Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16119 del 03/08/2016

Cassazione civile sez. VI, 03/08/2016, (ud. 11/05/2016, dep. 03/08/2016), n.16119

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28226-2014 proposto da:

B.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA

38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO M. SPINAZZOLA giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore

speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI)

SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29,

presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso

dagli avvocati ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO,

CARLA D’ALOISIO giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3987/2013 della CORTE D’APPELLO di BARI del

25/11/2013, depositata i127/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’11/05/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito l’avvocato Mario Romano (delega avv. Francesco Spinazzola)

difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

udito l’Avvocato Emanuele De Rose difensore del controricorrente che

si riporta agli scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio dell’1 l maggio 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.: “La Corte di appello di Bari, pronunziando sull’appello di B.V., ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto dell’opposizione del B. avverso cartella esattoriale scaturita dall’iscrizione a ruolo di somme pretese dall’INPS a titolo di contributi previdenziali per personale dipendente relativi al periodo maggio 1996/ dicembre 2000.

Il decisum del giudice di appello, per quel che rileva, è stato fondato sulle seguenti considerazioni: la eccezione di interruzione del termine di prescrizione in quanto eccezione in senso lato può essere rilevata d’ufficio in qualunque stato e grado del processo purchè tale rilievo sia basato su prove ritualmente acquisite agli atti; nel caso di specie l’INPS si è costituito tardivamente per cui è decaduto dalla possibilità di documentare la esistenza di atti interruttivi della prescrizione; la esistenza di siffatti atti interruttivi risulta comunque dai documenti ritualmente e tempestivamente prodotti dall’opponente e in particolare dalla copia del ricorso amministrativo avverso il verbale di accertamento INPS alla base dell’emissione della cartella opposta; in tale ricorso si fa riferimento alla visita ispettiva del 25.10.2000 ed al conseguente verbale di accertamento del 28.2.2001, notificato il 3.3.2001); il giudice di prime cure ha fatto corretta applicazione dei poteri istruttori di ufficio ammettendo l’escussione del teste Mazza, ispettore verbalizzante; ha errato,invece, nel ridurre la lista testimoniale per cui nel giudizio di appello è stata ammessa la prova orale con i lavoratori in relazione ai quali è stata contestata l’omissione contributiva. Le dichiarazioni dei detti testi, i quali in sede istruttoria hanno riferito di essere stati assunti “in prova”, si pongono in contrasto con quanto, nell’immediatezza, dagli stessi riferito all’ Ispettore; in tale contesto, infatti, i lavoratori i avevano dichiarato di essere dipendenti del B. specificando mansioni, durata del rapporto, orario lavorativo e retribuzione percepita; le dichiarazioni rese in sede istruttoria non sono attendibili in quanto del tutto contrastanti con quanto riferito in maniera chiara e specifica agli Ispettori nell’immediatezza dei fatti; del resto, se fosse stato vero che detti lavoratori erano “in prova”sarebbe stato agevole per il titolare della ditta fornire dimostrazione scritta dell’esistenza di un contratto di prova con le lavoratrici non denunciate, dovendosi evidenziare che gli ispettori hanno dichiarato di avere “trovato al lavoro” le dette lavoratrici.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso B.V. sulla base di tre motivi.

Con il primo motivo ha dedotto violazione e falsa applicazione di principi e norme di diritto in ordine all’art. 416 c.p.c., comma 3, dell’art. 421 c.p.c. e dell’art. 2943 c.c. Ha censurato la decisione per non avere rilevato la decadenza dell’INPS dalle prove non tempestivamente allegate e per avere configurato la eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato anzichè in senso stretto. Ha dedotto violazione da parte del giudice di appello del divieto di novum di cui all’art. 437 c.p.c..

Con il secondo motivo di ricorso ha dedotto violazione e falsa applicazione di principi e norme di diritto in ordine agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2967 c.c.. Ha censurato la valutazione di inattendibilità dei lavoratori ancorata al contrasto tra quanto dichiarato in sede di escussione testimoniale e quanto riferito agli Ispettori in sede di verifica ispettiva. In questa prospettiva ha dedotto che l’INPS non aveva offerto la prova della pretesa contributiva in quanto l’ispettore verbalizzante si era limitato a confermare di avere effettuato l’accertamento e sottoscritto il relativo verbale. Ha richiamato, quindi, il principio affermato da questa Corte secondo il quale l’efficacia privilegiata dei verbali di accertamento non si estende alla intrinseca veridicità delle dichiarazioni raccolte dagli ispettori. Ha quindi ampiamente argomentato in ordine alla valutazione del materiale istruttorio da parte del giudice di appello, dolendosi in particolare della mancata considerazione da parte di questi delle “dichiarazioni notorie sottoscritte dai lavoratori e prodotte dall’opponente sin dal ricorso amministrativo”.

Con il terzo motivo ha dedotto contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo censurando la decisione impugnata in quanto asseritamente viziata da un preconcetto sull’atteggiamento dei lavoratori coinvolti nella vicenda e per avere trascurato il materiale probatorio raccolto in appello privilegiando la veridicità di quanto accaduto dinanzi agli ispettori INPS. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. E’ innanzitutto da ritenere consolidata la giurisprudenza di questa Corte che configura la eccezione di interruzione della prescrizione come eccezione in senso lato. Invero a partire da ss.uu. n. 15661 del 2005, con l’isolata eccezione di Cass. n. 5872 del 2011, è stato da questa Corte ripetutamente affermato che, poichè nel nostro ordinamento le eccezioni in senso stretto, cioè quelle rilevabili soltanto ad istanza di parte, si identificano o in quelle per le quali la legge espressamente riservi il potere di rilevazione alla parte o in quelle in cui il fatto integratore dell’eccezione corrisponde all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio da parte del titolare e, quindi, per svolgere l’efficacia modificativa, impeditiva od estintiva di un rapporto giuridico suppone il tramite di una manifestazione di volontà della parte (da sola o realizzabile attraverso un accertamento giudiziale), l’eccezione di interruzione della prescrizione integra un’eccezione in senso lato e non in senso stretto e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti, dovendosi escludere, altresì, che la rilevabilità ad istanza di parte possa giustificarsi in ragione della (normale) rilevabilità soltanto ad istanza di parte dell’eccezione di prescrizione, giacchè non ha fondamento di diritto positivo assimilare al regime di rilevazione di una eccezione in senso stretto quello di una controeccezione, qual è l’interruzione della prescrizione. (v. Cass. n. 18250 del 2009, n. 16452 del 2010;, ord. n. 4238 del 2011, n. 18602 del 2013).

Da tali principi discende che: la tardiva costituzione dell’INPS in primo grado non precludeva la proposizione dell’eccezione di interruzione della prescrizione o il suo rilievo d’ufficio; la deduzione di inammissibilità, in quanto tardiva, della documentazione prodotta dall’INPS, risulta inconferente posto che il giudice di appello ha ritenuto interrotto il decorso del termine prescrizionale sulla base della documentazione ritualmente prodotta dalla parte ricorrente e non su quella tardiva dell’INPS, dovendosi altresì rilevare che il riferimento a tale documentazione al fine della verifica dell’effetto interruttivo del termine prescrizionale non è stata investita da specifica censura.

Il secondo motivo di ricorso è anch’esso manifestamente infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte nel giudizio promosso dal contribuente per l’accertamento negativo del credito previdenziale, incombe sull’INPS l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva che l’Istituto fondi su un rapporto ispettivo. A tal fine, il rapporto ispettivo dei funzionari dell’ente previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi da cui trae origine, restando, comunque, liberamente valutabile dal giudice in concorso con gli altri elementi probatori (cfr., n. 28126 del 2013, non massimata; Cass. n. 14965 del 2012, Cass. n. 22862 del 2010). La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione delle regole sopra enunciate in quanto la ritenuta maggiore attendibilità delle dichiarazioni rese dai lavoratori all’ispettore dell’INPS rispetto a quanto dagli stessi dichiarato in sede di escussione testimoniale è frutto della libera valutazione del materiale probatorio e non dell’assunto di una efficacia probatoria privilegiata (anche quanto alle circostanze riferite) conferita alle dichiarazioni raccolte dagli Ispettori verbalizzanti.

Nella sentenza impugnata non si rinvengono affermazioni in contrasto con i richiamati principi di questa Corte e con le norme invocate, nè nell’illustrazione del secondo motivo parte ricorrente le individua. Il vizio di violazione di legge, pertanto, non è dedotto con le modalità richieste dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., n. 16038 del 2013, n. 5353 del 2007, n. 828 del 2007; n. 1063 del 2005, n. 8106 del 2006).

Il terzo motivo di ricorso risulta inammissibile per più profili. Innanzitutto la modalità di deduzione del vizio di motivazione non è coerente con la attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, razione temporis applicabile alla fattispecie in esame in ragione della data di pubblicazione – il 27.1.2014 – della decisione di secondo grado.

Come chiarito da Cass. ss.uu. 8053 del 2014, controllo previsto dal nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). In conseguenza la parte ricorrente sarà tenuta ad indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la detisivtà del fatto stesso.

L’odierno ricorrente non ha sviluppato il motivo di ricorso in termini coerenti con tali prescrizioni. Non ha infatti indicato alcun fatto storico, oggetto di discussione tra le parti, avente rilevanza decisiva, il cui esame è stato omesso dal giudice di appello. Invero la illustrazione delle censure è incentrata essenzialmente sulla critica, sotto il profilo della inadeguatezza e insufficienza della motivazione, alla valutazione del materiale probatorio. Essa tende, quindi, a sollecitare un diverso apprezzamento di fatto delle risultanze di causa, attività preclusa al giudice di legittimità. Questa Corte, infatti, già nel vigore dell’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo anteriore a quello attuale, aveva infatti ripetutamente affermato che, la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonchè scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008, n.15489 del 2007, n. 20455 del 2006, n. 20322 del 2005, n. 2537 del 2004).

In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto in quanto manifestamente infondato.

Ritiene questo Collegio che le considerazioni svolte dal Relatore, non inficiate dalla memoria depositata dalla parte ricorrente, sono del tutto condivisibili siccome coerenti alla ormai consolidata giurisprudenza in materia.

Sussiste quindi il presupposto dell’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5, per la definizione camerale.

A tanto consegue il rigetto del ricorso. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione all’INPS delle spese che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, Euro, 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2016

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