Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16189 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 09/06/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 09/06/2021), n.16189

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35777-2019 proposto da:

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE,

44, presso lo studio dell’Avvocato GIOVANNI CORBYONS, che lo

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato MATTEO SALVI;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO (OMISSIS) SRL IN LIQUIDAZIONE, FALLIMENTO (OMISSIS) SAS E

SOCIO ACCOMANDATARIO B.M., B.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1742/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 19/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 19/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIAIME

GUIZZI STEFANO.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

– che P.M. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1742/19, del 19 aprile 2019, della Corte di Appello di Milano, che – rigettando il gravame dallo stesso esperito contro la sentenza n. 10769/15, del 25 settembre 2015, del Tribunale di Milano – ha confermato l’avvenuta risoluzione, per inadempimento dell’odierno ricorrente, del contratto d’opera professionale concluso con la società (OMISSIS) S.r.l. in relazione alla direzione dei lavori dalla stessa appaltati, per l’adeguamento impiantistico dell’Hotel Metropole in Milano, alla società B.M. S.a.s. e al socio accomandatario B.M., condannando il P. a pagare alla curatela fallimentare della società (OMISSIS) la somma di Euro 88.792,64, a titolo di risarcimento del danno;

– che, in punto di fatto, il ricorrente riferisce che – all’esito di un procedimento per accertamento tecnico preventivo, ex art. 696 c.p.c., che pure aveva escluso ogni sua responsabilità in relazione all’esecuzione degli interventi suddetti – la società (OMISSIS) ebbe a convenirlo in giudizio, unitamente all’appaltatore dei lavori, per chiedere la risoluzione per inadempimento sia del contratto di appalto che di quello di prestazione d’opera professionale già conclusi con i convenuti, nonchè la condanna di entrambi al risarcirle i danni subiti;

– che espletata l’istruttoria anche attraverso lo svolgimento di una consulenza tecnica d’ufficio, il primo giudice – dopo che la causa, interrottasi per il fallimento della società B.M. e del socio accomandatario, era stata riassunta dall’attrice – accoglieva la domanda, dichiarando risolti ambo i contratti, ma condannando il P. a corrispondere la somma di Euro 88.792,64 (rigettandone la riconvenzionale volta al pagamento del residuo compenso dovuto per l’attività professionale), dichiarando, invece, che l’attrice non era debitrice di Euro 94.348,76, corrispondente al residuo corrispettivo delle opere eseguite, in quanto estinto in ragione del maggior credito risarcitorio vantato dall’attore;

– che esperito gravame dal solo P., il giudice di appello – a seguito di ulteriore riassunzione del processo, in ragione del sopravvenuto fallimento della società (OMISSIS) – rigettava lo stesso, provvedendo nei termini dianzi indicati;

– che a tele esito, tuttavia, esso perveniva – sottolinea il ricorrente – sulla base di una motivazione che dava atto dell’errore in cui era incorso il Tribunale, che aveva confuso il cd. “pre-collaudo” del 20 novembre 2007, a firma del geometra, con le operazioni di collaudo intervenute a partire dal maggio 2008, ribadendo però non esservi “prova liberatoria ex art. 1218 c.c. gravante sul professionista, circa l’avvenuto adempimento tempestivo alle sue obbligazioni qualificanti ed essenziali della direzione dei lavori, cioè quelle dell’alta sorveglianza, della vigilanza e dell’intervento correttivo, finalizzate al raggiungimento del risultato utile perseguito dal committente”;

– che avverso la sentenza della Corte ambrosiana ricorre per Cassazione il P., sulla base – come detto – di quattro motivi;

– che il primo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), in ragione della “irriducibile contraddittorietà delle affermazioni in essa contenute”;

– che, difatti, sul duplice presupposto che nel contratto di appalto il termine di ultimazione dei lavori “costituisce un elemento essenziale, che assume carattere di perentorietà” (quando, come nell’ipotesi in esame, “venga stabilita una penale in caso di ritardo”), ed inoltre che, in difetto di ultimazione delle opere, “non è possibile dare corso al collaudo”, il ricorrente contesta l’affermazione della Corte territoriale di seguito indicata;

– che la sua censura si appunta, infatti, su quel passaggio motivazionale secondo cui, in occasione della redazione del verbale del 20 novembre 2007, “le opere appaltate non erano completate, nondimeno non mancava troppo che lo fossero, come ad esempio rivelato dal controverso verbale (ove l’appellante, malgrado le carenze riscontrate, evidentemente reputandole non decisive, dichiarava collaudabili tutte e nove gli impianti eseguiti, sia pure in due casi dopo l’intervento della fornitrice)”;

– che, in questo modo, il giudice di appello avrebbe attestato -sottolinea il ricorrente – che “alla data della redazione del precollaudo le “opere non erano state completate” e che due degli impianti avrebbero potuto essere collaudati solo “dopo l’intervento della fornitrice””, così “confermando che alla data del 20 novembre 2007 i lavori non fossero ultimati e non collaudabili”;

– che tanto, dunque, evidenzierebbe l’irriducibile contraddittorietà della motivazione, non essendo possibile sostenere, ad un tempo, che l’intervento del direttore dei lavori “sia stato intempestivo” e che, “al momento in cui tale intervento ha avuto luogo, le opere non fossero complete e che alcune lavorazioni avrebbero potuto essere collaudate solo dopo gli interventi indicati” dal medesimo professionista;

– che affetta da irriducibile contraddittorietà sarebbe pure l’ulteriore parte motivazionale secondo cui, nel medesimo “quadro”, si pone come “elemento neutro l’inizio nel maggio 2008 del collaudo finale”, giacchè “nulla sta a convincere che la dilazione temporale fosse necessariamente il portato della rimarchevole arretratezza dei lavori nel novembre precedente”, nel senso che “non è detto che il collaudo non sia stato fatto prima perchè i lavori si trovavano ancora in uno stato di significativa se non grave incompletezza”;

– che, invero, siffatta affermazione costituirebbe “una mera e personale supposizione” del giudicante, oltretutto “in aperta contraddizione con quanto dal medesimo accertato, ovvero che due impianti (ma in realtà, sottolinea il ricorrente, “ben di più”) “avrebbero potuto essere collaudati solo “dopo l’intervento della fornitrice””;

– che il secondo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – la omessa considerazione, da parte della Corte territoriale, di “un fatto storico la cui esistenza risulta dal testo della sentenza o dagli atti processuali che ha costituito oggetto di discussione ed ha carattere decisivo”;

– che il ricorrente – non senza evidenziare come la diversa motivazione con cui i giudici di merito hanno affermato la sua responsabilità precluda l’operatività della previsione di cui all’art. 348-ter c.p.c., u.c., norma che nei casi di cd. “doppia conforme” impedisce di proporre censure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – contesta la sentenza impugnata per aver ritenuto intempestivo l’intervento del direttore dei lavori, omettendo di considerare le risultanze di una serie di documenti;

– che, in particolare, essi consisterebbero nella nota del 26 novembre 2007 (con cui il professionista aveva richiesto all’appaltatore di procedere all’ultimazione delle lavorazioni, in assenza della quale il primo non avrebbe potuto neppure emettere la certificazione amministrativa di fine lavori), nonchè nella nota del 22 gennaio 2008 con cui la stessa committente contestava all’appaltatrice la non “esecuzione dei lavori mancanti indicati nel verbale redatto dal Direttore dei Lavori”;

– che il terzo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1669,2236,1218 e 2055 c.c.;

– che avendo esso P. assunto l’incarico di direzione dei lavori per conto della committente troverebbe applicazione il principio giurisprudenziale secondo cui, in questi casi, il direttore dei lavori “ha soltanto il compito di controllare la corrispondenza dell’opera al progetto, rispondendo dell’adempimento di tale obbligo solo verso il committente a norma dell’art. 2236 c.c., e, pertanto, ove abbia esercitato il compito suddetto, non può essere ritenuto responsabile con l’appaltatore dei danni derivati al committente dalla difettosa esecuzione dell’opera e dall’imprudente svolgimento dei lavori diretti al compimento di essa” (è citata Cass. Sez. 2, sent. 19 settembre 2016, n. 18285, Rv. 641077-01);

– che, pertanto, deve ritenersi esente da responsabilità il direttore dei lavori che, “nel corso della realizzazione delle opere e prima della loro ultimazione, ravvisi i vizi nei lavori ed impartisca opportune disposizioni per la loro eliminazione o, comunque, per la corretta realizzazione delle medesime”;

– che tanto sarebbe avvenuto nel caso in esame, come accertato dal primo giudice (secondo cui “i vizi sono stati considerati emendabili”), nonchè confermato dalla già citata nota del 22 gennaio 2008 proveniente dalla stessa committente;

– che, infatti, in senso contrario, non potrebbe invocarsi la circostanza – valorizzata, invece, dalla Corte territoriale – che il direttore dei lavori ritenne collaudabili alcune lavorazioni, dato che la loro collaudabilità era stata condizionata da esso P. all’eliminazione di alcuni rilevanti vizi (impartendo, tra l’altro, precise indicazioni in tal senso), visto che l’impianto idraulico e quello di trattamento, condizionamento e riscaldamento dell’aria erano stati ritenuti collaudabili a fronte dell’eliminazione, rispettivamente, di sei e undici vizi;

– che, inoltre, la sentenza impugnata, nel dare rilievo alla circostanza della riscontrata “stratificazione” dei vizi accertati, avrebbe posto a carico del direttore dei lavori un profilo di responsabilità tipico del direttore di cantiere;

– che il quarto motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 195 c.p.c.;

– che viene lamentata violazione del principio del cd. “contraddittorio tecnico”, in quanto l’ausiliario del giudice – dopo aver genericamente affermato, nella bozza del proprio elaborato, che il direttore dei lavori non aveva sorvegliato l’andamento delle lavorazioni nella misura dovuta – solo a seguito del rilievo espresso del tecnico di parte ebbe ad esplicitare, per la prima volta, nella propria relazione peritale il criterio secondo il quale ha attribuito al direttore dei lavori la responsabilità per i vizi riscontrati e la relativa misura, addebitandogli il fatto che il medesimo avrebbe dovuto “verificare almeno le macrovoci che compongono il progetto”;

– che, pertanto, ove il consulente tecnico d’ufficio avesse tempestivamente reso edotto di tale profilo il tecnico di parte, quest’ultimo, in possesso delle necessarie “nozioni tecniche”, avrebbe potuto replicare prima che tale affermazione fosse trasfusa nella relazione che “tutte le macrovoci erano state puntualmente esaminate, nel corso di realizzazione dei lavori, il 22 ottobre 2007, il 9 novembre 2007 e il 20 novembre 2007, con indicazione dei vizi e relativi rimedi”;

– che sono rimasti solo intimati il B., nonchè le curatele fallimentari delle società (OMISSIS) e B.M.;

– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata al ricorrente, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di Consiglio per il 19 gennaio 2021;

– che ha presentato memoria il ricorrente, insistendo nelle proprie argomentazioni.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

– che il ricorso è manifestamente infondato, ritenendo il collegio che a tale esito – già ipotizzato nella proposta del consigliere relatore – non ostino gli argomenti invocati dal ricorrente nella memoria deposita ex art. 380-bis c.p.c., comma 2;

– che, in particolare, il primo motivo – nel denunciare una (pretesa) irriducibile contraddittorietà della motivazione espressa dalla Corte ambrosiana – si palesa non fondato, insistendo su di un singolo passaggio della parte moriva della sentenza impugnata (quello secondo cui, sebbene le opere appaltate non fossero ancora completate, “non mancava troppo che lo fossero”), senza, però, confrontarsi con la complessiva “ratio decidendi” che sorregge la pronuncia;

– che, difatti, il giudice di appello – nel prendere in esame i rilievi che il P. ebbe a svolgere in merito alle lavorazioni eseguite dall’appaltatrice (o meglio, solo ad alcune di esse, visto che è lo stesso ricorrente ad affermare che fu in relazione all’impianto idraulico e a quello di trattamento, condizionamento e riscaldamento dell’aria, che venne espressa una valutazione di collaudabilità subordinatamente all’eliminazione, rispettivamente, di sei e undici vizi) – ha affermato la responsabilità del professionista perchè il medesimo “dichiarava collaudabili tutte e nove gli impianti eseguiti”, e dunque anche quelli per i quali il ricorso non attesta la formulazione di riserve;

– che, in particolare, la Corte territoriale, sul presupposto che “rientrano nelle obbligazioni del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonchè l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi” (affermazione, peraltro, corrispondente agli indirizzi espressi ancora di recente da questa Corte; cfr. Cass. Sez. 2, ord. 7 febbraio 2020, n. 2913, Rv. 657092-01), ha ritenuto di imputare al P. “quei difetti nascenti dalla mancata osservanza da parte dell’appaltatore delle prescrizioni progettuali e contrattuali”, oltre che “dal mancato rispetto delle prescrizioni normative di settore e delle regole dell’arte”, riscontrate, in particolare, quanto:

— “all’impianto antincendio”, in ordine ai quali “si è anche rilevata la difformità nel posizionamento di alcuni manufatti rispetto alle risultanze del progetto redatto dallo stesso professionista”;

— “all’impianto di trattamento dell’aria, con particolare riferimento al mancato rispetto dei regolamenti sul controllo di umidità e temperatura”, e alla “mancanza dei dispositivi protettivi e antigelo”;

— “al posizionamento del quadro elettrico, alla sua esposizione e alla mancanza del comando di emergenza”;

— “alla mancanza di protezione delle componenti dell’impianto di riscaldamento”, oltre che alla “mancanza di isolamento delle tubazioni e della difformità di misure delle tubazioni delle linee di adduzione dell’acqua calda”;

— “alla mancanza di plenum di aspirazione di fan coil dei cd. vetilconvettori;

— “alla mancanza di isolamento acustico previsto nel progetto relativo alle colonne di scarico e relative braghe di collegamento”;

– che la decisione qui in esame, inoltre, ha sottolineato come l’allora appellante, a fronte di tali rilievi, avesse “vanamente opposto la mancanza di contestazioni” da parte della società committente, così “trascurando di considerare che sarebbe spettato casomai a lui, in base all’incarico professionale affidatogli” (e non certo alla committente) “sollevare contestazione” – che l’odierno ricorrente neppure deduce di aver formulato per impianti diversi da quello idraulico e di trattamento, condizionamento e riscaldamento dell’aria – “e preoccuparsi poi di verificare che fossero state eseguite le correzioni consequenziali”;

– che così complessivamente ricostruita la sentenza impugnata si sottrae alla censura – oggetto del primo motivo di ricorso – di violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4);

– che sul punto, infatti, va rammentato che ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01);

– che il vizio motivazionale è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, sussistente, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), ovvero perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01) o connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 64962801), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 65001801);

– che il secondo motivo è, invece, inammissibile;

– che al riguardo va, innanzitutto, notato che quale oggetto del dedotto vizio di omesso esame vengono indicati due documenti (di uno dei quali, oltretutto, ovvero la nota del 22 gennaio 2008, lo stesso ricorso dà atto dell’avvenuta menzione in sentenza, sicchè esso non può dirsi non esaminato);

– che, tuttavia, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deve investire un “fatto vero e proprio” e, quindi, “un fatto principale, ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, Rv. 641174-01; nello stesso senso Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01), vale a dire “un preciso accadimento, ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico” (Cass. Sez. 5, sent. 8 ottobre 2014, n. 21152, Rv. 632989-01; Cass. Sez. Un., sent. 23 marzo 2015, n. 5745, non massimata), “un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto” (cfr. Cass. Sez. 1, ord. 5 marzo 2014, n. 5133, Rv. 629647-01);

– che, tuttavia, anche a superare tale rilievo, ritenendo che la lamentata omissione investa l’esame non dei documenti in sè, bensì del fatto – l’esistenza di contestazioni avanzate dal professionista all’appaltatrice anteriormente all’ultimazione dei lavori – da essi risultante, il motivo si presenta egualmente inammissibile, perchè il fatto di cui è stato omesso l’esame risulta privo del carattere della decisività;

– che, difatti, l’omesso esame di un documento “può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendb” venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. Sez. 3, ord. 26 giugno 2018, n. 16812, Rv. 649421-01);

– che nel caso di specie, come già rilevato, i documenti in questione potrebbero, al più, offrire un riscontro dei rilievi espressi dal professionista per due sole delle (nove) lavorazioni in relazione alle quali sono stati riscontrati vizi imputati al direttore dei lavori;

– che il terzo motivo è anch’esso inammissibile, sotto vari profili;

– che la censura si incentra sul fatto che la sentenza impugnata avrebbe disatteso le peculiarità proprie della figura del direttore dei lavori, allorchè esso sia incaricato dal committente;

– che sul punto, tuttavia, va osservato che, ricorrendo tale ipotesi, se di regola il professionista “ha soltanto il compito di controllare la corrispondenza dell’opera al progetto, rispondendo dell’adempimento di tale obbligo solo verso il committente a norma dell’art. 2236 c.c., e, pertanto, ove abbia esercitato il compito suddetto, non può essere ritenuto responsabile con l’appaltatore dei danni derivati al committente dalla difettosa esecuzione dell’opera e dall’imprudente svolgimento dei lavori diretti al compimento di essa”, resta, però, inteso che il direttore dei lavori risponde pure “della fattibilità e dell’esattezza tecnica del progetto” allorchè “sia stato espressamente incaricato dal committente di svolgere anche tale attività di verifica, aggiuntiva rispetto a quella costituente l’oggetto della sua normale prestazione professionale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 19 settembre 2016, n. 18285, Rv. 641077-01);

– che è proprio l’incertezza in ordine a tale profilo – e, con essa, l’impossibilità di superarla in questa sede (occorrendo un accertamento di fatto destinato ad investire la verifica del contenuto dell’incarico conferito dalla società (OMISSIS) al geometra P.) – a rendere inammissibile la censura;

– che, infatti, dell’avvenuta deduzione innanzi al giudice di appello della questione relativa alla violazione degli artt. 1669,2236,1218 e 2055 c.c., per essere stata disattesa la particolare posizione del direttore dei lavori incaricato dal committente, non vi è, per vero, traccia nella sentenza impugnata, come neppure nella ricostruzione dei motivi di appello compiuta nel ricorso;

– che, di conseguenza, “ove una determinata questione giuridica -che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02);

– che, d’altra parte, la censura risulta inammissibile anche per un’altra ragione (non superata dalle considerazioni espresse dal ricorrente nella propria memoria), ovvero perchè essa è dichiaratamente fondata sul rilievo che la documentazione della quale si è lamentato l’esame da parte del giudice di appello dimostrerebbe che la individuazione dei vizi dell’opera sarebbe avvenuta “nei mesi antecedenti alla fine dei lavori ed al collaudo”, dovendo così “ritenersi del tutto tempestiva”;

– che così argomentando, tuttavia, si prospetta un vizio neppure astrattamente riconducibile alla violazione di legge, se è vero che esso “consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549-02), sicchè il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5422, non massimata);

– che il quarto motivo – che denuncia la violazione dell’art. 195 c.p.c., comma 3, ovvero del principio del cd. “contraddittorio tecnico” – non è fondato;

– che come esattamente osserva la sentenza impugnata, nulla impediva all’odierno ricorrente di utilizzare gli scritti conclusivi per recepire le indicazioni dei consulenti di parte, visto che “i rilievi delle parti alla consulenza tecnica di ufficio, ove non integrino eccezioni di nullità relative al suo procedimento, come tali disciplinate dagli artt. 156 e 157 c.p.c., costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico giuridico, che possono essere svolte nella comparsa conclusionale, sempre che non introducano in giudizio nuovi fatti costitutivi, modificativi od estintivi, nuove domande o eccezioni o nuove prove, e purchè il breve termine a disposizione per la memoria di replica, comparato con il tema delle osservazioni, non si traduca, con valutazione da effettuarsi caso per caso, in un’effettiva lesione del contraddittorio e del diritto di difesa” (Cass. Sez. 3, sent. 21 agosto 2018, n. 20829, Rv. 650420-01);

– che il ricorso va, dunque, rigettato;

– che nulla è dovuto quanto alle spese del presente giudizio di legittimità, essendo rimasto solo intimati il B., nonchè le curatele fallimentari delle società (OMISSIS) e B.M.;

– che in ragione del rigetto del ricorso, va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

 

 

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