Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16148 del 28/06/2017


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Cassazione civile, sez. trib., 28/06/2017, (ud. 23/05/2017, dep.28/06/2017),  n. 16148

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6970/2010 R.G. proposto da:

L.M.S., rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo

Petralia, con domicilio eletto in Catania, via Verona 62, presso lo

studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso 12, l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, depositata il 22 gennaio 2009.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 maggio

2017 dal Consigliere Dott. Giuseppe Tedesco.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che il contribuente ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, la quale, da un lato, aveva riformato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto inammissibile il ricorso contro avviso di accertamento, con il quale, per l’anno di imposto 1998, era stato rettificato il reddito sulla base dei parametri reddituali; dall’altro, decidendo sulle censure mosse dal contribuente, aveva rigettato il ricorso e confermato l’atto impositivo;

che il ricorso è proposto sulla base di sei motivi, il primo dei quali, proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censura il giudizio dato dalla Ctr sulla congruità dell’avviso di accertamento;

che il motivo è inammissibile: è stato chiarito che nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass. 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di Cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289);

che il secondo motivo di ricorso deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c.; esso si chiude con il seguente quesito: “dica al Suprema Corte di Cassazione se, in presenza di un motivo d’appello col quale si individua un vizio di motivazione dell’avviso di accertamento nella mancata indicazione dei presupposti che, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, avessero legittimato l’Ufficio alla determinazione induttiva del reddito, violi il principio di cui all’art. 112 c.p.c., la statuizione dei primi giudici che hanno ritenuto legittimo il provvedimento impositivo sulla base di un fatto del tutto diverso da quello dedotto dalla parte (l’accertamento è stato eseguito sulla base dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, “per come è detto nella parte narrativa dell’avviso di accertamento”) per essere invece esatto il principio di diritto per il quale la pronuncia del giudice deve essere sempre logicamente e giuridicamente coerente con la domanda proposta dalla parte”;

che il motivo è doppiamente infondato, in primo luogo perchè, nel momento in cui la Ctr ha indicato che l’accertamento si fondava sui parametri reddituali, ha esattamente indicato il presupposto normativo della rettifica induttiva del reddito operata nel caso di specie; nè il ricorrente ha ragione di dolersi che non sia stata identificata a quale, fra le ipotesi previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, fosse riconducibile l’accertamento compiuto nel caso di specie, posto che gli accertamento per standard (fondati sui parametri o sugli studi di settore) consentono autonomamente il ricorso allo strumento induttivo; in secondo luogo perchè la coerenza fra domanda e pronuncia non va intesa in senso di specularità fra l’una e l’altra, ma nei termini di compatibilità fra la domanda non esaminata e la decisione assunta, sulla base del seguente principio: “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. n. 20311/2011; conf. 17956/2015);

che il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, art. 5;

che si rimprovera alla Ctr di avere confermato l’accertamento fondato sui parametri, pur avendo dato atto di un errore incorso nella determinazione del valore dei beni ammortizzabili, quantificati per il maggiore importo “esposto nella dichiarazione dei redditi, mentre in realtà quelli posseduti dal contribuente e portati in contabilità ammontavano a un importo inferiore”;

che il motivo è inammissibile, perchè ipotizza che la Ctr abbia positivamente riscontrato l’errore ipotizzato nel ricorso, ritenendolo nondimeno irrilevante, laddove, nel relativo passaggio della motivazionale, i giudici d’appello non esprimono una valutazione propria, ma riportano una deduzione del contribuente, cui fanno seguire un ulteriore periodo nel quale pongono in luce che le spese dichiarate eccedevano di oltre il 50% i compensi dichiarati;

che il coordinamento fra le due proposizioni non consente di assumere la seconda proposizione (quella fondata sui costi) quale indiretta conferma di un pensiero dei giudici volto a svalutare uno degli elementi da considerare nella determinazione matematica del reddito (il valore dei beni ammortizzabili) a favore di un dato estraneo “al criterio di determinazione dei ricavi con lo strumento dei c.d. parametri presuntivi”, come invece sostiene il ricorrente;

che rimane ancora da aggiungere che l’errore in cui sarebbe incorso il Fisco è denunciato dal ricorrente con riferimento alla difformità del valore dei beni strumentali rispetto a quello effettivo, senza tuttavia chiarire in modo univoco se tale valore fosse coincidente con quello assunto della norma per la voce “Valore beni strumentali”, per cui il motivo pecca anche di autosufficienza, in quanto non consente alla Corte di comprendere il senso della censura, tenuto conto, peraltro, che la norma prevede varie i ipotesi, diversificate in relazione alla natura dei beni considerati e al titolo di utilizzo;

che il quarto motivo, il quale pone la medesima questione sotto il profilo del vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è assorbito;

che il quinto motivo censura la sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e con riferimento agli artt. 115, 116, 167, 416 c.p.c., per avere addebitato al contribuente di non aver fornito la prova della deduzione secondo cui i corrispettivi dichiarati risultavano congrui rispetto agli studi di settore benchè l’affermazione non fosse stata contestata dall’Amministrazione finanziaria;

che il motivo è irrilevante, perchè nella specie si discuteva di accertamento fondato sui parametri, per cui la supposta congruità del reddito rispetto agli studi non travolgeva, per ciò solo, il compiuto accertamento;

che l’ultimo motivo deduce violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5;

che la tesi sottesa a tale motivo è quella secondo cui, negli accertamenti per standard, confermati dal giudice tributaria per non avere vinto il contribuente la presunzione del maggiore imponibile, non sarebbe applicabile la sanzione per infedele dichiarazione, in assenza di una concreta dimostrazione del dolo o della colpa;

che il motivo è infondato, perchè parte dell’errata premessa che l’accertamento fondato sui parametri sia un accertamento astratto e di principio, laddove esso costituisce comunque un controllo basato su una rideterminazione presuntiva del reddito effettivo del contribuente: al reddito dichiarato non è sostituito un dato astratto, ma il reddito accertato, il che realizza pienamente il presupposto soggettivo per l’irrogazione della sanzione per infedele dichiarazione;

che il ricorso, pertanto, va interamente rigettato.

PQM

 

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2017

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA