Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16139 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/06/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 09/06/2021), n.16139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 21983 del ruolo generale dell’anno

2013, proposto da:

T.C. e O.L., entrambi rappresentati e difesi

dall’Avv. Sergio Tricarico, elettivamente domiciliato in Roma, via

A. Gramsci n. 54, presso lo studio dell’Avv. Michele Ferreri;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12,

elettivamente si domicilia;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Piemonte, depositata in data 14 febbraio 2013, n.

09/22/13;

sentita la relazione svolta dal consigliere Salvatore Leuzzi nella

Camera di consiglio del 20 gennaio 2021.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Emerge dalla sentenza impugnata che in data 12 novembre 2009, l’Agenzia delle Entrate notificava a T.C. e a O.L., coevamente, due distinti avvisi di accertamento, mediante i quali determinava maggiori importi dovuti, per l’anno d’imposta 2004, in relazione all’azienda familiare ai medesimi facente capo. Su tale premessa venivano recuperati importi Irpef, Irap e IVA e irrogate sanzioni.

Fallito un tentativo di accertamento per adesione, i contribuenti impugnavano con distinti ricorsi gli avvisi che li riguardavano, sostenendo l’inesistenza per la T. della qualifica di imprenditore, la carenza di motivazione, l’illegittimità delle indagini bancarie espletate, il mancato riconoscimento dei costi sopportati.

L’Amministrazione iscriveva a ruolo la metà dei tributi e notificava distinte cartelle ai contribuenti, con le quali recuperava le somme iscritte.

I contribuenti impugnavano separatamente anche le cartelle in questione, adducendone il difetto di motivazione.

La CTP di Torino, riuniti i procedimenti, accoglieva i ricorsi, ritenendo che la vendita di tre unità immobiliari derivanti dalla ristrutturazione dell’abitazionè in cui i contribuenti avevano risieduto fino al 2004 non giustificasse la presenza di una attività imprenditoriale.

L’Agenzia delle entrate impugnava la sentenza della CTR assumendo, tra l’altro, l’esistenza dell’impresa familiare e la carenza di motivazione della pronuncia di primo grado.

La CTR accoglieva l’appello erariale.

I contribuenti affidano il proprio ricorso a sei motivi.

Resiste l’Agenzia con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Il primo motivo di ricorso, col quale i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, assumendo che la mancata riproposizione analitica delle domande non accolte nel giudizio di primo grado debbano intendersi rinunciate e insuscettibili d’esame, è inammissibile per difetto di autosufficienza. I ricorrenti, invero, non precisano a quali specifiche deduzioni o eccezioni si riferiscano, nè in quale sede fossero state formulate e a cosa tendessero, sicchè la doglianza rimane criptica e generica.

2.- Con il secondo motivo di ricorso si denuncia l’erronea valutazione e il travisamento dei fatti, degli atti processuali e dei documenti allegati nonchè la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. a, dell’art. 2195 c.c., degli artt. 113 e 116 c.p.c. e, altresì, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, e, infine, degli artt. 2082,2700 e 2700 c.c.;

col terzo motivo si lamenta l’omessa, insufficiente motivazione circa i fatti decisivi della controversia; la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. a, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, degli artt. 113 e 116 c.p.c. e, infine, degli artt. 112 e 115 c.p.c..

Le doglianze si prestano a trattazione unitaria, presentando un medesimo nucleo censorio, invero, per un verso adombrando una violazione di legge, per altro verso agitando un difetto di motivazione, la “ricostruzione storica della fattispecie concreta oggetto del presente giudizio” (così sub. 7., pg. 18 del ricorso). Si adduce, in particolare, che i coniugi O.- T. avrebbero “semplicemente sistemato ed ampliato l’unita immobiliare di loro proprietà nella quale hanno abitato e risieduto fino al 2004”. Si evidenzia, inoltre, che la “titolarità del diritto di proprietà in capo ai coniugi” assurgerebbe a circostanza ostativa alla configurabilità di una attività imprenditoriale ai sensi dell’art. 2195 c.c.. In particolare, nella specie, farebbe difetto il requisito-abitualità e non rileverebbe l’assunzione di una partita IVA da parte dell’ O. nel corso del 2005, essendo detta circostanza finalizzata ad obiettivi distinti. Inoltre, la menzione in alcuni dei rogiti di compravendita degli immobili ricavati dal frazionamento dello stabile originariamente abitato in esclusiva dai coniugi ricorrenti sarebbe da ascrivere al fatto “altamente probabile che il notaio che ha redatto l’atto si sia limitato a riportare l’occupazione lavorativa del signor O. così come individuata nell’atto originario”.

I motivi suscettibili di trattazione unitaria sono inammissibili.

La CTR, nel ritenere la sussistenza in capo ai ricorrenti di un’attività d’impresa, ha valorizzato plurimi, convergenti aspetti: la circostanza che costoro “negli atti notarili hanno dichiarato di aver agito come impresa individuale O.L.”; il fatto che in taluni casi si è affermato “di aver iscritto il bene nel registro degli inventari”; la circostanza per cui “la signora T. ha contribuito pro quota a sostenere i costi di costruzione”; il fatto che “il bene è stato soggetto, dopo la prima costruzione, a lavori (rilevanti) di frazionamento, ristrutturazione e ampliamento per renderlo commercialmente più interessante nella logica propria delle attività imprenditoriali”; il profilo della “abitualità” dell’attività svolta, che si è protratta in funzione della produzione di un profitto, negli anni, tanto da “indurre il signor O. a regolarizzare la propria posizione nel 2005 e successivamente nel 2007 a trasformare la società in una s.a.s. Carni Costruzioni di O.L. & Co, con la signora T. nella qualità di accomandante”; il piano rappresentato dall’utilizzo di capitali propri”, dalla “pianificazione delle attività di frazionamento”, dalla “successiva commercializzazione dei beni così realizzati”.

A fronte di tale coavervo circostanziato di motivazioni, le doglianze dei ricorrenti si risolvono in una critica del tessuto argomentativo della sentenza d’appello, che tende ad ottenere una diversa ricostruzione di fatto. Tuttavia, le argomentazioni rese dalla CTR poggiano su ragioni in fatto, astrattamente logiche e dunque incensurabili in sede di legittimità (Cass. n. 25332 del 2014). In altri termini, consta l’ambizione dei ricorrenti a valorizzare, secondo una chiave “soggettivistica”, taluni elementi fattuali e documentali in luogo di altri. Il che s’infrange contro il principio consolidato per cui è sottratto al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, nel mentre spetta al giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Nel caso che occupa, la CTR ha assolto al compito prescrittole, limitandosi a dare libera prevalenza ad alcuni elementi di prova in luogo di altri e a offrirne idonea contezza argomentativa. Nè la parte processuale può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è, come detto, preclusa in sede di legittimità (da ultimo ed ex multis v. Cass. n. 29404 del 2017); del resto, con la proposizione del mezzo di impugnazione, il ricorrente non può spingersi a contrapporre un difforme apprezzamento in fatto rispetto a quello reso dai giudici d’appello.

Questa Corte ha, del resto, già condivisibilmente messo in luce che spetta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità ove correttamente ed adeguatamente motivata, la qualificazione dell’attività svolta dal contribuente come attività d’impresa, tenendo presente che la nozione tributaristica dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacchè il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde dal requisito organizzativo, esigendo soltanto che l’attività svolta sia contrassegnata dalla professionalità abituale (Cass. n. 19237 del 2012; Cass. 27211 del 2006).

La trama motivazionale supporto della sentenza d’appello è sintonica rispetto ai principi già espressi in materia da questa Corte.

Segnatamente, nella parte in cui la censura dei ricorrenti sembra far leva sulla mancanza di organizzazione, giova rilevare che se è vero che nella generalità dei casi l’attività imprenditoriale è articolata sulla base di un apparato produttivo stabile e complesso, formato da persone e da beni strumentali, secondo la linea emergente dagli artt. 2086,2094,2555 c.c., siffatto apparato non è indispensabile affinchè una data attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di impresa. Non è necessario, infatti, che la funzione organizzativa dell’imprenditore abbia ad oggetto anche le altrui prestazioni lavorative, autonome o subordinate, o che i mezzi di cui ci si avvalga costituiscano un apparato strumentale fisicamente percepibile, poichè quest’ultimo può ridursi al solo impiego di mezzi finanziari, sicchè la qualifica di imprenditore va attribuita anche a chi utilizzi e coordini un proprio capitale per fini produttivi (Cass. 16 settembre 1983, n. 5589; Cass. 8193/97). Quanto, poi, al fatto che l’esercizio di impresa si sia esaurito in unico affare, la circostanza è del tutto irrilevante poichè anche il compimento di un singolo affare può costituire impresa quando implichi il compimento di una serie coordinata di atti economici, come avviene nel caso di costruzione di edifici da destinare all’abitazione sia pure con un’unica operazione economica, come nella specie.

Per quanto poi attiene alla porzione di censura che attiene alla sussistenza delle condizioni richieste dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, affinchè l’attività svolta dal contribuente possa essere definita come esercizio di impresa è utile rammentare il già sedimentato principio secondo cui “La nozione tributaristica” dell’esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacchè il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 (T.U.I.R.), intende come tale l’esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, delle attività indicate dall’art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde, quindi, dal requisito organizzativo, che costituisce, invece, elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell’impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l’attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, ancorchè non esclusiva.” (Cass. n. 17013 del 2002; Cass. n. 2711 del 2006 cit.). L’attività che dà luogo a reddito di impresa deve essere esercitata “per professione abituale, ancorchè non esclusiva”. Con questa espressione va, peraltro, interpretata nel suo complesso anzichè con riferimento ai singoli termini che la compongono, sicchè essa indica quel modo di svolgimento dell’attività che si connota per caratteristiche di stabilità e ripetitività, anche solo tendenziale e prospettica nel tempo. L’attività può essere svolta anche in modo non esclusivo, e quindi anche contemporaneamente ad altre attività.

A fronte di tali principi si affievolisce la rilevanza di circostanze, esposte come salienti, ma invero neutre dal punto di vista dell’incidenza sulla fattispecie: in particolare, che l’immobile fosse nella titolarità dei coniugi e che questi ultimi lo abitassero non esclude affatto che essi lo abbiano potuto rendere il core business della propria impresa; il fatto che la partita IVA sia stata aperta dall’ O. dal (OMISSIS) non esclude che lo stesso abbia esercitato in precedenza la medesima attività per le vie di fatto e senza “involucri” formali.

Quanto al fatto che i rogiti notarili veicolassero in senso “altamente probabile” una qualifica che in realtà all’ O. non competeva più, ha la valenza sdrucciolevole e incoferente della congettura, peraltro approssimativa.

Le censure vanno, pertanto, alla luce della motivazione premessa/radicalmente disattese.

3.- Con il quarto motivo di ricorso si contesta la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e dell’art. 24 Cost., per essersi limitato l’Ufficio negli atti impositivi a produrre una “mera elencazione degli atti di compravendita posti in essere dai coniugi O. T. nel corso degli anni 2006 e 2007”, fatta seguire da “un’analoga elencazione delle cessioni immobiliari del 2004 e 2005, corredata anch’essa dall’indicazione testuale di alcune parti degli atti medesimi”.

Con il medesimo motivo si contesta l’omissione di ogni riferimento agli estremi e alle ragioni giustificative della richiesta e del provvedimento autorizzativo allo svolgimento delle indagini bancarie adoperate.

Il motivo è inammissibile.

E’ stato infatti chiarito che nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass. n. 15234 del 2001), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. n. 3289 del 2014; Cass. n. 16147 del 2017; Cass. n. 9536 del 2013).

Il motivo impinge, pertanto, nel principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c.. Ciò accade anche con riferimento alla frazione del motivo che lamenta il mancato rispetto del contraddittorio avuto riguardo alle risultanze delle indagini bancarie. Ad onta della statuizione della CTR che evidenza che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7, “non prevede un precedente o successivo contraddittorio con gli interessati”, i ricorrenti, pur muovendo dalla premessa della mancata previsione della necessaria instaurazione nella specie del contraddittorio invocato, contraddittoriamente insistono sulla gravità dell’omissione; lo fanno senza riportare – nemmeno in parte qua – il contenuto dell’avviso di accertamento che stigmatizzano e puntando a valorizzare due “circolari”, prive all’evidenza attitudine precettiva.

Col quinto motivo si lamenta il mancato riconoscimento dei costi sostenuti per la realizzazione degli alloggi nn. 1, 2 e 3, oggetto delle compravendite del 2004 e del 2005, nonchè l’erronea, illogica ed apodittica motivazione al riguardo.

Il motivo è inammissibile e va disatteso.

Invero la CTR, con motivazione incisivamente sufficiente a far cogliere la ratio decidendi, ha evidenziato che “per quanto riguarda il riconoscimento dei costi sostenuti… i medesimi, per essere dedotti, devono essere documentati, fatto che non si è verificato nemmeno nella fase di giudizio” d’appello.

A fronte di detta icastica argomentazione, i ricorrenti, per un verso lamentano il mancato riconoscimento dei costi, per altro verso svolgono una eccentrica dissertazione sul tema delle plusvalenze, per altro verso ancora genericamente adducono d’aver sopportato non meglio identificati costi – “a puro titolo esemplificativo” – “di urbanizzazione”, “di ristrutturazione e frazionamento”, “per consulenze”, “per mediazioni immobiliari”.

L’indeterminatezza vanifica di per sè stessa il senso e la tenuta della censura.

In tema di ricorso per cassazione, in ossequio al principio di autosufficienza, il contribuente che reclama il riconoscimento dei costi è tenuto ad indicare specificamente i documenti prodotti da cui desumerne la prova, precisandone il contenuto ed il rilievo probatorio.

E’ d’altronde evidente che, dovendosi richiamare la motivazione svolta con riferimento alle censure trattate innanzi in tema di sussistenza dell’attività d’impresa, viene in apice il principio dell’inerenza dei costi deducibili, che si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di documentare l’effettività dei singoli esborsi e di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa. Peraltro, l’onere di provare e documentare l’imponibile maturato e dunque l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto d’impresa, grava sul contribuente, il quale nella specie non vi ha assolto, se non per imperscrutabile approssimazione.

Con il sesto motivo di ricorso si contesta la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 241 del 1990, art. 3, e dell’art. 24 Cost., assumendosi che la mancata riproposizione in appello delle questioni ed eccezioni relative alle cartelle di pagamento “s’intendono rinunciate”, ancorchè la CTR abbia omesso di trattarle come tali, inoltre mancando di reputarle comunque immotivate.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza sotto un duplice piano. In primo luogo, non sono neppure larvatamente adombrate la deduzioni che si assumono implicitamente rinunciate, il che rende addirittura imperscrutabile in parte qua la doglianza; in secondo luogo, è d’uopo rilevare che in mancanza di trascrizione delle impugnate cartelle nel corpo del ricorso non è concessa a questa Corte la possibilità di verificare la corrispondenza del contenuto dell’atto rispetto a quanto asserito dal contribuente; ciò comporta il radicale impedimento di ogni attività nomofilattica, la quale presuppone appunto la certa conoscenza del tenore della cartella in discorso (Cass. n. 16010 del 2015; Cass. n. 8569 del 2013; Cass. n. 14784 del 2015).

Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti in solido al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

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