Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16201 del 10/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 10/06/2021, (ud. 04/11/2020, dep. 10/06/2021), n.16201

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI M. Marcello – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11714/2014 R.G. proposto da:

B.F., in proprio e in qualità di socia della società

Martina s.a.s. di A.M., con il prof. avv. Augusto

Fantozzi e l’avv. Lucia Montecamozzo, con domicilio eletto presso lo

studio del primo in Roma, Via Sicilia n. 66;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, ed ivi domiciliata in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Lombardia – Milano n. 124/13/13, pronunciata il 16 ottobre 2013 e

depositata il 22 novembre 2013, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04 novembre

2020 dal Co: Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1. La ricorrente è socia, unitamente ad altri tre soggetti, della società Martina s.a.s di A.M.. La società veniva attinta da un avviso di accertamento di rideterminazione dei redditi della società per il periodo (OMISSIS). A detto avviso, che veniva notificato ai quattro soci in data (OMISSIS), facevano seguito altri quattro avvisi notificati ai quattro soci individualmente (e all’odierna ricorrente in data (OMISSIS)) e con cui venivano attribuiti pro quota i maggiori redditi di partecipazione, con conseguente ripresa a tassazione a titolo di IRPEF e addizionali.

Le pretese impositive traevano origine da un procedimento penale che vedeva coinvolte molteplici società, tutte appartenenti al gruppo Mythos ivi compresa la società Martina s.a.s., e che si fondava su un complesso meccanismo di operazioni societarie tese all’evasione fiscale.

2. La ricorrente impugnava così l’avvio di accertamento con cui erano stati rideterminati i maggiori redditi in capo alla società e quello successivo con cui era stato rideterminato il suo maggior reddito pro quota, svolgendo cinque motivi di ricorso. In particolare la contribuente lamentava, con il primo motivo, l’illegittimità/nullità dell’avviso di accertamento per aver la società Martina aderito alla sanatoria prevista dalla L. n. 289 DEL 2012. All’Amministrazione finanziaria era quindi preclusa la verifica dei maggiori redditi in capo alla società. Contestava inoltre il disegno criminoso così come prospettato dall’Ufficio.

2.1. Con il secondo motivo la ricorrente deduceva l’illegittimità/nullità dell’avviso di accertamento per decadenza dei termini per l’accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in relazione al periodo d’imposta 2001, osservando che i reati contestati che generavano il raddoppio dei termini riguardavano i periodi d’imposta 2002 e 2003. Deduceva inoltre che la sanzione applicata non poteva essere applicata in via retroattiva.

2.2. Con il terzo motivo la contribuente censurava l’avviso di accertamento per difetto di motivazione sia perchè la pretesa era fondata sulle risultanze di procedimenti penali riguardanti però soggetti terzi, oltre che non allegate agli atti impositivi, sia perchè l’avviso era fondato su un provvedimento di rigetto del condono fiscale mai notificato alla società.

2.3. Il quarto motivo era poi fondato sull’illegittimità della pretesa impositiva, tenuto conto che le operazioni contestate avevano il solo scopo di ripartire il patrimonio tra i vari componenti della famiglia M..

2.4. Con il quinto motivo venivano poi contestate le sanzioni irrogate per errore incolpevole sul fatto e/o per le obiettive condizioni di incertezza delle norme applicabili.

3. Si costituiva l’Amministrazione finanziaria, che replicava sia in ordine al rispetto dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, sia evidenziando il perfezionamento della notifica eseguita presso la società Acea s.r.l., quale società incorporante, con la precisazione che la notifica era avvenuta mediante affissione alla casa comunale di Milano ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Evidenziava la correttezza del rigetto del condono in ragione di quanto esposto nell’avviso di accertamento notificato alla società Martina ossia che le operazioni poste in essere nel 2001 erano state programmate al fine di poter poi aderire al condono, di talchè la definizione L. n. 289 del 2002, ex art. 7, costituiva sostanzialmente un atto preordinato al perseguimento di uno scopo in frode alla legge. Ribadiva poi la correttezza del proprio operato e la legittimità degli avvisi impugnati, congruamente motivati in ragione del meccanismo fraudolento posto in essere dalla società Martina s.a.s. e dal gruppo Mythos.

4. La CTP, riuniti gli otto giudizi promossi (ciascun socio aveva promosso due ricorsi, impugnando l’avviso oggetto di notifica individuale e quello notificato quale socio della società Martina s.a.s.), li respingeva argomentando che, a fronte della ricostruzione dei passaggi societari rappresentati dall’Ufficio, i ricorrenti nulla avevano concretamente opposto se non la necessità di riorganizzare il gruppo. Confermava poi l’assunto secondo cui l’adesione al condono costituiva il tassello finale di un percorso finalizzato all’elusione fiscale, aderendo altresì alla tesi erariale secondo cui il raddoppio del termine per l’attività accertativa avrebbe operato per effetto del mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia alla Procura della Repubblica, indipendentemente dal fatto di avervi effettivamente provveduto.

5. La contribuente instaurava così due giudizi di appello, l’uno in proprio e l’altro in qualità di socia della società Martina, ove faceva valere le medesime censure. Ribadiva quindi l’impossibilità di riconoscere, nel caso di specie, un disegno criminoso unitario tenuto conto che esso presupponeva una unitarietà originaria, intesa come consapevolezza, alla data di inizio del presunto disegno criminoso, di potersi avvalere della norma di condono. Segnatamente, ne contestava l’impossibilità tenuto conto che nel 2001 (periodo di inizio della condotta fraudolenta) i contribuenti non potevano avere certezza dell’approvazione, l’anno successivo, della disciplina sul condono (L. n. 289 del 2002). Contestava poi la decisione di primo grado nella parte in cui aveva accolto il teorema accusatorio sostenuto dall’ufficio e basato sull’istituto della continuazione del reato ex art. 81 c.p., rappresentando come detta disposizione rilevasse in sede di mera applicazione della pena (ridotta) in ipotesi di accertamento di alcuni presupposti. Circa il raddoppio dei termini dell’attività accertativa richiamava i principi dettati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247/2011 e, in particolare, l’obbligo per l’Ufficio di indicare con sicurezza gli elementi del reato e non anche profili di mero sospetto. Ribadiva poi la nullità degli atti impositivi per la mancata allegazione degli atti, afferenti le indagini penali ivi richiamati ma non conosciuti dalla contribuente in quanto relativi a soggetti terzi, e del provvedimento di rigetto del condono perfezionato dalla società Martina s.a.s.

6. Si costituiva l’Ufficio rinnovando le difese già svolte in primo grado. La CTR respingeva i gravami proposti dall’appellante statuendo che: a) l’eccezione inerente la mancata notifica del diniego di condono doveva essere rigettata tenuto conto che poteva ritenersi bastevole la notifica perfezionata nei confronti della società che, sola, aveva chiesto l’applicazione della disciplina dettata dalla L. n. 289/2002. Circa il raddoppio dei termini, evidenziava come la Corte costituzionale avesse unicamente previsto l’onere a carico dell’Ufficio, di indicare gli elementi indicativi del reato, indipendentemente sia dalla proposizione di una formale denuncia sia dall’effettivo esercizio dell’azione penale. Precisava che se era pacifico l’onere a carico dell’Amministrazione finanziaria di indicare gli elementi di reato – onde consentire al giudice tributario di accertare di non aver fruito ingiustamente di un più ampio termine di accertamento – era altrettanto pacifico che l’Ufficio non era tenuto a provare la commissione del reato. Nel caso di specie, peraltro, la CTR riteneva adempiuto l’obbligo di indicare gli elementi del reato mediante la ricostruzione di tutti i passaggi societari. Di contro alcuna prova contraria era invece stata fornita dagli appellanti, che si erano limitati a fornire delle giustificazioni non documentate afferenti una pretesa ristrutturazione societaria, non considerando che lo scopo unitario rivolto all’evasione trovava la sua dimostrazione anche nelle condotte caotiche ed ingiustificate degli attori del disegno criminoso.

7. Ricorre per cassazione la parte contribuente con quattro motivi di doglianza, cui resiste l’Avvocatura con tempestivo controricorso.

In prossimità dell’udienza la parte privata ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

0. Preliminarmente vien dato atto che vengono decisi da questo collegio all’odierna adunanza altri ricorsi collegati al presente perchè relativi alla medesima sentenza, promossi dagli altri soci e, specificamente r.g.n. 11715/2014; n. 11716/2014; n. 11717/2014.

1. Con il primo motivo di ricorso la privata ricorrente lamenta la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla nullità degli avvisi di accertamento per intervenuta adesione da parte della società a una delle sanatorie previste dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 4). In particolare la contribuente censura l’omessa pronuncia sul motivo di ricorso avente ad oggetto la pretesa nullità degli avvisi di accertamento per non essersi la CTR pronunciata sull’eccepita illegittimità del provvedimento di rigetto della definizione automatica dei redditi da parte della società con conseguente illegittimità dell’avviso di accertamento. Così operando, infatti, l’Amministrazione finanziaria avrebbe sottoposto a verifica dei periodi d’imposta coperti da condono. Afferma, in particolare, che l’Ufficio avrebbe illegittimamente rigettato il condono fiscale al fine di eseguire un’attività accertativa preclusa per legge. Il rigetto sarebbe illegittimo perchè: a) nel 2001 la società non poteva avere contezza dell’approvazione di una legge che sarebbe stata approvata l’anno successivo (2002); b) di tal via non sarebbe ravvisabile alcun unitario disegno criminoso.

Il motivo è infondato.

1.2 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, denunciabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo invece necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto. Ciò non si verifica, ad esempio, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (v., Cass., n. 20311/2011).

Condivisibile la difesa erariale laddove eccepisce l’infondatezza del motivo in ragione del rigetto dell’eccezione afferente la mancata notifica del diniego di condono all’appellante. E’ vero infatti che il rigetto dell’eccezione inerente l’omessa notifica del diniego alla contribuente – in ragione della sufficiente notifica alla società presuppone a monte il rigetto del motivo di ricorso inerente la pretesa illegittimità del diniego di condono ai sensi della L. n. 289 del 2002, essendo lo scrutinio sulla legittimità della notifica logicamente consequenziale a quello condotto sull’atto da notificare (rectius: il diniego di condono). La statuizione sulla correttezza della notifica del provvedimento di diniego è infatti incompatibile con l’omessa pronuncia sul motivo di ricorso inerente la sua illegittimità, che deve invece ritenersi implicitamente rigettato.

1.3. Parimenti infondate sono le deduzioni della contribuente nella parte in cui ha contestato l’illegittimità del diniego di condono. Richiamando, infatti, quanto detto supra in ordine al rigetto implicito del motivo di ricorso, giova osservare come la CTR abbia implicitamente rigettato (anche) tale motivo di censura. Il giudice d’appello ha infatti stigmatizzato la condotta della ricorrente che, abdicando al suo onus probandi, si è di fatto limitata a “giustificare” malamente le ragioni sottese alle complesse operazioni commerciali condotte. A fronte, invero, dell’adempiuto onere probatorio da parte dell’Ufficio, che aveva dettagliatamente ricostruito tutti i passaggi societari sintomatici e indicativi di un complesso disegno criminoso, la ricorrente non aveva offerto alcuna valida ragione economica “contraria” – e di cui peraltro non v’è traccia nemmeno nel ricorso promosso avanti a questa Corte – e da cui potesse desumersi l’illogicità dell’operato condotto dall’Ufficio.

In ogni caso, questa Corte è già intervenuta sulla rilevanza del diniego di condono della società, avuto riguardo all’autonomia della posizione dei soci che non hanno condonato (cfr. Cass. V, n. 23168/2017; Cass. VI – 5, n. 15076/2020).

1.4. A margine, poi, la circostanza che il disegno criminoso, posto in essere dalla contribuente e dagli altri tre soci e confermato anche dalle pronunce di condanna del Giudice penale, non può essere posto in discussione dall’approvazione della L. n. 289 sul finire dell’anno 2002.

Il motivo di ricorso è dunque infondato.

2. Con il secondo motivo di doglianza la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, dell’art. 157 c.p. e dell’art. 331 c.p.p. per aver statuito la legittimità del raddoppio dei termini dell’attività accertativa in assenza dei requisiti per l’inoltro della notitia criminis per prescrizione del reato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Afferma la contribuente che la CTR avrebbe errato nel rigettare il motivo di appello volto a lamentare l’indebito esercizio del potere accertativo da parte dell’Ufficio, tenuto conto che esso era stato esercitato favorendo del raddoppio dei termini – che presuppone almeno l’esistenza di una fattispecie penale – ma a fronte di un reato medio tempore prescritto. Infatti il reato astrattamente contestabile alla contribuente si era prescritto nel 2008, laddove gli avvisi di accertamento erano stati notificati a cavallo dei mesi di novembre e dicembre 2010. Pertanto, essendo intervenuta la prescrizione, difettava il presupposto del raddoppio dei termini con l’effetto di inficiare la legittimità degli avvisi di accertamento, notificati dopo la scadenza dei termini ordinari.

Il motivo è infondato.

2.1. In disparte il fatto che compete al giudice penale l’accertamento e la conseguente declaratoria di prescrizione del reato, è stato comunque osservato come sia irrilevante la sua prescrizione. Segnatamente, è stato affermato che il raddoppio dei termini non è escluso dalla configurabilità di una causa di estinzione del reato come la prescrizione, nè dalla intervenuta archiviazione della denuncia, non rilevando “nè l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, nè la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del regime doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario. Quest’ultimo, invero, comporta che l’esito, o anche solo le preclusioni del primo non possono avere rilevanza automatica e, quindi, condurre ad altrettante preclusioni sul secondo (Cass., V, n. 9974/2015; Cass., V, n. 16728/2016; Cass., V, n. 6668/2020: nonchè, con espresso riferimento all’ipotesi dell’eventuale prescrizione del reato, cfr. Cass. VI – 5, n. 9322/2017).

Inoltre il presupposto del c.d. raddoppio dei termini non trova la sua fonte nella notitia crimis effettuata all’Autorità giudiziaria penale, derivando esso dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p.. In altri termini, il raddoppio dei termini che legittima sia l’esercizio dell’attività accertativa, sia la notifica dei conseguenti avvisi di ricevimento, è indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (Cass. 30/05/2016, n. 11171). Pertanto, a fronte dell’avvenuta indicazione dei (soli) presupposti dell’obbligo di denuncia penale si verifica ex lege il raddoppio termini, senza che alcuna discrezionalità residui in capo all’Amministrazione.

2.2. Nel caso di specie, generatosi ex lege il raddoppio dei termini in ragione delle circostanze di fatto indicate dall’Ufficio negli avvisi impugnati ed accertata l’irrilevanza dell’intervenuta prescrizione del reato, l’attività di accertamento è stata condotta ed ultimata entro il termine dei dieci anni, legittimamente raddoppiato e poi rispettato.

Il motivo è pertanto infondato.

3. Con la terza doglianza la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, comma 3, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) per aver consentito il raddoppio dei termini dell’attività accertativa nonostante gli stessi fossero decorsi al momento della notifica degli avvisi di accertamento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente lamenta la violazione delle norme sul raddoppio dei termini dell’attività accertativa tenuto conto che al momento della notifica degli avvisi di accertamento erano già decorsi i termini ordinari per il suo compimento. Deduce, in particolare, che l’art. 43, nel testo novellato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, non concederebbe all’Ufficio un maggior termine per condurre l’attività accertativa, quanto – e solo – un maggior termine per la notifica dell’avviso di accertamento qualora siano acquisite informazioni su fatti astrattamente qualificabili come reati e comunque entro i termini ordinari. Peraltro, aggiunge la contribuente, in altri casi questa Corte avrebbe statuito il principio per cui la concessione di un più ampio termine può avvenire solo ove il termine originario non sia già decorso. Nel caso di specie, anche l’attività accertativa – oltre che la notifica degli avvisi di accertamento – sarebbe stata compiuta quando i termini ordinari erano già decorsi. Ricorda, infine, la natura non vincolante della pronuncia n. 247/2011 della Corte costituzionale

Il motivo è infondato.

3.1. Occorre premettere che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nel testo novellato dal D.L. n. 223 del 2006, non prevede l’ipotesi di una proroga dei termini (originari e) ordinari, di cui l’Amministrazione può disporre a sua discrezione. Al contrario, e come argomentato al motivo precedente, la disposizione in commento (e quindi il legislatore) ha introdotto un’ipotesi di raddoppio dei termini che opera automaticamente al verificarsi di alcune condizioni obiettive.

Ciò premesso, la norma non opera alcuna distinzione in punto di termini per il compimento dell’attività accertativa e notifica degli avvisi, limitandosi ad indicare i casi in cui quelli ordinari (di attività di accertamento e conseguente notifica) sono da intendersi ex lege raddoppiati.

3.2. La doglianza della contribuente non può trovare accoglimento neppure laddove stigmatizza la riapertura di termini già scaduti. Ed infatti, il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, non prevede una “riapertura di termini di accertamento già scaduti”, ma risolve solo un problema di successione di leggi nel tempo senza dettare una disciplina sostanziale ad hoc.

3.3. Sul punto, con decisione chiara e precisa cui questa Corte ritiene di aderire, si è pronunciata anche la Corte costituzionale con la decisione n. 247/2011 ove ha affermato che la norma in commento “si limita, infatti, a stabilire che “Le disposizioni di cui ai commi (…) 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i termini di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, e commi 1 e 2 (…)”. In tal modo non viene retroattivamente “riaperto” un termine già scaduto, ma viene solo escluso che il raddoppio dei termini si applichi alle violazioni tributarie per le quali, alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore” (Cfr. Corte costituzionale n. 247/2011). In tal senso cade pertanto anche ogni censura svolta dalla contribuente alla pronuncia della Corte costituzionale.

3.4. A latere poi l’inconferente richiamo alla sentenza n. 206/2012 di questa Corte, che si è pronunciata su una fattispecie avente ad oggetto i termini prescrizionali e decadenziali (ontologicamente diversi tra loro) per il rimborso delle imposte. A tale riguardo occorre invero precisare che con detta pronuncia questa Corte ha dettato dei principi in tema di “prolungamento” dell’unico e originario termine che giocoforza non deve ancora essere decorso, laddove nel caso di specie si verte in una ipotesi di “raddoppio” dei termini originari.

Il motivo è pertanto infondato.

4. Con il quarto e ultimo motivo di ricorso la ricorrente invoca la declaratoria di nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla tardività degli avvisi di accertamento per violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, che, in quanto norma di natura sanzionatoria, non potrebbe trovare applicazione retroattiva, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Lamenta la contribuente l’omessa pronuncia da parte della CTR sull’eccepita tardività degli avvisi di ricevimento in ragione della natura sanzionatoria del D.L. n. 223 del 2006, art. 37. La norma in commento, in ragione della sua natura sanzionatoria, dovrebbe poter disporre solo per i periodi d’imposta per i quali non erano scaduti i termini per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi, mentre dovrebbe esserle negata un’applicazione retroattiva, come invece parrebbe essere avvenuto nel caso di specie.

Il motivo è infondato.

4.1. Gli arresti giurisprudenziali richiamati in relazione al primo motivo di ricorso valgono a pieno titolo anche in relazione al presente motivo, giacchè il vizio di omessa pronuncia può dirsi sussistente solo ove manchi integralmente il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, non essendo invece necessaria una statuizione espressa su punto specifico. Ciò significa, come detto, che un rigetto implicito del motivo di ricorso, come tale incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, non integra il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Tanto premesso, occorre osservare che la CTR si è espressa in modo esauriente sul D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nel testo novellato dall’art. 37 del D.L. n. 223/2006 che prevedeva il raddoppio dei termini prima della più recente novella introdotta dal D.Lgs. n. 128 del 2015. Invero, richiamando espressamente la decisione n. 247/2011 citata, i giudici di appello hanno avvallato la correttezza dell’operato dell’Amministrazione finanziaria laddove ha considerato “raddoppiati” i termini di accertamento.

Rebus sic stantibus, la CTR ha implicitamente respinto le argomentazioni svolte dalla contribuente, avendo recepito il principio sancito dalla Corte costituzionale secondo cui il raddoppio dei termini non deriva dalla natura retroattiva della normativa censurata, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, “la legge non dispone che per l’avvenire” (art. 11 disp. prel. c.c., comma 1, prima parte; analogamente, la L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”). Sul punto la Corte costituzionale ha anche precisato che l’erroneità di tale presupposto è evidente ove si consideri quanto già osservato, ossia che i termini di accertamento non costituiscono una “proroga” di quelli ordinari, da disporsi a discrezione dell’amministrazione finanziaria procedente in presenza di “eventi peculiari ed eccezionali”, quanto un raddoppio che opera automaticamente ex lege.

4.2. Fermo quanto sopra, la censura svolta dalla contribuente è ad ogni modo infondata non potendo qualificarsi il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, come norma sanzionatoria.

Come statuito dal Giudice delle leggi con la succitata pronuncia, che questa Corte anche con recenti arresti ha dimostrati di avvallare, “il raddoppio dei termini di accertamento non può qualificarsi “sanzione penale”, neppure impropria o atipica. Esso infatti, da un lato, non rappresenta la reazione ad un illecito penale, perchè consegue non dall’accertamento della commissione di un reato, ma solo dall’insorgere dell’obbligo di denuncia dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, restando irrilevante il fatto che l’azione penale non sia iniziata o non sia proseguita o intervenga una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna; dall’altro, non costituisce una conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perchè non comporta nè un obbligo di prestazione nè l’emissione di un atto di accertamento. Il mero assoggettamento ad un termine più lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un piano meramente procedimentale, persegue solo l’evidenziato obiettivo di attribuire agli uffici tributari maggior tempo per accertare l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta, quando ciò sia giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., di violazioni gravi e di più difficile controllo” (Cfr. Corte Costituzionale n. 247/2011).

Il motivo è pertanto infondato.

Per quanto fin qui detto il ricorso va rigettato.

5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in Euro diecimila/00, oltre a spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA