Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16115 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/06/2021, (ud. 12/03/2021, dep. 09/06/2021), n.16115

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5964 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

Autocenter s.r.l., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso,

dall’Avv. De Santis Francesco Italico, elettivamente domiciliata in

Roma, Piazza Cola di Rienzo, n. 69, presso lo studio dell’Avv.

Cosenza Ermelinda;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Lazio, sezione staccata di Latina, n. 5200/40/14,

depositata in data 19 agosto 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 12

marzo 2021 dal Consigliere Triscari Giancarlo.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Autocenter s.r.l. degli avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni di imposta 2004 e 2006, aveva contestato la contabilizzazione di fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti emesse nei suoi confronti da Errebi s.r.l. e Rossi Auto s.r.l., con conseguente recupero a tassazione delle maggiori imposte non versate; avverso gli atti impositivi la società aveva proposto ricorso che era stato parzialmente accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Frosinone, che aveva ritenuto indeducibili i costi relativi agli acquisti effettuati e detraibile l’Iva; la società e l’Agenzia delle entrate avevano proposto appello;

la Commissione tributaria regionale, previa riunione degli appelli, li ha accolti parzialmente, in particolare: ha ritenuto infondata l’eccezione della società di tardività e di improcedibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate; ha accolto l’appello della società, avendo riconosciuto la deducibilità dei costi; ha accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate, avendo accertato che l’amministrazione finanziaria aveva assolto all’onere di provare la conoscibilità, da parte della società, della natura fraudolenta delle operazioni e che, d’altro lato, la società non aveva offerto adeguata prova contraria; Autocenter s.r.l. ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi di censura, illustrato con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

preliminarmente, va accolta l’eccezione di tardività del controricorso proposta dalla ricorrente in memoria;

invero, ai sensi dell’art. 370, c.p.c., le parti contro le quali il ricorso è diretto, se intende conl:raddire, deve farlo mediante controricorso da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso;

l’art. 369 c.p.c., comma 1, prevede che il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto;

questa Corte (Cass. civ., 2 febbraio 2016, n. 1958)o ha precisato che l’art. 369 c.p.c., stabilendo che il deposito va eseguito entro venti giorni dall'”ultima notificazione”, deve essere interpretato nel senso che per “ultima notificazione” deve intendersi quella eseguita nei confronti d’una delle più controparti cui il ricorso deve essere notificato e non lo sia ancora stato in precedenza, non già quella reiterata nei confronti della medesima parte, a meno che la prima notificazione alla medesima parte non debba essere considerata viziata da nullità. Invero, la norma menzionata esplicitamente ricollega la decorrenza del termine dall’ultima notificazione all’esistenza di una pluralità di parti, con ciò escludendola nel caso in cui il ricorso debba essere notificato ad una sola parte;

nella fattispecie, il ricorso risulta notificato più volte alla medesima parte, sebbene presso la direzione centrale e quella periferica dell’Agenzia delle entrate, sicchè rileva la prima notifica avvenuta in data 5 marzo 2015, peraltro presso l’ufficio che risulta avere partecipato al giudizio di appello;

il termine ultimo per la notifica del controricorso scadeva, quindi, il 14 aprile 2015 e, pertanto, la notifica del controricorso, avvenuta il 15 aprile 2015, è da considerarsi tardiva, con conseguente inammissibilità del controricorso;

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione di legge, non avendo il giudice del gravame pronunciato sulla eccezione di inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, consistente nella mancata pronuncia sulla questione relativa alla inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate;

il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile;

con riferimento al primo profilo di censura, relativo alla violazione di legge, va precisato che, in sostanza, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 333 c.p.c., avendo l’amministrazione finanziaria proposto appello nonostante avesse già ricevuto la notifica dell’appello da parte della società;

va quindi osservato che il giudice del gravame ha chiaramente evidenziato di ritenere infondata sia l’eccezione pregiudiziale di tardività che quella di improcedibilità proposte dalla ricorrente, dando rilevanza al fatto, ritenuto decisivo, della spedizione dell’atto di appello da parte dell’Agenzia delle entrate in data 28 aprile 2011; sotto tale profilo, la pronuncia del giudice del gravame è conforme al costante orientamento di questa Corte (Cass. civ., 21 ottobre 2019, n. 26811) secondo cui l’appello proposto in via principale da chi, essendo stata la sentenza già impugnata da un’altra parte, avrebbe potuto proporre soltanto appello incidentale, non è inammissibile, ma può convertirsi, per il principio di conservazione degli atti giuridici, in gravame incidentale, purchè depositato nel termine prescritto per quest’ultima impugnazione;

con specifico riferimento al processo tributario, si è precisato che la regola, posta dal D.Lgs. n. 546 del 1991, art. 54, comma 2, secondo la quale l’appello incidentale può essere proposto, “a pena d’inammissibilità”, nell’atto di controdeduzioni, da depositare entro sessanta giorni dalla notifica dell’impugnazione principale, ha un’efficacia endoprocessuale, come l’analoga norma dettata in via generale dall’art. 343 c.p.c., nel senso che, dopo il deposito dell’atto di controdeduzioni o della comparsa di risposta, non è più ammissibile la proposizione dell’impugnazione incidentale (salvo il caso previsto dall’art. 343 c.p.c., comma 2): ciò tuttavia non comporta, purchè sia rispettato il termine prescritto per.l’impugnazione incidentale, l’inammissibilità dell’appello erroneamente proposto in via principale da chi, essendo stata la sentenza già impugnata da un’altra parte, avrebbe potuto proporlo solo incidentalmente (Cass. civ., 19 maggio 2006, n. 11809);

sotto tale profilo, poichè la stessa ricorrente precisa che il proprio appello era stato notificato in data 15 aprile 2011, correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate non fosse neppure inammissibile, atteso che lo stesso è stato notificato in data 28 aprile 2011, dunque entro il termine di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23 e 54;

il diverso profilo di censura, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso per il giudizio, consistente nella mancata pronuncia sulla questione relativa alla inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate, è inammissibile;

va, invero, precisato che il vizio di motivazione, peraltro non correttamente proposta dalla ricorrente secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), antecedente all’intervento normativo di cui al D.L. n. 93 del 2012, art. 54, attiene unicamente all’accertamento ed alla valutazione di fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, sicchè non correttamente è prospettato in questa sede al fine di far valere la mancata pronuncia sulla questione di improcedibilità dell’appello;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;

in particolare, parte ricorrente lamenta, in primo luogo, che il giudice del gravame non avrebbe accertato l’esistenza di specifiche e concrete prove, il cui onere gravava sull’amministrazione finanziaria, idonee a ritenere che le operazioni fossero soggettivamente inesistenti e che la contribuente avesse preso parte al meccanismo fraudolento; inoltre, lamenta che il giudice del gravame non avrebbe preso in considerazione gli elementi di prova contraria che, a sua volta, la contribuente aveva prodotto al fine di contestare la propria consapevolezza di partecipare al meccanismo fraudolento e far accertare la propria buona fede;

sotto tale profilo, la ricorrente evidenzia di avere fornito la prova documentale relativa alla effettività delle operazioni di acquisto, alla propria buona fede e all’inesistenza di un accordo simulatorio, alla congruità del prezzo, alla esiguità del numero delle autovetture acquistate, alla esistenza di una pronuncia penale di assoluzione del legale rappresentante della società;

il motivo è inammissibile;

questa Corte ha più volte precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2002, artt. 54 e art. 54 convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alla presente controversia, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramutai in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U., 28 ottobre 2020, n. 23746; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014 n. 8053);

nella fattispecie, il giudice del gravame ha esaminato la questione della natura delle operazioni di cui alle fatture di acquisto ed ha ritenuto che le stesse erano soggettivamente inesistenti;

in particolare, ha tenuto conto degli elementi di prova presuntiva offerti dall’amministrazione finanziaria ed ha posto in evidenza che, sotto il profilo oggettivo, era da ritenersi provata l’assenza assoluta di strutture aziendali delle società cartiere e la sottofatturazione di queste le quali rivendevano, subito dopo, a prezzi inferiori a quelli di acquisto; tali circostanze, inoltre, sono state evidenziate anche ai fini della prova della consapevolezza della contribuente di partecipare ad un meccanismo fraudolento, avendo precisato che da esse, secondo criteri di normale diligenza, la contribuente avrebbe potuto rendersi conto dell’anomalia delle operazioni poste in essere;

inoltre, il giudice del gravame ha dato conto di avere tenuto in considerazione le prove contrarie offerte dalla contribuente al fine di provare la propria buona fede, ma ha ritenuto che le stesse non fossero idonee per contrastare la valenza probatoria delle prove presuntive prodotte dalla Agenzia delle entrate;

vi è da precisare, inoltre, che nel contesto della motivazione il giudice del gravame ha dato atto della circostanza che la contribuente aveva insistito sulla propria buona fede facendo riferimento all’effettività degli acquisti, all’esiguità del numero di autovetture acquistate nonchè alla esistenza della sentenza penale di assoluzione del legale rappresentante;

risulta, dunque, che il giudice del gravame ha motivato sia in ordine alla valenza della prova presuntiva fatta valere dall’amministrazione finanziaria che della prova contraria offerta dalla contribuente, ed ha proceduto ad una valutazione comparativa delle stesse, pervenendo alla conclusione della maggiore idoneità della prova dell’amministrazione finanziaria, avendo ritenuto che gli elementi di prova contraria della contribuente non fossero idonei ad accertare la propria buona fede;

la motivazione della sentenza, dunque, che ha deciso sulla questione della natura soggettivamente inesistente delle operazioni e sulla prova della consapevolezza della contribuente, non può dirsi viziata, non essendo riscontrabile una anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante;

peraltro, va altresì evidenziato che, con riferimento all’onere probatorio gravante sul contribuente, questa Corte ha precisato che è priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture, quanto sulle evidenze contabili dei pagamenti quanto, infine, sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perchè i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato. Si tratta, invero, di circostanze, le prime, già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente falsificabili), e, l’ultima, perchè riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass. civ., 20 aprile 2018, n. 9851);

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 19, nonchè della giurisprudenza unionale, per avere disconosciuto il diritto alla detrazione dell’Iva nonostante la prova della propria buona fede;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, si basa su di una prospettiva di fondo, la prova della propria buona fede, che il giudice del gravame ha ritenuto non provata, mentre ha ritenuto, di converso, che l’amministrazione finanziaria aveva, come era suo onere, fornito elementi di prova idonei a ritenere che la contribuente era consapevole di partecipare ad un meccanismo frodatorio;

sotto tale profilo, la sentenza del giudice del gravame si è conformata alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta;

la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente;

incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi;

pertanto, correttamente il giudice del gravame ha ritenuto che la contribuente non avesse diritto all’a detrazione Iva, atteso che l’ufficio aveva offerto idonea prova presuntiva in ordine agli elementi oggettivi e soggettivi delle operazioni soggettivamente inesistenti e, d’altro lato, nessuna idonea prova contraria era stata offerta dalla contribuente;

in conclusione, il primo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato, il secondo ed il terzo sono inammissibili, con conseguente rigetto del ricorso;

nulla sulle spese, attesa la tardività della costituzione della controricorrente;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso;

dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis” se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

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