Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16147 del 28/06/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 28/06/2017, (ud. 23/05/2017, dep.28/06/2017),  n. 16147

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6952/2010 R.G. proposto da:

L.M.S., rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo

Petralia, con domicilio eletto in Catania, via Verona 62, presso lo

studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Sicilia, depositata il 22 gennaio 2009.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 maggio

2017 dal Consigliere Dott. Giuseppe Tedesco.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che il contribuente ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia (Ctr), la quale, da un lato, aveva riformato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto inammissibile il ricorso contro avviso di accertamento, con il quale, per l’anno di imposto 1999, era stato rettificato il reddito sulla base dei parametri reddituali; dall’altro, decidendo sulle censure mosse dal contribuente, aveva rigettato il ricorso e confermato l’atto impositivo;

che il ricorso è proposto sulla base di quattro motivi, il primo dei quali, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censura il giudizio dato dalla Ctr sulla congruità dell’avviso di accertamento;

che il motivo è inammissibile: è stato chiarito che nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass. 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di Cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289);

che il secondo motivo di ricorso deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c.; esso si chiude con il seguente quesito: “dica al Suprema Corte di Cassazione se, in presenza di un motivo d’appello col quale si individua un vizio di motivazione dell’avviso di accertamento nella mancata indicazione dei presupposti che, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, avessero legittimato l’Ufficio alla determinazione induttiva del reddito, violi il principio di cui all’art. 112 c.p.c., la statuizione dei primi giudici che hanno ritenuto legittimo il provvedimento impositivo sulla base di un fatto del tutto diverso da quello dedotto dalla parte (l’accertamento è stato eseguito sulla base dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, “per come è detto nella parte narrativa dell’avviso di accertamento”) per essere invece esatto il principio di diritto per il quale la pronuncia del giudice deve essere sempre logicamente e giuridicamente coerente con la domanda proposta dalla parte”;

che il motivo è doppiamente infondato, in primo luogo perchè, nel momento in cui la Ctr ha indicato che l’accertamento si fondava sui parametri reddituali, ha esattamente identificato il presupposto normativo della rettifica induttiva del reddito operata nel caso di specie; nè il ricorrente ha ragione di dolersi che non sia stata identificata a quale, fra le ipotesi previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, fosse riconducibile l’accertamento compiuto nel caso di specie, posto che gli accertamento per standard (fondati sui parametri o sugli studi di settore) consentono autonomamente il ricorso allo strumento induttivo; in secondo luogo perchè la coerenza fra domanda di parte e pronuncia giudiziale non va intesa in senso di specularità fra l’una e l’altra, ma nei termini di compatibilità fra la domanda non esaminata e la decisione assunta, sulla base del seguente principio: “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. n. 20311/2011; conf. 17956/2015);

che il terzo motivo deduce motivazione insufficiente con riguardo a un fatto contestato e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, là dove i giudici d’appello avevano ritenuto “essere il maggior reddito accertato coerente con la specifica posizione soggettiva del contribuente, senza che siano stati indicati gli elementi costitutivi del procedimento logico giuridico sotteso a tale giudizio di congruità”;

che il motivo è infondato: il problema posto dagli accertamenti per standard riguarda essenzialmente il profilo procedimentale, essendo principio acquisito che, prima della notifica dell’avviso di accertamento, l’Amministrazione finanziaria ha l’obbligo di dare corso ad una fase di contraddittorio, nel corso della quale il contribuente potrà far valere eventuali cause di non applicabilità del parametro nei suoi confronti;

che, tuttavia, una volta che il procedimento si sia svolto correttamente, i parametri acquistano il valore della presunzione semplice, con il conseguente inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente, il quale potrà riproporre le cause fatte valere in sede amministrativa o aggiungerne altre non preventivamente dedotte;

che nel caso in esame risulta che il contraddittorio fu regolarmente attivato;

che, in assenza di contestazioni sul rispetto dell’iter procedimentale, la Ctr nulla doveva aggiungere per suffragare l’applicabilità dei parametri al contribuente, essendo piuttosto onere di quest’ultimo dedurre e provare la sussistenza di cause, generali o particolari, che rendevano quegli stessi parametri non applicabile nei suoi confronti;

che l’ultimo motivo deduce violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5;

che la tesi sottesa a tale motivo è quella secondo cui, negli accertamenti per standard, confermati dal giudice tributaria per non avere superato il contribuente la presunzione del maggiore imponibile, non sarebbe applicabile la sanzione per infedele dichiarazione, in assenza di una concreta dimostrazione del dolo o della colpa;

che il motivo è infondato, perchè parte dell’errata premessa che l’accertamento fondato sui parametri sia un accertamento astratto e di principio, laddove esso costituisce comunque un controllo basato su una rideterminazione presuntiva del reddito effettivo del contribuente: al reddito dichiarato non è sostituito un dato astratto, ma il reddito “accertato”, il che realizza pienamente il presupposto soggettivo per l’irrogazione della sanzione per infedele dichiarazione;

che il ricorso, pertanto, va interamente rigettato.

PQM

 

rigetta il ricorso; nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2017

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