Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16187 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. VI, 09/06/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 09/06/2021), n.16187

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GIAIME GUIZZI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35566-2019 proposto da:

AGESP SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BISAGNO 14 SCALA C, presso

l’Avvocato IVAN RANDAZZO (Studio Fares), che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

A.T., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIA NUOVA 96 SC

C. INT 2, presso lo studio dell’Avvocato GIANLUCA TOCCI,

rappresentato e difeso dall’Avvocato FRANCESCA RULLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 744/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 02/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 19/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIAIME

GUIZZI STEFANO.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

– che la società Gesep S.p.a. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 744/19, del 2 aprile 2019, della Corte di Appello di Catania, che – accogliendo parzialmente il gravame esperito, in via di principalità, da A.T. contro la sentenza n. 480/16, del 15 novembre 2016, del Tribunale di Caltagirone, respingendo, invece, quello incidentale della Gesep – ha rideterminato in Euro 24.454,19 la somma dovuta dall’odierna ricorrente a titolo di risarcimento del danno da occupazione illecita di un terreno sito in Grammichele, contrada Mendolara, contraddistinto al catasto al foglio (OMISSIS), part. (OMISSIS);

– che la ricorrente – già appaltatrice del servizio raccolta rifiuti del Comune di Grammichele – riferisce, in punto di fatto, di essere stata convenuta in giudizio dall’ A. per il rilascio di un terreno di sua proprietà (che la predetta società aveva utilizzato per il parcheggio di automezzi, il ricovero di contenitori per i rifiuti e per travasamenti da mezzi più piccoli ad altri più grandi), oltre che per il risarcimento dei danni da occupazione “sine titulo”;

– che l’allora convenuta si difendeva, in primo grado, assumendo di essere nel possesso pacifico e continuato dell’immobile e di nulla dovere a titolo di risarcimento;

– che l’area in questione le fu indicata come utilizzabile dal padre dell’attore, tale A.F., allorchè costui (con il quale la società aveva concluso, in passato, un contratto di locazione immobiliare allo stesso scopo sopra descritto), una volta che erano state apportate migliorie all’area di sua proprietà, già destinata all’indicata utilizzazione, ebbe ad indicargli altro luogo utile a tale fine, ovvero una porzione del terreno di proprietà del figlio, confinante il fabbricato fino ad allora locato;

– che accolta la domanda dal giudice di prime cure, il quale liquidiva a titolo di risarcimento danno l’importo di 7.000,00 (ovvero, Euro 1.000,00 per ciascun anno di occupazione, che riteneva protrattasi dal 2009 al 2016), su appello principale del T., relativo al “quantum debeatur”, la Corte territoriale rideterminava la somma dovuta quale posta risarcitoria in Euro 24.454,19, respingendo, invece, il gravame incidentale dell’odierna ricorrente, volto ad escludere l’illiceità dell’utilizzazione;

– che il secondo giudice, riqualificata l’azione come restitutoria, e ciò sul presupposto che tra la società odierna ricorrente e A.T. fosse intervenuto un contratto di comodato gratuito, concluso dal padre del comodante in forza di una procura generale rilasciatagli dal figlio, ha fatto decorrere la somma dovuta a titolo di risarcimento dalla data della scadenza dello stesso (2014), fino all’effettivo rilascio.

– che avverso la sentenza della Corte etnea ricorre per cassazione la Gesep, sulla base – come detto – di tre motivi;

– che il primo motivo denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione degli artt. 101,112 e 115 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel vizio di extrapetizione, riqualificando alla stregua di un contratto di comodato, decorrente dal 2009 al 2014, una detenzione senza titolo, e ciò incompatibilmente con la domanda e le difese dell’attore A.T., il quale ha sempre sostenuto che la società odierna ricorrente avesse detenuto il terreno senza titolo in quell’arco temporale, chiedendo il risarcimento da occupazione abusiva a decorrere dal 2009;

– che la Corte ha fondato il proprio assunto – così consumando le ulteriori violazioni del principio del contraddittorio e del principio dispositivo – su un fatto non provato e che non ha avuto ingresso nel processo, vale a dire l’autorizzazione che il padre dell’ A. avrebbe concesso all’Agesep ad usare gratuitamente il terreno del figlio;

– che il secondo motivo denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1803 e 1388 c.c., censurando la sentenza per aver configurato alla stregua di un contratto di comodato immobiliare (concluso tra la Agesp e A.F., quale asserito procuratore del figlio), una semplice detenzione dell’immobile, esito al quale la Corte territoriale sarebbe pervenuta senza che sia stata provata la consegna del bene, la volontà di concederlo gratuitamente e la spendita del nome del proprietario da parte del procuratore;

– che il terzo motivo denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, giacchè la Corte etnea avrebbe errato nel determinare il risarcimento del danno da occupazione abusiva sulla scorta del valore esposto in una perizia giurata di parte, che non costituisce prova ma mero indizio, in cui è stato riportato il valore determinato dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare presso l’Agenzia delle Entrate, che avrebbe potuto solo fungere da ausilio all’attività estimativa;

– che ha resistito all’impugnazione, con controricorso, l’ A., chiedendo che lo stesso venga dichiarato inammissibile – per difetto di specificità dei motivi, oltre che per il fatto di tendere ad un riesame del merito della controversia – o comunque rigettato;

– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di Consiglio per il 19 gennaio 2021;

– che il controricorrente ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni, nonchè contestando il contenuto della proposta del consigliere relatore.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

– che il Collegio ritiene di non condividere la proposta del relatore, dovendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;

– che il primo motivo di ricorso è inammissibile, perchè non coglie l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata (cfr. Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01, in senso conforme, Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01);

– che la sentenza impugnata – nel premettere che, esperita dall’ A. azione di rivendicazione, l’odierna ricorrente allegava l’esistenza di un titolo legittimante il possesso del terreno di proprietà del primo, ovvero un’autorizzazione datale dal padre dell’allora attore -ha affermato che, a fronte di tale mera difesa (tale dovendosi intendere, secondo questa Corte, l’allegazione dalla convenuta), l’iniziativa attorea dovesse “essere qualificata come azione di restituzione, trovando l’occupazione il proprio titolo nel contratto di comodato” ritenuto corrente “inter partes”;

– che, invero, secondo la Corte etnea, “la stessa Agesp” ha “di fatto riconosciuto” che tale contratto fosse “intervenuto tra le parti”, visto che “proprio alla dimostrazione dell’uso autorizzato del terreno tendeva la prova testimoniale richiesta” dalla stessa;

– che, pertanto, secondo il giudice di appello, l’attore – il quale, al momento della proposizione della domanda, pure aveva “allegato di essere proprietario del bene occupato sine titulo producendo il proprio titolo di acquisto” – “non era tenuto alla dedotta probatio diabolica”, e ciò proprio in forza della circostanza che la convenuta avesse allegato l’esistenza di un “possesso legittimo, perchè autorizzato”, essendo a questo punto sufficiente per l’attore “allegare il venir meno, in capo alla società, del titolo” legittimante l’altrui possesso (o meglio, la detenzione) del terreno in questione;

– che la sentenza impugnata, pertanto, mostra di ritenere intervenuta una “mutatio libelli” da parte dell’attore in ragione della linea difensiva assunta dalla convenuta (anche articolando una prova testimoniale in tal senso), sicchè la censura dell’odierna ricorrente avrebbe dovuto investire tale affermazione, non essendo, invece, conferente il richiamo all’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte citato nel ricorso, che concerne, invero, un’ipotesi del tutto diversa da quella qui in esame;

– che, difatti, secondo tale pronuncia, “le difese di carattere petitorio opposte, in via di eccezione o con domande riconvenzionali, ad un’azione di rilascio o consegna non comportano – in ossequio al principio di disponibilità della domanda e di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato – una “mutatio” od “emendatio libelli”, ossia la trasformazione in reale della domanda proposta e mantenuta ferma dell’attore come personale per la restituzione del bene in precedenza volontariamente trasmesso al convenuto, nè, in ogni caso, implicano che l’attore sia tenuto a soddisfare il correlato gravoso onere probatorio inerente le azioni reali (cosiddetta “probatio diabolica”), la cui prova, idonea a paralizzare la pretesa attorea, incombe solo sul convenuto in dipendenza delle proprie difese” (Cass. Sez. Un., sent. 28 marzo 2014, n. 7305, Rv. 630013-01);

– che tale non è, tuttavia, l’ipotesi che occupa, giacchè chiesto dall’attore genericamente il rilascio del bene, a fronte della mera difesa rappresentata dall’esistenza di un titolo, l’attore ha allegato il venir meno del titolo, modificando così la causa petendi;

– che pure il secondo motivo è inammissibile, in quanto – sebbene sia dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1803 e 1388 c.c. – la censura relativa all’inesistenza di un contratto di comodato immobiliare (concluso tra la Agesp e A.F., quale asserito procuratore del figlio) è formulata dichiaratamente sul rilievo dell’assenza di prova della consegna del bene, della volontà di concederlo gratuitamente e della spendita del nome del proprietario da parte del procuratore;

– che, per vero, quello prospettato non è un vizio neppure astrattamente riconducibile alla violazione di legge, se è vero che essa “consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549 -02), e ciò in quanto il vizio di sussunzione “postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01), ragion per cui il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5422, non massimata);

– che, infine, l’inammissibilità va dichiarata anche con riferimento al terzo ed ultimo motivo;

– che, al riguardo, deve osservarsi – in disparte il rilievo secondo cui, nell’ambito di una liquidazione equitativa qual è tipicamente quella del danno da inadempimento dell’obbligazione di restituzione del bene, nulla impedisce di valorizzare la perizia giurata, documento che ha valore indiziario (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 27 dicembre 2018, n. 33503, Rv. 651998-02), utilizzabile persino quale prova della proprietà del bene in caso di esperimento di “negatoria servitutis” (Cass. Sez. 2, sent. 7 ottobre 1967, n. 2315, Rv. 329539-01) – che il vizio prospettato con il presente motivo non è neppure astrattamente riconducibile alla violazione dell’art. 115 c.p.c.;

– che, difatti, “la violazione dell’art. 115 c.p.c.” – norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide “iuxta alligata et probata partium” – “può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01);

– che il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile;

– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;

– che in ragione della declaratoria di inammissibilità del ricorso va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condannando la società Agesip S.p.a. a rifondere a A.T. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro, 3.500,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

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