Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16198 del 25/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 25/07/2011, (ud. 15/06/2011, dep. 25/07/2011), n.16198

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10670/2009 proposto da:

SCARPE & SCARPE S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso

lo studio dell’avvocato VESCI Gerardo, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato PACCHIANA PARRAVICINI AGOSTINO, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

F.V.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 104/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 09/02/2009 r.g.n. 1210/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2011 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato VESCI GERARDO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Torino, depositato in data 15.1.2007, F.V., premesso di aver lavorato alle dipendenze della “Scarpe & Scarpe s.p.a.” dal 18.12.1993 al 3.4.2007, da ultimo quale gerente del punto vendita sito presso l’iperstone GS di (OMISSIS), esponeva che con lettera in data 23.3.2007 la società datoriale gli aveva contestato di aver contravvenuto al divieto imposto a tutti i dipendenti di portare nella propria abitazione merce della società se non previo regolare acquisto della medesima, avendo ammesso al Capo Area P.E. – in sede di verifica in data 10.3.2007 – di aver posto in essere tale condotta e segnatamente di aver prelevato un giubbotto marca Gebel al fine di farlo provare alla propria moglie. Rilevava il ricorrente che, sebbene avesse ritualmente presentato le proprie giustificazioni, la società datoriale con nota in data 3.4.2007 gli aveva intimato il provvedimento disciplinare del “licenziamento per giusta causa”.

Ritenendo la illegittimità di tale provvedimento chiedeva che il giudice adito volesse dichiararne la nullità o illegittimità, con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 e con il favore delle spese.

Con sentenza in data 14.7 – 17.7.2008 il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello il F. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza in data 5.2 – 9.2.2009, in parziale accoglimento del gravame, annullava il licenziamento intimato al dipendente, ordinava alla società datoriale l’immediata reintegra dell’interessato nel posto di lavoro e condannava l’appellata alla corresponsione, a titolo di risarcimento del danno, di un’indennità pari alle retribuzioni globali dalla data del licenziamento sino all’effettiva reintegra, oltre rivalutazione ed interessi, nonchè al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per lo stesso periodo.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la “Scarpe &

Scarpe s.p.a.” con sette motivi di impugnazione.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Diritto

Col primo motivo di ricorso la società ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la contestazione effettuata nei confronti del F. non concernesse l’indebita appropriazione di merce aziendale, prevista nella declaratoria contrattuale di cui all’art. 221, comma 3, del CCNL di settore, bensì la consapevole contravvenzione alla regola aziendale che faceva divieto di portare merce nella propria abitazione se non previo acquisto della stessa, posta dalla circolare aziendale del 14.4.2004 e rientrante nell’ipotesi disciplinare di cui all’art. 212, commi 1 e 2, del predetto contratto collettivo; ciò in quanto, se pur la lettera di contestazione degli addebiti non qualificava espressamente il fatto contestato quale appropriazione indebita, di tale fattispecie ricorrevano tutti gli elementi costitutivi, coerentemente al principio di specificità della contestazione posto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, per come emergeva dal contenuto delle suddetta lettera e dalla successiva nota di irrogazione del provvedimento solutorio.

Col secondo motivo di ricorso la società lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In particolare rileva che la Corte territoriale aveva omesso di esplicitare il criterio discretivo fra la condotta di appropriazione indebita e la condotta del soggetto che porti nella sua abitazione della merce senza averla regolarmente acquistata.

Col terzo motivo di ricorso lamenta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 2119 c.c., e dell’art. 221 CCNL Terziario.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale, pur riconoscendo che il F. aveva violato il divieto di portare fuori dei locali aziendali un capo senza la preventiva emissione dello scontrino fiscale, aveva ritenuto – in violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale – che la fattispecie posta in essere non realizzasse una ipotesi di appropriazione del bene contemplata dall’art. 221, comma 3, CCNL; ed in particolare aveva valutato una serie di circostanze “attenuanti” al fine di negare la sussistenza dell’appropriazione. Rileva in particolare che gli elementi evidenziati dalla Corte di merito, se pur potevano avere rilevanza al fine di escludere il reato di appropriazione indebita per mancanza dell’elemento soggettivo, si appalesavano del tutto ininfluenti laddove la questione concerneva l’appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali ai meri fini civilistico – disciplinari, in cui rilevava non già l’esistenza del fatto reato bensì la realizzazione di un comportamento idoneo a compromettere in via definitiva il rapporto di fiducia che deve sussistere in relazione all’attività lavorativa.

Col quarto motivo di ricorso la società lamenta omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In particolare rileva che, con motivazione insufficiente e contraddittoria, la Corte territoriale, dopo aver correttamente posto in rilievo i doveri che il lavoratore era tenuto a rispettare in considerazione della posizione rivestita all’interno dell’organizzazione aziendale, aveva ritenuto che la mancanza pacificamente commessa dell’interessato non realizzasse nè l’ipotesi di appropriazione indebita di beni aziendali prevista dall’art. 221 CCNL nè l’ipotesi di grave violazione degli obblighi prevista dall’art. 212 del detto contratto, evidenziando una serie di circostanze “attenuanti” che non potevano avere rilevanza alcuna ai fini della configurabilità delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva siccome legittimanti il recesso per giusta causa da parte del datore di lavoro.

Col quinto, sesto e settimo motivo di ricorso la società lamenta omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

In particolare rileva che, con motivazione insufficiente e contraddittoria, la Corte territoriale aveva escluso, omettendo di valutare integralmente le dichiarazioni rese dai testi escussi, la configurabilità, nel fatto contestato al dipendente, dell’ipotesi di appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali; ed erroneamente aveva escluso, sulla base di una non corretta valutazione delle deposizioni testimoniali assunte, che il dipendente non avesse avuto intenzione di restituire la merce in questione, pervenendo quindi alla conclusione della non configurabilità nella condotta contestata dall’ipotesi di appropriazione prevista dall’art. 221 del CCNL. I suddetti motivi di ricorso, che il Collegio ritiene di dover trattare unitariamente essendo tra loro strettamente connessi, non sono fondati.

Ed invero, esaminando nell’ordine logico le diverse censure mosse dalla ricorrente all’impugnata sentenza, viene innanzi tutto in rilievo la questione relativa alla non corretta qualificazione, da parte della Corte territoriale, dei fatti contestati al F. quale grave violazione degli obblighi prevista dall’art. 212, commi 1 e 2, del CCNL anzichè quale appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali prevista dall’art. 221, comma 3, del suddetto contratto collettivo, nonchè l’assenza di motivazione in ordine al criterio discretivo fra le due ipotesi suddette.

Sul punto la Corte di merito, contrariamente a quanto rilevato dalla società ricorrente, ha fornito una motivazione assolutamente logica e coerente, del tutto rispondente al contenuto della lettera di contestazione, rilevando che a favore della tesi secondo cui la contestazione afferiva piuttosto ad una violazione di obblighi aziendali che ad un fatto di appropriazione indebita, deponevano “sia il complessivo tenore della lettera di addebiti, sia il fatto che in essa mai si valuta il comportamento del F. come impossessamento o appropriazione di merce non pagata, sia il fatto che nè nella lettera in questione nè in quella successiva di irrogazione del licenziamento per g.c. risulta richiamata la disposizione del CCNL che espressamente prevede il licenziamento per g.c. in caso di appropriazione sul luogo di lavoro di beni aziendali.

Posto ciò, è necessario innanzi tutto ricordare che, secondo un principio costituente diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte (v., fra le molte pronunce, Cass. sez. 1^, 24.6.2008 n. 17088;

Cass. sez. lav. 13.6.2008 n. 16036; Cass. sez. lav. 12.6.2008 n. 15795; Cass. sez. 1^, 22.2.2007, n. 4178), l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito ed è censurabile soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, qualora quella adottata sia contraria a logica e incongrua, tale, cioè, da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Il sindacato di questa Corte non può, dunque, investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito.

E pertanto non è ammissibile la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che, dedotta sotto il profilo della violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolva in realtà nella proposta di un’interpretazione diversa (Cass. sez. 2^, 3.11.2004 n. 21064; Cass. sez. lav., 9.8.2004 n. 15381; Cass. sez. lav., 23.7.2004 n. 13839;

Cass. sez. 3, 21.7.2004 n. 13579; Cass. sez. 3, 5.7.2004 n. 12289;

Cass. sez. 2, 30.5.2003 n. 8809; Cass. sez. 2, 20.5.2001 n. 7242;

Cass. sez. lav., 18.2.2000 n. 1886; Cass. sez. 1, 4.2.2000 n. 1225;

Cass. sez. lav., 29.1.2000 n. 1045).

Nè può ritenersi, al fine della configurabilità del vizio di motivazione atto a giustificare l’invocata cassazione della sentenza impugnata, che iter argomentativo presenti una mancanza di coerenza logica, e cioè sia connotato da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti prospettati.

Ed invero la Corte territoriale ha rilevato, con motivazione assolutamente logica e coerente, come la nota di contestazione non facesse in alcun modo riferimento all’ipotesi di appropriazione di beni aziendali prevista dall’art. 221 del CCNL, di talchè il recesso operato non poteva rientrare nella previsione della norma suddetta.

Nè appare conducente il rilievo secondo cui la Corte territoriale non aveva in alcun modo esplicitato il criterio discretivo esistente fra la appropriazione indebita e la consapevole violazione della regola aziendale che faceva divieto ai propri dipendenti di portare merce a casa se non previo regolare acquisto della medesima, trattandosi di nozioni di comune esperienza e conoscenza.

Ed invero la “appropriazione” di un bene, alla stregua del significato corrente della suddetta espressione, consiste nel “rendere proprio” il bene di cui si ha, ad altro titolo, il possesso o la detenzione, mediante una attività che evidenzi l’inversione del titolo del possesso e manifesti la volontà del soggetto di affermare un dominio sulla cosa medesima.

Pertanto la Corte di merito ha correttamente rilevato che la lettera di addebiti inoltrata al dipendente non faceva assolutamente riferimento a siffatta condotta di “appropriazione”, laddove il datore di lavoro avrebbe dovuto in tal caso espressamente contestare gli specifici elementi posti a fondamento dell’assunto secondo cui il dipendente avrebbe “fatto propria” la merce in questione attraverso l’interversione del titolo di possesso e la volontà di tenere illegittimamente per sè la merce, sebbene non fosse di sua proprietà.

Nulla di tutto ciò emerge dal contesto della contestazione, per cui il rilievo non può trovare accoglimento.

Nè possono condividersi le conclusioni che parte ricorrente ritiene di poter trarre dal corretto rilievo che l’approccio di carattere penalistico si appalesa non conducente in relazione ad una contestazione rilevante ai meri fini civilistico – disciplinari. Ciò non comporta, invero, che, sotto quest’ultimo profilo, il concetto di “impossessamento” di beni aziendali possa avere un significato diverso da quello posto dall’art. 646 c.p. a fondamento della relativa ipotesi sanzionatoria, ma richiede piuttosto che i fatti addebitati disciplinarmente, quand’anche possano avere rilevanza penale, debbono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro (e, prioritariamente, dell’elemento della fiducia) e – nel caso di impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente – devono essere suscettibili di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatici di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti (in tal senso, Cass. sez. lav., 17.4.2001 n. 5633).

In ordine all’ulteriore rilievo (sviluppato nel ultimi tre motivi di ricorso), concernente la non corretta valutazione degli esiti della prova testimoniale assunta da parte della Corte territoriale, che era pervenuta alla erronea conclusione che il F. avesse spontaneamente restituito la merce portata a casa al solo fine di consentire alla moglie di provarla, mentre per contro gli elementi raccolti indicavano che lo stesso non aveva intenzione di restituire il giubbotto, rileva il Collegio che trattasi di motivo che, concernendo la valutazione della prova assunta, involge in realtà la valutazione di specifiche questioni di fatto, non consentita in sede di giudizio di legittimità.

Devesi sul punto evidenziare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di dare adeguata contezza dell’iter logico – argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione. Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. sez. 1, 26.1.2007 n. 1754; Cass. sez. 1, 21.8.2006 n. 18214;

Cass. sez. lav., 20.4.2006 n. 9234; Cass. sez. trib., 1.7.2003 n. 10330; Cass. sez. lav., 9.3.2002 n. 3161; Cass. sez. 3, 15.4.2000 n. 4916).

E sul punto deve altresì ribadirsi l’indirizzo consolidato in base al quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive” (Cass. sez. lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez. lav., 15.4.2004 n. 7201;

Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933; Cass. sez. lav., 9.4.2001 n. 5231).

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità il quale deve limitarsi a verificare se siano stati dal ricorrente denunciati specificamente – ed esistano effettivamente – vizi (quali, nel caso di specie, la carente, insufficiente o contraddittoria motivazione) che, per quanto si è detto, siano deducibili in sede di legittimità.

Orbene nel caso di specie la Corte territoriale ha evidenziato che dalle dichiarazioni del Capo Area P. e della dipendente C., era emerso che quest’ultima era a conoscenza, sin dal giorno precedente alla verifica operata dal Capo Area, che il F. aveva portato a casa il giubbotto in questione per farlo provare alla moglie, rilevando come da tali acquisizioni probatorie risultasse confermata la circostanza che presso i locali aziendali ove l’interessato svolgeva la propria attività lavorativa fosse noto che lo stesso aveva prelevato un capo di abbigliamento per farlo “provare” alla propria moglie: circostanza che esclude la volontà di appropriarsi della merce in questione.

E pertanto, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza del proprio convincimento esplicitando l’iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto alla scelta ed alla valutazione delle risultanze probatorie poste a fondamento della propria decisione, resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità. Il vizio non può invero consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito, cui spetta in via esclusiva individuare le fonti del suo convincimento e a tal fine valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza.

In conclusione, il motivo si risolve in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta (secondo cui dalle testimonianze assunte non si ricaverebbe la prova che il F. avesse fornito la giustificazione suddetta prima di prelevare il giubbotto) al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

Va infine esaminato il rilievo, sviluppato nel quarto motivo del ricorso, secondo cui erroneamente la Corte territoriale, evidenziando una serie di circostanze “attenuanti” che non potevano in realtà avere rilevanza alcuna ai fini della configurabilità delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva siccome integranti il recesso per giusta causa, aveva ritenuto che la mancanza pacificamente commessa dell’interessato non realizzasse nè l’ipotesi di appropriazione indebita di beni aziendali prevista dall’art. 221 CCNL nè l’ipotesi di grave violazione degli obblighi prevista dall’art. 212 del detto contratto.

Il rilievo è manifestamente infondato ove si osservi che le suddette “attenuanti” sono state esaminate dalla Corte territoriale non già per escludere la rilevanza disciplinare dei fatti contestati, bensì per valutare la proporzionalità della sanzione irrogata in relazione ai fatti in questione.

Sul punto ritiene il Collegio di dover evidenziare che la L. n. 604 del 1966, art. 1 – con l’indicazione della nozione di “giusta causa” del licenziamento e del presupposto del carattere di “proporzionalità” tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta – rientra nell’ambito delle “norme elastiche”, cioè delle norme il cui contenuto, appunto, elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di un’opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione.

Orbene, questa Corte ha più volte ribadito che per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare; la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (in tal senso: Cass. sez. lav., 10.4.2008 n. 9425; Cass. sez. lav., 8.9.2006 n. 19270, e, con riferimento alla circostanza che ai fini della valutazione della gravità dell’addebito, da parte del giudice di merito, debba tenersi conto anche dell’elemento soggettivo: Cass. sez. lav., 19.8.2004 n. 16260;

Cass. 15.5.2004 n. 2999; Cass. sez. lav., 27.1.2004 n. 1475).

Dall’enunciato principio si evince che il giudice di merito – in considerazione del fatto che il licenziamento costituisce di certo per il lavoratore la più grave delle sanzioni in ragione dei suoi effetti – deve tenere conto della gravità della condotta addebitata al dipendente, da valutare non soltanto nella sua oggettività ma anche con riferimento all’elemento soggettivo che può assumere i connotati del dolo o della colpa, al fine di parametrare la singola sanzione al grado di illiceità della infrazione alla stregua del principio di proporzionalità, essendo possibile solo all’esito di tale iter conoscitivo decidere sulla configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento e quindi sulla legittimità o meno dello stesso; con la ulteriore precisazione, per come detto, che la statuizione sul punto operata dal giudice di merito, integrando un accertamento di fatto, si sottrae, ove correttamente e congruamente motivata, ad ogni valutazione in sede di giudizio di legittimità.

E nel caso di specie i giudici di merito hanno correttamente proceduto alla verifica della gravità dei fatti contestati al lavoratore, in relazione sia alla portata oggettiva che soggettiva, rilevando come le circostanze concrete della condotta posta in essere dal F., se pur questa fosse certamente contraria ad una precisa regola aziendale e concretasse una indubbia violazione degli obblighi prevista dall’art. 212, commi 1 e 2, evidenziavano la illegittimità del provvedimento solutorio adottato dalla società, appalesandosi tale provvedimento comunque sproporzionato rispetto alla entità ed alla portata dei comportamenti contestati.

Siffatto giudizio di non proporzionalità è stato, invero, sinteticamente ma compiutamente, evidenziato dai giudici di appello nell’assenza di qualsivoglia provvedimento disciplinare a carico del lavoratore nel corso degli oltre quattordici anni in cui aveva prestato la sua attività alle dipendenze della società predetta, oltre che nella condotta tenuta nel caso di specie (essendo emerso dalla compiuta istruttoria che già dal giorno precedente alla verifica del Capo Area era noto in azienda che il F. aveva prelevato un capo di abbigliamento per farlo “provare” alla propria moglie); e sono pervenuti alla consequenziale conclusione che la condotta posta in essere non assumeva una rilevanza tale da mettere in dubbio la futura correttezza dello stesso nell’adempimento dei propri obblighi contrattuali e da non consentire quindi, neanche provvisoriamente, la ulteriore prosecuzione del rapporto di lavoro.

Tanto basta per rigettare, siccome infondati, i motivi svolti dalla società datoriale nel ricorso proposto.

Lo stesso va pertanto rigettato.

Nessuna statuizione va adottata per quel che riguarda le spese relative al presente giudizio di cassazione, non avendo l’intimato svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2011

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