Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16090 del 22/07/2011

Cassazione civile sez. trib., 22/07/2011, (ud. 24/03/2011, dep. 22/07/2011), n.16090

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.T., elettivamente domiciliata in Roma, via Panama 68,

presso lo studio dell’avv. Puoti Giovanni, che la rappresenta e

difende per procura in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Sardegna, sezione staccata di Sassari, n. 239/9/06 del 24/10-

21/11/2006.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dei

24/3/2011 dal Relatore Cons. Francesco Tirelli;

Uditi gli avv. Puoti ed Urbani Neri;

Sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

LA CORTE

osserva quanto segue:

Con atto notificato il 4/1/2008, C.T. ha proposto ricorso contro la sentenza in epigrafe indicata, chiedendone la cassazione con ogni consequenziale statuizione.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso e la controversia è stata decisa all’esito della pubblica udienza del 24/3/2011.

MOTIVI DELLA DECISIONE Dalla lettura della sentenza impugnata emerge in fatto che dopo aver definito ai sensi del D.P.R. n. 177 del 1995 il reddito d’impresa relativo agli anni 1992/1994, C.T. ha subito una verifica della G. d. F. al termine della quale l’Ufficio delle Entrate di Tempio Pausania le ha notificato un avviso di accertamento con cui le ha contestato di aver svolto, oltre all’attività dichiarata di vendita di carburanti, anche quella di concessione di prestiti dalla quale aveva ricavato, nell’anno 1992, un reddito di capitale pari a complessive L. 146.450.000.

La contribuente l’ha impugnato davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Sassari, che ha tuttavia rigettato il ricorso.

La C. si è allora gravata alla Commissione Regionale sostenendo che i pretesi finanziamenti avevano, in realtà, rappresentato delle semplici dilazioni di pagamento ai clienti, come d’altronde avvalorato dall’esito del processo penale iniziato nei suoi confronti e conclusosi, per l’appunto, nel senso della mancanza di prova in ordine alla effettiva concessione dei prestiti ed alla ricezione dei relativi interessi che in ogni caso, anche ove realmente incassati, avrebbero dovuto essere classificati come reddito d’impresa insuscettibile di formare oggetto di accertamento in conseguenza della pregressa definizione per adesione.

L’Ufficio ha insistito per la correttezza del proprio operato e la Commissione Regionale ha innanzitutto precisato che l’archiviazione del processo penale non poteva fare stato nel giudizio tributario, in relazione al quale andava ricordato che la Guardia di Finanza aveva scoperto la disponibilità, da parte della C., di ben 46 conti correnti, depositi e libretti sui quali erano stati versati assegni ed effetti per quasi un miliardo di cui non esisteva traccia nella contabilità d’impresa.

Proseguendo nelle indagini, la Guardia di Finanza aveva inoltre individuato numerose persone fisiche, imprenditori e società, che avevano specificato di essersi rivolti alla C. proprio al fine di ottenere, con “spese” ed “interessi”, dei finanziamenti che, per cause varie, non avrebbero potuto ricevere in banca.

Un’attività del genere, non poteva essere riguardata come una mera ramificazione di quella concernente la distribuzione di carburanti, anche perchè da essa indipendente oltre che relativa a movimenti di denaro che per il loro ammontare risultavano assolutamente incoerenti con l’andamento delle vendite dei carburanti, in ordine alle quali la C. aveva dichiarato un reddito di appena L. 3.591.000.

Tenuto conto di quanto sopra e considerato che l’effetto preclusivo dell’intervenuta definizione per adesione poteva riguardare soltanto i redditi ritratti dall’impresa dichiarata e, cioè, da quella su cui si era formato l’accordo delle parti e non dall’ ulteriore attività svolta dalla contribuente di nascosto ed al di fuori di ogni autorizzazione amministrativa, la Commissione Regionale ha infine aggiunto che in mancanza di elementi contrari, appariva ragionevole il riferimento ai tassi ufficiali compiuto dall’Ufficio per determinare l’ammontare degli interessi lucrati dalla C.. Per tali ragioni ne ha rigettato l’appello, condannandola al pagamento delle spese del grado. La C. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo con il primo motivo il difetto di motivazione su punto decisivo della controversia, perchè la Commissione Regionale non aveva dato adeguata spiegazione della effettiva percezione degli interessi e della loro estraneità all’attività di vendita dei carburanti, ma si era limitata a seguire un percorso logico “assolutamente insufficiente in quanto sostanzialmente apodittico e privo di riferimenti concreti alla fattispecie esaminata”.

Con il secondo motivo, la ricorrente ha invece dedotto la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 45, della L. n. 656 del 1994, art. 3 e del D.P.R. n. 177 del 1995, art. 8, comma 2, in quanto la Commissione Regionale avrebbe dovuto riconoscere che, a tutto concedere, si sarebbe comunque trattato di redditi pur sempre conseguiti nell’esercizio dell’impresa di vendita di carburanti e concludere, quindi, per l’illegittimità dell’accertamento perchè precluso dalla intervenuta definizione per adesione. Con il terzo motivo, la C. ha infine dedotto la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, della L. n. 656 del 1994, art. 3 e del D.P.R. n. 177 del 1995, art. 8, comma 2, in quanto anche a non volerne ammettere la riferibilità all’attività di vendita dei carburanti, i compensi asseritamente pagati dai mutuatari avrebbero dovuto essere ugualmente riguardati come il frutto di una – sia pur distinta – attività d’impresa che diversamente da quanto ritenuto dalla Commissione Regionale non avrebbe potuto formare neanch’essa oggetto di accertamento in quanto la preclusione derivante dalla definizione per adesione non concerneva soltanto i proventi ritratti dalla specifica attività dichiarata, ma si estendeva ad ogni tipo di guadagno comunque classificabile come reddito d’impresa o di lavoro autonomo.

Cosi riassunte le doglianze della ricorrente, da esaminare congiuntamente per via della loro intima connessione, osserva il Collegio che i giudici a quo hanno chiarito in modo ampio e convincente le ragioni per le quali doveva ritenersi che le numerose e spesso assai consistenti operazioni compiute dalla C. non avessero rappresentato delle semplici dilazioni di pagamento del prezzo della benzina, ma dei veri e propri finanziamenti non ricollegabili all’esercizio dell’impresa di vendita dei carburanti, nè classificabili come i ricavi di una diversa ed autonoma attività imprenditoriale.

Trattandosi di ricostruzione immune da vizi logici o giuridici e, perciò, non sindacabile in questa sede nemmeno nella parte in cui la Commissione Regionale ha sostanzialmente affermato che nel prestare soldi sottobanco ed in assenza di qualsiasi autorizzazione, struttura o contabilità la C. non aveva fatto l’imprenditore, ma più semplicemente cercato di mettere maggiormente a frutto il suo denaro attraverso la percezione di più altri interessi che continuavano, pertanto, ad essere classificabili come reddito di capitale (v. al riguardo anche C. cass. 1996/534, secondo la quale gli interessi possono perdere la loro identità originaria soltanto se conseguiti nell’esercizio di un’impresa e destinati a confluire nel complessivo conto economico), rimane unicamente da aggiungere che la preclusione di cui al D.P.R. 13 aprile 1995, art. 8 non riguardava i redditi di capitale, ma soltanto quelli d’impresa o di lavoro autonomo.

Il ricorso della C. è pertanto rigettato non senza aggiungere che il succitato D.P.R. n. 177 del 1995 ha disciplinato un meccanismo premiale imperniato su di un accordo destinato a prendere le mosse proprio dall’attività d’impresa o di lavoro autonomo dichiarata dal contribuente, cui doveva essere inviata una proposta con l’indicazione dei maggiori imponibili determinati con riguardo al settore economico di appartenenza.

Se su tale proposta si raggiungeva un’intesa, il reddito d’impresa o di lavoro autonomo rimaneva così fissato senza possibilità di rideterminazioni o ripensamenti da parte del contribuente o dell’Ufficio, cui era inibito, a decorrere dalla data del pagamento, l’esercizio dei poteri di controllo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51, 52 e 53. La ricorrente ha, come si è visto, sostenuto che l’effetto preclusivo sopra indicato non riguardava soltanto quella dichiarata, ma qualunque attività d’impresa o di lavoro autonomo indipendentemente dalle modalità del suo svolgimento.

La tesi non può essere condivisa perchè trattandosi d’istituto di natura pattizia, impostato sulla libera e consapevole accettazione degli eventuali vantaggi o svantaggi, la normativa in questione dev’essere letta con riferimento all’oggetto della trattativa e, cioè, alla materia su cui si era formato il consenso, perchè soltanto rispetto ad essa l’Ufficio era stato in grado di valutare la convenienza dell’operazione e di assumersene perciò il rischio.

Ne deriva che l’attività dichiarata dal contribuente e presa in considerazione dall’Ufficio ai fini della quantificazione dei maggiori imponibili costituiva non soltanto la premessa, ma anche il limite dell’accordo, nel senso che il divieto di successive modifiche od accertamenti riguardava soltanto il reddito ad essa ricollegabile e non quello derivato da ulteriori attività esercitate di nascosto.

Il ricorso della C. avrebbe dovuto essere pertanto rigettato anche nel caso in cui si fosse voluto riconoscere agli interessi di cui si discute natura di reddito d’impresa e non di capitale. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in complessivi 5.700,00 Euro, 200,00 dei quali per esborsi, oltre le spese eventualmente prenotate a debito.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna C.T. al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in complessivi 5.700,00 Euro, 200,00 dei quali per esborsi, oltre le spese eventualmente prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2011

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