzione, nel senso che, in primo luogo, la prova rigorosa del titolo è richiesta solo quando l’attore ponga a fondamento della domanda di restituzione esclusivamente uno specifico e particolare contratto, senza formulare neppure in subordine domanda di accertamento del carattere ingiustificato del pagamento, o di ripetizione di indebito o di arricchimento senza causa, sì da porre contemporaneamente in questione il diritto della controparte di trattenere la somma ricevuta (Cass. 19 agosto 2003 n. 12119; Idem, 22 aprile 2010 n. 9541; Idem, 13 marzo 2013 n. 6295, fra le tante).

In secondo luogo, qualora la parte deduca in giudizio e dimostri l’avvenuto pagamento di una somma di denaro, il convenuto è tenuto ad allegare e a provare il titolo in forza del quale si ritiene a sua volta legittimato a trattenere la somma ricevuta, al fine di accertare se e fino a che punto la natura del rapporto e le circostanze del caso giustifichino che l’una delle parti trattenga senza causa il denaro indiscutibilmente ricevuto da altri.

Questi i principi di diritto applicabili alla fattispecie e correttamente richiamati nella decisione impugnata per avere la Corte di appello preteso la prova della pattuizione del diritto al c.d. palmario, di cui è stata esclusa la esistenza sia di un accordo scritto (circostanza pacifica) sia di una pattuizione verbale, non potendo dare rilievo in tal senso ai versamenti via via effettuati dai C. – S. al loro difensore. E d’altra parte il motivo di ricorso poggia su una premessa assertiva, e cioè, che gli odierni resistente abbiano “confessato” l’esistenza di un titolo che comportasse il diritto del difensore a trattenere la somma pretesa in citazione, che non trova riscontro nella decisione impugnata ed è, anzi, espressamente smentita dalla Corte di appello, laddove ha precisato che “alle dichiarazioni rese dagli appellanti in sede di interrogatorio formale e davanti agli organismi professionali investiti del procedimento disciplinare (…) il riferimento fatto dagli stessi alle richieste del legale di una percentuale del 10% (oppure del 20%) sul risarcimento del danno riguardava l’intero compenso spettante all’avv. D.L. e non poteva costituire quindi un palmario bensì evidentemente un patto di quote lite”.

Ciò posto e precisato che l’apprezzamento dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio è soggetto al libero apprezzamento del giudice del merito, si osserva che – escluso, nella specie, il carattere confessorio delle riferite dichiarazioni, se non altro perchè non vi è stata conferma da parte degli interrogandi del titolo (pattuizione del c.d. palmario) posto a fondamento delle difese dell’accipiens – la doppia decisione conforme ha fatto corretta applicazione del principio dell’onere probatorio, giacchè l’indicazione delle (diverse) circostanze allegate non esimeva il convenuto dall’onere di fornire la prova dei propri assunti nei termini innanzi precisati, segnatamente in ordine alla (assenza di) causale della corresponsione di un maggiore compenso in denaro, indiscutibilmente ricevuto, che l’una delle parti trattenga.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., oltre a vizio di motivazione, per avere la corte territoriale escluso la prova di un accordo verbale intercorso tra le parti, accordo che in ogni caso sarebbe da ritenere nullo per difetto di forma, senza tenere conto che in epoca anteriore all’anno 2006, l’art. 2233 c.c. non esigeva la forma scritta per i patti stipulati dagli avvocati con i loro clienti.

La censura è inammissibile, prima che infondata.

La Corte territoriale, nella sentenza impugnata, per un verso sostiene che nessun rilievo poteva attribuirsi al dedotto versamento spontaneo operato dai resistenti e, per altro verso, asserisce che l’accordo tra il professionista ed i suoi clienti poteva qualificarsi piuttosto quale “patto di quota lite” anzichè quale palmario, evidenziando, al riguardo, le risultanze della testimonianza assunta in primo grado (nella persona di Ca.Gi., all’epoca dipendente del professionista), il quale si era limitato a riferire dell’accordo intervenuto tra le parti riportando quanto appreso dallo stesso avvocato, non essendo stato presente al momento del conferimento dell’incarico. L’argomentazione ulteriore relativa alla necessità di un accordo scritto per il riconoscimento del palmario (“un accordo verbale… sarebbe nullo per vizio formale”) costituisce all’evidenza una statuizione impropria della sentenza, adottata “ad abundantiam”, che deve ritenersi “tamquam non esset”, in quanto priva di efficacia nei confronti delle parti che non hanno l’onere, nè hanno interesse ad impugnarla siccome ininfluente ai fini della decisione (v. Cass. n. 22380 del 2014 e Cass. n. 13068 del 2007).

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione in relazione alla congruità del compenso professionale spettante, non avendo il giudice del merito valutato correttamente la complessità della controversia, in particolare l’accertamento della responsabilità del mezzo che aveva investito la C., conclusosi il procedimento penale con l’archiviazione dell’azione nei confronti del conducente dell’autobus.

La censura è priva di pregio.

L’ammontare del compenso determinato dalla corte distrettuale sulla base della tariffa, si sottrae a censura, in quanto riservato al giudice del merito l’apprezzamento circa la particolare consistenza dell’attività professionale svolta dal ricorrente.

La corte distrettuale ha rilevato, al riguardo, in aggiunta a quanto ritenuto dal giudice di prime cure (pretesa di una somma tre volte superiore a quanto liquidato nel giudizio a quo), che non sussistevano i presupposti per l’applicazione della norma che consente il raddoppio degli onorari massimi – in concreto percepiti – non trattandosi di vicenda che presentava problematiche giuridiche di particolare importanza, riguardando un’azione risarcitoria per un sinistro stradale. Orbene il ricorrente ha mancato di rappresentare circostanze che consentissero di individuare profili di particolare complessità nell’attività da lui prestata e tale asserzione non è smentita da risultanze di segno opposto. A tal fine non assumono infatti rilievo allegazioni di contenuto generico della parte.

E’ qui appena il caso di rilevare che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte (per tutte: Cass. 18 marzo 2011 n. 6288).

Con il sesto motivo il ricorrente nel dedurre il vizio di motivazione, lamenta che il giudice distrettuale con riguardo alla domanda riconvenzionale sulla spettanza del residuo credito, abbia ritenuto esaustivo il pagamento effettuato dai debitori ancora prima della introduzione del giudizio di appello e dunque con argomentazioni illogiche.

Anche detta doglianza involge un riesame degli accertamenti di merito del giudice distrettuale e come tale è inammissibile.

Infatti la corte di appello ha ritenuto che la somma di Euro 84.098,97, pacificamente corrisposta per compensare l’attività professionale del ricorrente rispetto all’incarico conferito, sebbene definita in anticipo rispetto alla fase impugnatoria introdotta avanti alla Corte di appello, era satisfattiva di entrambi i gradi, in quanto oltre ad essere conforme alla tariffa professionale, rappresenta il doppio di quanto liquidato in favore dei resistenti dai giudici del giudizio presupposto.

A tali argomenti del giudice di appello, il ricorrente non ha opposto che il generico rilievo di vizio di illogicità, inidoneo ad evidenziare la non coerenza del predetto giudizio alla legge professionale, limitandosi, in realtà, il ricorrente a ripercorrere la valutazione di merito ed a contrapporre ad essa la propria diversa valutazione.

In definitiva, il ricorso deve essere rigettato.

La regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità segue la soccombenza.

PQM

 

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie e degli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 2 Sezione Civile, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA