Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16129 del 28/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 28/07/2020, (ud. 15/10/2019, dep. 28/07/2020), n.16129

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20043-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI,

rappresentata e difesa dall’avvocato TOSI PAOLO;

– ricorrente –

contro

G.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato MANUELA SANVIDO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 157/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 12/02/2015 R.G.N. 73/2014.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

G.A. adiva il Tribunale di Torino esponendo di lavorare alle dipendenze della spa Poste Italiane a far tempo dal 1992, inquadrato in fascia D con qualifica di addetto senior e dal 2000, con mansioni di addetto alle video codifiche; precisava di avere ottenuto con sentenza n. 535/07 della Corte d’Appello, passata in giudicato, l’accertamento che le mansioni affidategli dal 1994 non erano equivalenti a quelle di assunzione (assistente disegnatore) e la condanna della società ad adibirlo a mansioni di pari contenuto professionale e specialistico. Sulla scorta di tali premesse, chiedeva accertarsi il perdurare del demansionamento dal 2005 o dal 2007 e condannarsi la parte datoriale al risarcimento dei danni. Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso e condannava la spa Poste Italiane al risarcimento del danno non patrimoniale risentito a far tempo dal 17/4/2007.

Detta pronunzia veniva confermata dalla Corte distrettuale con sentenza resa pubblica il 30/3/2015.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. Poste Italiane, sulla scorta di cinque motivi.

Resiste con controricorso G.A..

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che ricadesse esclusivamente sul datore di lavoro, l’onere di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni corrispondenti al suo livello di inquadramento, senza considerare che il lavoratore non aveva fornito alcuna allegazione in ordine all’esistenza di altre posizioni di lavoro in cui avrebbe potuto essere utilmente collocato, e che i tentativi all’uopo svolti dalla società erano stati respinti dal lavoratore medesimo.

2. Il motivo non è fondato.

Ed invero il giudice del gravame ha mostrato di conoscere e condividere l’orientamento espresso da questa Corte, secondo cui quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (vedi Cass. 3/3/2016 n. 4211).

In tale prospettiva è stato altresì precisato che in materia di demansionamento (o dequalificazione), il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio del potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonchè da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo (vedi Cass. 8/7/2014 n. 15527).

Attenendosi ai summenzionati principi, la Corte di merito ha innanzitutto rimarcato che l’adibizione del ricorrente a mansioni non equivalenti a quelle di assunzione dal 1994 al 2007, era stata accertata dalla sentenza n. 535/2007 della medesima Corte d’appello, passata in giudicato. Ha quindi ritenuto che, per il periodo successivo, la società non avesse dimostrato l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita, confermando che quelle di addetto alle videocodifiche a lui ascritte dal 2000 – e che aveva continuato a svolgere anche dopo la sentenza n. 535/2007 passata in giudicato – erano da ritenersi dequalificanti.

E nel pervenire a tali conclusioni ha proceduto ad una ricognizione dei comportamenti assunti dalle parti, ritenendo irrilevante la circostanza, pur enfatizzata dalla società, che il lavoratore avesse rifiutato l’offerta di pagamento al livello C con mansioni di sportellista, così esprimendo un motivato giudizio, a lui riservato, in ordine alla persistenza della dequalificazione, non sindacabile in questa sede di legittimità.

3. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si deduce che nei centri meccanizzati di smistamento postale (CMP) ove il G. aveva chiesto di essere assegnato per motivi personali, come attestato dalla documentazione prodotta, non erano mai esistite funzioni riconducibili al profilo tecnico di iniziale assegnazione del lavoratore e che di detta circostanza, pur allegata, la Corte territoriale non aveva tenuto conto, esprimendo un giudizio di inverosimiglianza circa l’inesistenza di un posto di lavoro di livello D che potesse essere ricoperto dal dipendente.

4. Il motivo presenta profili di inammissibilità.

Va infatti rimarcato che secondo il consolidato orientamento espresso da questa Corte, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (vedi ex plurimis, Cass.29/10/2018 n. 27415, Cass. SU 7/4/2014 n. 8053). In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

In tal senso, la censura non può essere condivisa, giacchè la Corte di merito, con motivazione che non risponde ai requisiti dell’assoluta omissione, della mera apparenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità, ha scrutinato il quadro istruttorio delineato in prime cure, ritenendo con congrua motivazione, non assolto l’onere probatorio sulla società gravante, in ordine alla adibizione del lavoratore a mansioni confacenti alla qualifica rivestita.

5. Il terzo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e art. 90 c.c.n.l. 14/4/2011 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che la Corte d’appello, senza neppure confrontarsi con la declaratoria contrattuale collettiva, abbia disconosciuto la riconducibilità della attività di videocodifica svolta dal G., al livello professionale riservatogli dalla società.

6. La critica non è fondata.

Nello specifico la ricorrente non tiene conto, invero, della circostanza che con sentenza passata in giudicato, era stato accertato il demansionamento del lavoratore e che per il periodo successivo la Corte di merito non aveva acclarato la ricorrenza di ulteriori cambiamenti nello svolgimento delle mansioni ascritte di “addetto alle video codifiche (consistenti nel codificare a video l’indirizzo inserito sulle lettere o sui pacchi)”, ritenute, in quanto meramente meccaniche e ripetitive, non confacenti al livello di inquadramento del dipendente e delle mansioni di assunzione di assistente disegnatore.

Nè considera che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, (vedi Cass. S.U. 24/11/2006 n. 25033, Cass. 14/6/2013 n. 15010) il divieto di variazioni in pejus (demansionamento) opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicchè nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardarne il livello professionale acquisito e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità, con le conseguenti possibilità di miglioramento, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Si è quindi precisato che “il nuovo contratto collettivo può anche prevedere il reinquadramento in una nuova unica qualifica di lavoratori in precedenza inquadrati in qualifiche distinte, con la conseguente parificazione limitatamente a quella disciplina contrattuale (normativa ed economica) riferita alla nuova qualifica. Ma ciò non implica necessariamente anche che insorga un rapporto di equivalenza tra tutte le mansioni rientranti nella qualifica” (vedi Cass. 3/9/2002, n. 12821).

La pronuncia impugnata si è conformata agli enunciati principi, verificando, in concreto, la intervenuta lesione del patrimonio professionale acquisito, con apprezzamento, congruo e completo, che non appare validamente censurabile nella presente sede.

7. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si deduce che nel corso della sua vita professionale, il ricorrente aveva più volte prestato il proprio assenso ad interpellanze di mobilità volontaria (1996-1999) implicanti lo svolgimento di mansioni diverse da quelle di assunzione, lamentando, poi, a distanza di tempo, la lesione del proprio diritto a svolgere mansioni professionalmente equivalenti.

Si tenga presente che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 rende denunciabile per cassazione solo il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Con orientamento espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le S.U. di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Invece, la critica in oggetto non risponde ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U., perchè in sostanza cerca di avvalorare come omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione fra le parti la difforme loro valutazione ad opera della sentenza impugnata, che – contrariamente a quanto sostenuto in ricorso – ha esaminato tutte le circostanze concrete della vicenda per cui è causa sia pur pervenendo ad un esito non condiviso dalla odierna ricorrente.

8. Il quinto motivo concerne violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1218,1223,1227 c.c. e 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno confermato il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, già riconosciuto dal giudice di prima istanza. Si deduce che tale riconoscimento contrasti col dictum della sentenza n. 535/2007 passata in giudicato, secondo cui il G. non aveva adempiuto all’obbligo di allegazione, nel ricorso introduttivo, della natura del pregiudizio asseritamente subito e si traduca in violazione del principio del ne bis in idem.

Si stigmatizza altresì il giudizio espresso sulla prova del danno ritenuta, in concreto, mancante, sotto tutti i possibili profili del pregiudizio di cui si era chiesto il risarcimento.

9. La censura è priva di pregio.

Va infatti rimarcato che una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito ha correttamente desunto l’esistenza del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della operata de qualificazione; e ciò è conforme al principio enunciato da questa Corte secondo cui il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. ex aliis, Cass. SU 22/2/2010 n. 4063, Cass. 19/12/2008 n. 29832, Cass., sez. un. 24/3/2006 n. 6572).

Nell’ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale è infatti risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonchè all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti (vedi Cass. 20/4/2018 n. 9901).

La pronuncia, sotto gli enunciati profili, resiste, dunque, alle critiche formulate.

Conclusivamente, alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 15 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2020

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