Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16126 del 28/07/2020

Cassazione civile sez. I, 28/07/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 28/07/2020), n.16126

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 13836/2016 r.g. proposto da:

DEUTSCHE BANK S.P.A., (p. iva (OMISSIS)), con sede in (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, Dott.

C.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta in

calce al ricorso, dall’Avvocato Prof. Franco Tortorano, unitamente

al quale elettivamente domicilia in Roma, alla via Flaminia n. 318,

presso lo studio dell’Avvocato Tommaso Corapi;

– ricorrente –

contro

B.R., (cod. fisc. (OMISSIS)), S.A. (cod. fisc.

(OMISSIS)), e S.S. (cod. fisc. (OMISSIS)), tutti nella

qualità di eredi di S.G., e S.S. anche in

proprio, rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta in

calce al controricorso, dall’Avvocato Marcello Murolo, unitamente al

quale elettivamente domiciliano in Roma, alla Via Della Giuliana n.

28, presso lo studio dell’Avvocato Giancarlo Santoriello;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI SALERNO depositata il

26/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 07/07/2020 dal Consigliere Dott. Eduardo Campese.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto del 13 agosto 2007, B.R., S.S. ed S.A., nella qualità di coeredi di S.G., e S.S. anche in proprio, citarono la Deutsche Bank s.p.a. (d’ora in avanti, semplicemente Banca) innanzi al Tribunale di Salerno chiedendone la condanna alla restituzione della somma di Euro 147.997,10 oppure al pagamento del medesimo importo a titolo di risarcimento danni, eventualmente anche ex art. 2043 c.c.. Dedussero, in particolare, la nullità o, in subordine, l’annullabilità o, in via ulteriormente gradata, la risoluzione per inadempimento, dell’acquisto di Euro 141.000,00 di bond Cirio s.p.a. 8%, disposto il (OMISSIS) dal de cuius S.G., perchè effettuato in violazione degli obblighi previsti dagli artt. 21,23 e 94 TUIF, nonchè degli artt. 28 e 29 del Regolamento Consob 11522 del 1998, chiedendone le corrispondenti preventive declaratorie.

1.1. Costituitasi la convenuta ed espletata l’istruttoria, l’adito tribunale, con sentenza n. 2481 del 2010: i) respinse le domande aventi ad oggetto la dichiarazione di nullità e di annullamento dell’ordine di acquisto predetto; ii) ritenne che quest’ultimo era avvenuto in violazione degli obblighi contrattuali di informativa e di comportamento diligente e corretto di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 129 (cd. T.U.B.), artt. 94 e 21 Testo unico in materia di intermediazione finanziaria (T.U.I.F), ed anche degli artt. 26 e 28 del menzionato Regolamento Consob; iii) ravvisò la responsabilità precontrattuale della Banca e, previa corrispondente declaratoria, la condannò al pagamento, in favore degli attori, della complessiva somma di Euro 147.915,10 (di cui Euro 73.998,55 agli eredi di S.G. ed Euro 73.998,55 a S.S.), con rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dalla pubblicazione della sentenza al soddisfo ed interessi legali sui ratei annualmente rivalutati; iv) ordinò agli attori di restituire alla Banca l’importo di Euro 10.291,07, corrispondente alle cedole maturate in loro favore.

2. Il gravame promosso dalla Banca contro quella decisione è stato respinto dalla Corte di appello di Salerno con la sentenza del 22 dicembre 2014/26 maggio 2015, n. 311, resa nel contraddittorio con gli originari attori. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte: i) ha ritenuto insussistente, alla stregua dei richiamati principi di Cass. n. 455 del 2011, il vizio di ultrapetizione ivi denunciato dall’appellante; ha disatteso l’eccezione, “apparentemente tardiva, di intervenuta prescrizione quinquennale del credito azionato”; iii) nel merito, dopo aver premesso di reputare “fondamentale e decisivo… ai presenti fini processuali”, l’argomento “costituito dalla violazione degli oneri informativi nei contratti di borsa e nella distribuzione dell’onere della prova”, ha opinato che “tale comportamento bancario, non tutelato da alcun ordine scritto, produsse l’acquisto di quantità di titoli Cirio s.p.a. 8% EUR al valore nominale di Euro 141.000,00 al prezzo di esecuzione di Euro 147.915,77, e con un totale a debito di Euro 147.997,10”; iv) ha validato le statuizioni del giudice di prime cure.

3. Avverso questa sentenza, ricorre per cassazione la Banca, affidandosi a sei motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.. Resistono, con controricorso, B.R., S.S. ed S.A., nella qualità di coeredi di S.G., e S.S. anche in proprio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso, rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.”, censura la decisione della corte territoriale nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di ultrapetizione, rispetto alla decisione di prime cure, sollevata dall’appellante. La Banca insiste nell’affermare che, con la citazione introduttiva, gli attori avevano chiesto l’accertamento della nullità/annullabilità dell’acquisto dei titoli predetti, ovvero la risoluzione del corrispondente contratto in forza del preteso grave inadempimento della odierna ricorrente, laddove, invece, il Tribunale di Salerno, aveva accolto la domanda dei primi dichiarando la diversa responsabilità precontrattuale di quest’ultima, così introducendo di imperio nel giudizio un nuovo tema di indagine che non era stato sollevato dagli istanti, nè era in alcun modo diventato oggetto del contraddittorio.

1.1. La doglianza non merita accoglimento.

1.2. Invero, costituisce orientamento consolidato di questa Corte quello per cui “il vizio di ultra o extra petizione ricorre quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, fermo restando che egli è libero non solo di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, ma di rilevare altresì, indipendentemente dall’iniziativa della parte convenuta, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge” (cfr., ex multis, Cass. n. 20931 del 2019; Cass. n. 15383 del 2010; Cass. n. 26999 del 2005). In altri termini, il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione, implica unicamente il divieto, per il giudice, di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti (cfr. Cass. n. 17897 del 2019Cass. n. 29200 del 2018).

1.2.1. In parte qua, dunque, la sentenza impugnata, che ha richiamato l’appena descritto indirizzo interpretativo, non merita censura, atteso che il giudice di prime cure aveva pronunciato su una specifica domanda risarcitoria comunque proposta (sebbene in via subordinata) dagli attori/odierni controricorrenti, valorizzando gli stessi fatti costituitivi dai medesimi allegati (violazione, da parte della Banca, dell’obbligo di informazione attiva), individuando l’esatta natura dell’azione e ponendo a base della decisione adottata considerazioni di diritto parzialmente diverse da quelle prospettate. La correttezza di questa interpretazione della domanda, operata dai giudici di merito, è confermata dall’esame degli atti di causa, consentito a questa Corte in presenza della denuncia di un error in procedendo, quale è quello di ultrapetizione.

2. Il secondo motivo del ricorso, rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Falsa applicazione dell’art. 2943 c.c., comma 4, e dell’art. 2947 c.c., comma 1”, investe l’avvenuto rigetto, da parte della corte territoriale, dell’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno per responsabilità precontrattuale come proposta dalla Banca. Ricordato che quella corte, esaminando quanto dedotto dagli appellati, aveva rilevato che, nella indicata lettera del 27 dicembre 2005 inoltrata alla Banca, l’Avv. Marcello Murolo aveva richiesto, per conto di S. e S.G., la restituzione della maggiore somma di Euro 364.270,99, oltre interessi, per acquisto di titoli comprensivi di CIRIO s.p.a. per Euro 147.997,00, sicchè quel documento privava “di valore giuridico l’eccezione di intervenuta prescrizione quinquennale del credito azionato”, la ricorrente sostiene che, così opinando, la medesima corte, “…peraltro con una motivazione carente sul piano logico formale, ha attribuito valenza interruttiva ad un atto del tutto generico, senza tenere conto e rilevare che la comunicazione del 27.12.2005: a) non era inviata nell’interesse della parte attrice B.R.; b) configurava una semplice richiesta di restituzione collegata a due acquisti, e non dei soli titoli CIRIO”. Inoltre, “nella comunicazione non erano indicati i motivi, ovvero i pretesi inadempimenti, che venivano posti a base della richiesta di restituzione della maggiore somma di Euro 364.270,99 oltre interessi per acquisto di titoli compresivi di CIRIO s.p.a. per Euro 147.997,00, somma quest’ultima poi richiesta solo nel capo e) delle conclusioni del libello introduttivo del giudizio di primo grado”. Infine, i due investimenti erano stati ivi indicati “con la sola denominazione, omettendo, però, il codice ISIN che è la sequenza attribuita a livello internazionale ad ogni strumento finanziario, configurando, quindi, l’unico elemento in grado di individuare con certezza le obbligazioni contestate”.

2.1. Questa doglianza è in parte inammissibile ed in parte infondata.

2.1.1. E’ inammissibile laddove si risolve, sostanzialmente, in una censura all’apprezzamento del contenuto di un documento (peraltro non integralmente riprodotto in ricorso, nè corredato di puntuali indicazioni necessarie alla sua individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente ad esso, come pervenuto presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la sua acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità. Cfr. Cass., SU, n. 34469 del 2019) – la già citata richiesta del 27 dicembre 2005, inoltrata alla Banca dall’Avv. Marcello Murolo, in nome e per conto di S.S. e di S.G. – operato dal giudice a quo, cui la Banca intenderebbe opporre, affatto inammissibilmente (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019), sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione. Così operando, però, la ricorrente oblitera totalmente che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Essa, dunque, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr., ex multis, Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 26300 del 2018).

2.1.2. E’, invece, infondata nella parte in cui denuncia la mancanza di riferimento alla terza avente diritto ( B.R., moglie e madre degli altri due), perchè la signora agì in giudizio quale erede del marito, deceduto il (OMISSIS), mentre l’atto interruttivo risale al 27 dicembre 2005, onde la stessa non era ancora titolare della pretesa risarcitoria, acquisita solo successivamente iure hereditatis.

3. Il terzo motivo di ricorso è rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa decisione del motivo di gravame sulla violazione del D.Lgs. n. 25 febbraio 1998, n. 58, art. 94, commi 7, 8 e 9, T.U.F. (Prospetto d’offerta), e D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 129T.U.B. (Emissione di valori mobiliari) “. Si assume che la corte distrettuale aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva addebitato all’intermediario una violazione dell’art. 94 T.U.I.F. e dell’art. 129T.U.B., senza decidere il motivo di gravame della Banca volto a contestarne la sussistenza non essendo l’appellante soggetto collocatore o intermediario dei bond Cirio, nè ricorrendo alcuna ipotesi di sollecitazione al pubblico risparmio, neppure attraverso la cd. “offerta pubblica diretta”. Si deduce, in proposito, che la responsabilità per violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 94, commi 7, 8 e 9 (Prospetto d’offerta) (T.U.F.) e del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 129 (Emissione di valori mobiliari) (T.U.B.), ha causali ed impone oneri probatori per mandare indenne la Banca da responsabilità ben diversi dalle responsabilità che possono trovare causa nella presunta violazione degli obblighi informativi previsti dall’art. 21 TUF e art. 28 Reg. Consob n. 11522/1998: normativa che si applica quando il rapporto tra investitore ed intermediario è stato unicamente di “ricezione e trasmissione di ordini” come nel caso de quo era realmente avvenuto.

3.1. Anche questa censura non merita accoglimento.

3.2. Invero, si è già precedentemente ricordato che il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato comporta il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda di merito.

3.2.1. Va da sè che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica, in particolare, quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione (cfr. Cass. n. 15707 del 2018, in motivazione; Cass. n. 17956 del 2015; Cass. n. 21612 del 2013; Cass. n. 20311 del 2011). In particolare, poi, il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorchè manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre ove il giudice d’appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la censura stessa (cfr. Cass. n. 452 del 2015; Cass. n. 16254 del 2012).

3.3. E’ opportuno premettere, poi, che il rapporto dedotto in causa si è svolto in epoca antecedente al recepimento delle direttive comunitarie n. 39 del 2004 e n. 73 del 2006 (cd. direttiva MiFid), poi integrate dal regolamento n. 1283 del 2006. Si farà, perciò, riferimento alla disciplina dettata dal T.U.F. del 1998 e dal regolamento Consob vigente prima delle modifiche apportate per adattarlo alle suddette nuove direttive.

3.3.1. Orbene, come emerge dalla sentenza oggi impugnata, il giudice di prime cure: i) aveva accertato che la vendita dei titoli era stata effettuata dalla Banca, attraverso il meccanismo della “offerta pubblica indiretta”, in periodo di “grey market”; aveva ritenuto che l’intermediario avesse violato gli obblighi informativi su di lui incombenti.

3.3.2. La corte di appello, a sua volta, ha sostanzialmente opinato che, nella specie: i) si era trattato di una negoziazione individuale, basata su di un contratto quadro, piuttosto che di offerta al pubblico; era pacifico che S.G. e S.S. non fossero investitori professionali.

3.4. Ciò posto, l’art. 94, commi 1 e 2 T.U.F., nel testo ratione temporis vigente, prevede che “coloro che intendono effettuare una sollecitazione all’investimento ne danno preventiva comunicazione alla Consob, allegando il prospetto destinato alla pubblicazione”, il quale deve contenere “le informazioni che, a seconda delle caratteristiche dei prodotti finanziari e degli emittenti, sono necessarie affinchè gli investitori possano pervenire a un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria e sull’evoluzione dell’attività dell’emittente, nonchè sui prodotti finanziari e sui relativi diritti”. Per “sollecitazione all’investimento” si intende, a norma dell’art. 1, comma 1, lett. t) T.U.F., nel testo allora vigente, “ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari” (v., sul punto, anche il reg. Consob n. 11971 del 1999).

3.4.1. Il T.U.F. individua, quindi, la nozione di “sollecitazione all’investimento” e la distingue da quella, contenuta nell’art. 1, comma 5 T.U.F., riguardante i “servizi di investimento”, tra i quali è compresa l’attività di “negoziazione” (per conto proprio o di terzi) e di “ricezione e trasmissione di ordini”.

3.4.2. La distinzione tra le due figure si percepisce chiaramente se si guarda al contenuto e, soprattutto, ai destinatari della “sollecitazione all’investimento”, che è quella rivolta, secondo lo schema dell’art. 1336 c.c., ad un numero indeterminato ed indistinto di investitori in modo uniforme e standardizzato, cioè a condizioni di tempo e prezzo predeterminati (cfr., in tal senso, Cass. 18039 del 2012, richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 28175 del 2019). Quando l’offerta assuma queste caratteristiche, sussiste l’obbligo di pubblicazione del prospetto, sia nel caso di accordo in tal senso tra l’emittente e l’intermediario (nell’ambito del cd. servizio di collocamento), sia ove l’intermediario, realizzi, di fatto, un’attività promozionale di offerta, volta ad indurre la clientela retail all’acquisto dei titoli mediante la formulazione di proposte standardizzate, ai fini della conclusione di transazioni non “negoziate” con i clienti (operazione questa che, anche secondo la Consob, presenta i connotati dell’offerta al pubblico: v. Comunicazione DAL/97006042 del 9 luglio 1997).

3.4.3. In altri termini, la diffusione di strumenti finanziari presso il pubblico non implica necessariamente il ricorso a modalità sollecitatorie, potendo i titoli raggiungere la clientela attraverso la prestazione di servizi di investimento, cioè attività di negoziazione, ricezione e trasmissione di ordini, a condizioni diverse a seconda dell’acquirente e del momento in cui l’operazione è eseguita. La tutela del cliente è affidata, in tal caso, non già al prospetto informativo, ma all’adempimento, da parte dell’intermediario, di obblighi informativi specifici e personalizzati, ai sensi dell’art. 21 T.U.F. e art. 26 e ss. del reg. Consob n. 11522 del 1998.

3.5. Nella odierna vicenda, allora, una volta escluso dalla corte distrettuale che la Banca avesse realizzato, eventualmente anche in via di fatto, un’attività di sollecitazione all’investimento (circostanza su cui sembra convenire anche la censura in esame, laddove rimarca che, con il motivo di gravame il cui esame sarebbe stato asseritamente omesso, l’appellante aveva contestato di essere “…soggetto collocatore o intermediario dei bond Cirio, nè ricorrendo alcuna ipotesi di sollecitazione al pubblico risparmio, neppure attraverso la cd. “offerta pubblica diretta””. Cfr. pag. 10 dell’odierno ricorso), il dedotto rapporto non poteva che qualificarsi alla stregua di “negoziazione di titoli” in esecuzione di disposizioni di compravendita impartite dal cliente, sicchè la tutela di quest’ultimo era affidata all’adempimento, da parte dell’intermediario, dei predetti obblighi di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 (T.U.F.) e art. 26 ss. reg. Consob n. 11522 del 1998, benchè la negoziazione individuale fosse avvenuta nel periodo del cd. grey market, cioè prima che i titoli fossero emessi ufficialmente (cfr. Cass. n. 7575 del 2019; Cass. n. 8733 del 2016; Cass. n. 18039 del 2012).

3.5.1. Pertanto, non sussiste l’omessa decisione come oggi denunciata nella doglianza in esame, nè, comunque, la stessa, ove pure astrattamente configurabile, potrebbe considerarsi decisiva, nei sensi auspicati dalla Banca, alla stregua delle suesposte argomentazioni.

4. Il quarto motivo di ricorso è rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, falsa applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, lett. a), b), in relazione all’art. 28, comma 2 del regolamento Consob 11522/98, ed artt. 1176 e 1178 c.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. nonchè del combinato disposto dell’art. 2697 c.c. e D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6”. Si censura la decisione impugnata laddove ha addebitato alla Banca, nella ricezione dell’ordine di acquisto di bond Cirio, di non aver documentalmente provato di avere fornito agli ordinanti S. le informazioni sulla relativa rischiosità e sulla inadeguatezza dell’operazione rispetto al profilo di rischio degli investitori. Si sostiene, inoltre (cfr. pag. 11 del ricorso), che la corte territoriale “…ha avanzato detto addebito senza peraltro indicare a quali informazioni… intendeva riferirsi e dove la Banca poteva reperirle. Si è quindi in presenza di una decisione che, oltre a presentare gravi lacune motivazionali, ha omesso ogni disamina su quanto era stato controverso tra le parti in prime cure ed oggetto di preciso motivo di gravame”.

4.1. Giova, allora, premettere che l’effettiva ratio decidendi della decisione predetta va ricercata nel fatto che la Banca doveva astenersi dall’effettuare l’investimento richiesto dai S., essendo venuta meno all’obbligo di comunicare a questi ultimi tutte le notizie conoscibili in base alla necessaria diligenza professionale e le specifiche ragioni idonee a rendere l’operazione inadeguata rispetto al profilo di rischio degli investitori, ivi comprese quelle attinenti al pericolo di default dell’emittente.

4.2. A fronte di ciò, la descritta doglianza, per come concretamente argomentata, si rivela complessivamente inammissibile.

4.3. In primo luogo, infatti, le “svariate relazioni prodotte e redatte da diversi soggetti (Banca d’Italia, Commissari Giudiziali per l’ammissione della Cirio Finanza s.p.a. alla procedura di amministrazione straordinaria, Consob)”, dalla cui lettura non si sarebbe rinvenuto alcun elemento tale da poter affermare che, alla data del gennaio 2001, la Banca potesse avere sentore dell’avanzato stato di dissesto del Gruppo Cirio, non sono state riprodotte in ricorso, nè se ne è indicata la relativa ubicazione tra gli atti di causa. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, però, “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (cfr. Cass., SU, n. 34469 del 2019).

4.4. La censura, inoltre, si risolve, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale ed al successivo suo apprezzamento come effettuati dalla corte distrettuale (e dal giudice di prime cure) circa la mancata puntuale osservanza degli obblighi informativi tutti (riguardanti la rischiosità dell’acquisto dei bond Cirio e la inadeguatezza dell’operazione, conclusa, peraltro, in periodo di grey market, rispetto al profilo di rischio degli investitori) gravanti sulla Banca, cui quest’ultima intenderebbe opporre, inammissibilmente (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019), sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, una diversa valutazione. Così operando, però, la ricorrente ancora una volta non considera che: i) la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Essa, dunque, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr., ex multis, Cass. n. 195 del 2016; Cass., n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass. n. 26300 del 2018); il) la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza pubblicata il 26 maggio 2015), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicchè sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017), altresì ricordandosi che neppure costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

4.5. Va qui solo rimarcato che le argomentazioni complessivamente spese, sul punto, dalla corte distrettuale, ed i corrispondenti principi da essa richiamati, si rivelano assolutamente coerenti con il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di intermediazione finanziaria, la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6, impone all’investitore, il quale lamenti la violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario, nel quadro dei principi che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova, di allegare specificamente l’inadempimento di tali obblighi, mediante la pur sintetica ma circostanziata individuazione delle informazioni che l’intermediario avrebbe omesso di somministrare, nonchè di fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra inadempimento e danno, nesso che sussiste se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole; incombe invece sull’intermediario provare che tali informazioni sono state fornite, ovvero che esse esulavano dall’ambito di quelle dovute (cfr. tra le più recenti ed esaustive sul tema, Cass. n. 10111 del 2018).

5. Il quinto motivo di ricorso – rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ed art. 161 c.p.c. per omessa/incomprensibile motivazione – Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 26, comma 6, nonchè artt. 2697 e 2056 c.c.” – ribadisce, anche con riferimento al decisum della corte salernitana, l’insussistenza, già ascritta alla sentenza di primo grado (che, affatto aprioristicamente, nonostante l’esistenza di un alto profilo speculativo di S.G. e l’esistenza di numerosi investimenti ad alto rischio, aveva ritenuto che in caso di corretta informativa quest’ultimo non avrebbe proceduto all’investimento in bond Cirio), di motivazione in relazione all’avvenuta quantificazione del danno liquidato agli originari attori, e, comunque, l’omissione di qualsivoglia indagine giustificativa della ritenuta sussistenza del nesso causale tra lo stesso e l’inadempimento ascritto alla Banca.

5.1. Trattasi, però, di doglianza immeritevole di accoglimento, pur dovendosi procedere alla integrazione, in parte qua, della motivazione in diritto della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

5.2. Invero, la corte territoriale, dopo aver ribadito il mancato, puntuale adempimento, ad opera dell’appellante, di tutti gli obblighi informativi gravanti su quest’ultima, ha ritenuto (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata) che “…tale comportamento bancario, non tutelato da alcun ordine scritto, produsse l’acquisto di quantità di titoli Cirio s.p.a. 8% EUR al valore nominale di Euro 141.000 al prezzo di esecuzione di Euro 147.915,77, e con un totale a debito di Euro 147.997,10”. Successivamente, ha richiamato i principi giurisprudenziali alla cui stregua, a suo dire, dovevano considerarsi disciplinate “le conseguenze patrimoniali ricadenti sulla Banca”: tra questi, quello tratto da Cass. n. 29864 del 2011, a tenore del quale “Nella prestazione del servizio di negoziazione di titoli, qualora l’intermediario abbia dato corso all’acquisto di titoli ad alto rischio senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente, il danno risarcibile consiste nell’essere stato posto a carico di detto cliente un rischio che, presumibilmente, egli non si sarebbe accollato. Tale danno può essere liquidato in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento dell’acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria, solo se non risulti che, dopo l’acquisto, ma già prima della proposizione di detta domanda, il cliente, avendo avuto la possibilità con l’uso dell’ordinaria diligenza di rendersi autonomamente conto della rischiosità dei titoli acquistati, nè sussistendo impedimenti giuridici o di fatto al disinvestimento, li abbia, tuttavia, conservati nel proprio patrimonio: nel qual caso, il risarcimento deve essere commisurato alla diminuzione del valore dei titoli tra il momento dell’acquisto e quello in cui l’investitore si è reso conto, o avrebbe potuto rendersi conto, del loro livello di rischiosità”.

5.3. Fermo quanto precede, rileva il Collegio che, come si è già anticipato, grava sul cliente investitore l’onere della prova del nesso di causalità tra l’inadempimento dell’intermediario (nella specie ai sopra descritti obblighi informativi) ed il danno: onere della prova la cui osservanza, versandosi in ipotesi di causalità omissiva, va scrutinata, in ossequio alla regola del “più probabile che non”, attraverso l’impiego del giudizio controfattuale, e, cioè, collocando ipoteticamente in luogo della condotta omessa quella legalmente dovuta, così da accertare, secondo un giudizio necessariamente probabilistico condotto sul modello della prognosi postuma, – giudizio che ben può muovere dalla stessa consistenza dell’informazione omessa (cfr. Cass. n. 12544 del 2017), riguardata attraverso la lente dell’id quod plerumque accidit – se, ove adeguatamente informato, l’investitore avrebbe desistito dall’investimento rivelatosi poi pregiudizievole. Tale giudizio, per sua natura, non si presta alla prova diretta, ma solo a quella presuntiva, occorrendo desumere (nel rispetto del paradigma di gravità, precisione e concordanza previsto dall’art. 2729 c.c.) dai fatti certi emersi in sede istruttoria se l’investitore avrebbe tenuto una condotta, quella consistente nel recedere all’investimento, ormai divenuta nei fatti non più realizzabile (cfr. Cass. n. 17194 del 2016). Sul cliente investitore, infine, grava, ovviamente, pure la prova del danno (cfr. Cass. n. 10118 del 2018).

5.3.1. Nella specie, la corte di merito, diversamente da quanto sostenuto dalla odierna ricorrente, ha evidentemente ravvisato il danno nella perdita della somma investita a causa di un investimento che, presumibilmente, i clienti (pacificamente non investitori professionali) non avrebbero autorizzato se fossero stati informati in modo corretto.

5.3.2. E’ un ragionamento conforme a diritto, tenuto conto che, come condivisibilmente chiarito da Cass. n. 29353 del 2018 (cfr. pag. 5-6 della motivazione), “…in presenza di un comportamento illegittimo dell’intermediario, l’investitore inconsapevole si trova esposto ad un rischio che avrebbe potuto essergli accollato solo a seguito di adeguate informazioni. Il danno consiste nel rischio di perdita del capitale investito che il cliente ben informato non si sarebbe presumibilmente addossato, o almeno non in quella misura. E poichè il legislatore, nel dettare la normativa di settore in materia, muove dal presupposto che dette informazioni sono invece necessarie all’effettuazione di scelte d’investimento effettivamente consapevoli ed oculate, deve presumersi, fino a prova contraria, che quel rischio il cliente non lo avrebbe corso se fosse stato informato come si doveva. E’ dunque corretto far riferimento alla successiva perdita di valore del titolo per quantificare il danno subito dall’investitore il quale si sia trovato esposto al rischio di quella perdita per un fatto imputabile all’intermediario (Cass. n. 29864/2011)…”.

5.3.3. In altri termini, come sottolinea in modo particolare l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di questa Corte, la normativa relativa al settore dei servizi di investimento pone un’incisiva serie di doveri informativi a carico degli intermediari: l’imposizione dei questi compiti non è fine a sè stessa, ma è direttamente funzionale, invece, a far acquisire al cliente l’effettiva consapevolezza dell’investimento, che viene concretamente in rilievo.

5.3.3.1. Poste le prescrizioni di cui al TUF (come formate, prima di tutto, dalle clausole generali di cui all’art. 21) e della disciplina regolamentare, come pure la specifica finalità di protezione del cliente (inteso come risparmiatore che investe, secondo la prospettiva tracciata, nel vertice, dall’art. 47 Cost.), si deve dunque “ritenere che, nell’economia della singola operazione, l’obbligo informativo assuma rilievo determinante, essendo diretto ad assicurare scelte di investimento realmente consapevoli; per modo che, in assenza di un consenso informato dell’interessato, il sinallagma del singolo negozio di investimento manchi di trovare piena attuazione” (cfr., tra le altre, Cass. n. 4727 del 2017, successivamente richiamata, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 24142 del 2018).

5.3.3.2. La prescrizione (legale e poi regolamentare) di peculiari e pregnanti doveri informativi a carico degli intermediari e nell’interesse dei clienti risparmiatori, con particolare riguardo ai titoli di cui ai possibili investimenti, attinge a propria ragione d’essere la funzione di orientamento verso scelte di investimento che siano consapevoli e ragionevoli. Di conseguenza, la condotta dell’intermediario, che trascura di assolvere i doveri impostogli dalla legge, “si manifesta, in sè stessa, come fattore di disorientamento del risparmiatore; cioè, di uno scorretto orientamento di questi verso le scelte di investimento” (cfr. Cass. n. 3914 del 2018). Con la conseguenza che il riscontro della mancata prestazione dell’informazione, che risulta dovuta dall’intermediario, viene propriamente ad “ingenerare una presunzione di riconducibilità ad essa dell’operazione”, salva comunque restando la possibilità dell’intermediario di provare eventuali circostanze atte a interrompere tale nesso eziologico (cfr., ex aliis, in questa prospettiva, Cass. n. 7905 del 2020; Cass. n. 29353 del 2018; Cass. n. 24142 del 2018; Cass. n. 6920 del 2018; Cass. n. 5265 del 2018; Cass. n. 3914 del 2018; Cass. n. 20617 del 2017; Cass. n. 19417 del 2017; Cass. 14166 del 2017; Cass. n. 12544 del 2017; Cass. n. 23417 del 2016). Tale prova contraria, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perchè anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati (cfr. Cass. n. 7905 del 2020).

5.3.4. Questo principio si deve ribadire, rimarcandosi che, nella specie, a fronte dell’acclarato inadempimento della banca ai propri obblighi informativi, certamente determinanti in ordine alla formazione del consenso del cliente, non è stato dedotto l’intervento di fattori causali esterni, autonomamente idonei a determinare l’evento dannoso.

5.4. Va osservato, infine, che l’assunto della Banca secondo cui il danno doveva essere ridotto del deprezzamento dei titoli verificatosi dal momento in cui i S. avevano avuto la possibilità di rendersi conto del decremento degli stessi, alla data di proposizione della domanda, configura un’eccezione in senso proprio (cfr. Cass. n. 15750 del 2015), il cui esame è consentito al giudice solo se, sul punto, vi sia stata espressa domanda.

5.4.1. La sentenza oggi impugnata, però, nulla riferisce quanto alla formulazione nel corso del giudizio di merito, ad opera della convenuta/appellante, di analoga richiesta, nè l’odierna ricorrente ha puntualizzato se, ed eventualmente con quale atto, ciò fosse effettivamente avvenuto, sicchè quell’assunto deve in questa sede considerarsi inammissibile.

6. Il sesto motivo di ricorso – rubricato “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – Falsa applicazione degli artt. 2056 e 1224 c.c.” – censura la decisione impugnata per avere ritenuto legittima la liquidazione del danno da svalutazione monetaria.

6.1. La relativa doglianza, però, è infondata, posto che il credito risarcitorio – tale essendo la natura attribuita dai giudici di merito a quello riconosciuto attori/odierni controricorrenti – costituisce notoriamente un debito di valore, come tale suscettibile di rivalutazione monetaria.

7. Infine, la richiesta di emissione di provvedimenti di restituzione delle somme pagate in esecuzione delle sentenze di merito (cfr. pag. 22 del ricorso, parag. VII) deve considerarsi assorbita in considerazione dell’esito di questo procedimento.

8. In definitiva, il ricorso va respinto, restando le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, regolate dal principio di soccombenza, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte della Banca ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, coma 1 bis se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la Deutsche Bank s.p.a. al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dai controricorrenti, liquidate in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima Banca, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione Prima civile della Corte Suprema di cassazione, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2020

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