Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16089 del 14/07/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 16089 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso 4576-2008 proposto da:
CEGLIA

MARIA

CRISTINA

C.F.

CGLMCR56E64F205L,

SASSANELLI SAVERIO C.F. SSSSVR43E17A66ZW, MANCA
PEPPINA C.F. MNCPPN47H69A407X, POSSENTI GIAMPAOLO C.F.
PSSGPL46M05F2059, domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR,
presso
20 4
11 6

la

CASSAZIONE,

DELLA

CANCELLERIA
rappresentati

RIZZOGLIO MIRCO GIOVANNI,

e

CORTE
difesi

SUPREMA DI
dall’avvocato

giusta delega in atti;
– ricorrenti contro

GRUPPO GORLA S.P.A C.F. 036999601 in persona del

Data pubblicazione: 14/07/2014

legale

rappresentante pro tempore,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 504, presso lo
studio dell’avvocato IELPO NICOLA, che la rappresenta
e difende giusta delega in atti;
– controricorrente

di MILANO, depositata il 08/02/2007 r.g.n. 348/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 28/03/2014 dal Consigliere Dott. LUCIA
TRIA;
udito l’Avvocato IELPO NICOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per raccoglimento del secondo motivo assorbiti gli
altri.

avverso la sentenza n. 135/2007 della CORTE D’APPELLO

Udienza del 28 marzo 2014 — Aula A
n. 12 del ruolo —RG n. 4576/08
Presidente: Lamorgese – Relatore: Tria

1.— La sentenza attualmente impugnata (depositata 1’8 febbraio 2007) conferma la sentenza n.
3131/05 con la quale il Tribunale di Milano ha respinto le domande di Maria Cristina Ceglia,
Peppina Manca, Gianpaolo Possenti e Saverio Sassanelli, dirette all’accertamento, nei confronti del
Gruppo Gorla s.p.a., dei rispettivi diritti al mantenimento dell’orario di lavoro che veniva applicato
dalla precedente datrice di lavoro Policarbo s:p.a. cui il Gruppo Gorla era subentrato nell’appalto di
servizi di pulizia con il Comune di Milano.
La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:
a) in una precedente analoga controversia questa Corte, con sentenza 8 giugno 2004, n. 420,
ha ritenuto che l’Accordo sindacale del 4 febbraio 2000 (recte: 2002), riguardante la costituzione
del nuovo rapporto di lavoro con il Gruppo Gorla succeduto alla Policarbo, non avesse vincolato i
lavoratori alla stipulazione di un contratto con orario pari al 90% di quello applicato in precedenza
ed ha, pertanto, affermato che, in mancanza di accettazione da parte dei lavoratori, al nuovo
rapporto doveva applicarsi l’orario ordinario previgente;
b) nel caso di specie la sentenza di primo grado parte da una diversa impostazione — che va
condivisa e che ha carattere assorbente — secondo cui, essendo stati i lavoratori assunti il giorno 1
febbraio 2002, con lettere indicanti le rispettive riduzioni di orario di lavoro ed avendo gli stessi
manifestato il proprio dissenso rispetto a tale riduzione soltanto nel dicembre 2003 quando hanno
dato inizio al presente giudizio, deve ritenersi che i rispettivi contratti si siano conclusi alle
condizioni pacificamente attuate e, quindi, accettate dagli interessati;
c) né può valere in contrario la apposizione — in carattere stampatello — alle lettere di
assunzione della generica espressione “con riserva” (quale risulta dalla lettera riguardante il
Sassanelli, prodotta in giudizio) perché non solo in essa non vi è alcuno specifico riferimento
all’orario di lavoro, ma comunque la relativa formulazione, essendo avvenuta al momento della
conclusione del contratto con il Gruppo Gorla, ha perso significato a fronte dell’accettazione tacita
delle condizioni contrattuali “proposte” dalla ‘società desumibile dal prolungato comportamento dei
lavoratori attuativo di tali condizioni.
2.— Il ricorso di Maria Cristina Ceglia, Peppina Manca, Gianpaolo Possenti e Saverio
Sassanelli domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi; resiste, con controricorso, il
Gruppo Gorla s.p.a.
Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I — Sintesi dei motivi di ricorso

1.1.— Con il primo e il motivo si contesta — rispettivamente sotto il profilo della violazione e
falsa applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 e degli artt. 1372 e 1326, quinto
comma, cod. civ. (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) e del vizio di motivazione (art. 360, n. 5, cod. proc.
civ.) — la decisione della Corte milanese di ritenere assorbente la questione della presuntivamente
intervenuta accettazione tacita, per comportamenti concludenti degli attuali ricorrenti, della
riduzione di orario imposta dal nuovo datore di lavoro (Gruppo Gorla), pur dopo aver dato atto di
aver risolto in modo opposto una precedente analoga controversia.
Si sottolinea, in particolare, che:
1) in base alle norme su richiamate, la trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo pieno
in rapporto a tempo parziale (quale prodottasi per Gianpaolo Possenti e Saverio Sassanelli) così
come la riduzione dell’orario di lavoro di un rapporto a tempo parziale (quale verificatasi per Maria
Cristina Ceglia, Peppina Manca) richiedono l’espresso consenso scritto del lavoratore, risultante da
atto convalidato dalla competente Direzione provinciale del lavoro;
2) il suddetto atto scritto non può essere sostituito da un comportamento di fatto del lavoratore
di esecuzione del contratto con l’orario ridotto imposto dal datore di lavoro, tanto più ove questi
abbia nella lettera di assunzione apposto la clausola “con riserva”, inevitabilmente riferibile
all’orario di lavoro, essendo la relativa modifica l’unico elemento nuovo del contratto di lavoro
sottoscritto;
3) viceversa, essendo l’accettazione dei lavoratori difforme dalla proposta, e, pertanto,
equivalendo ad una nuova proposta, non solo è da escludere che si sia formato l’accordo sulla
riduzione dell’orario, ma anzi, per effetto della avvenuta assunzione da parte del Gruppo Gorla
senza riserve sul punto, il contratto dovrebbe considerarsi concluso alle condizioni proposte dai
lavoratori, tacitamente accettate dal datore di lavoro.
Si aggiunge che nella sentenza impugnata non vengono spiegate le ragioni che hanno portato
la Corte territoriale ad attribuire al comportamento c.d. attuativo dei ricorrenti — cui gli stessi non
potevano sottrarsi, pena la perdita del posto di lavoro — l’efficacia probante di un loro consenso alla
riduzione dell’orario di lavoro, senza neppure prendere in considerazione le istanze istruttorie degli
interessati, riproposte in appello.
1.2.— Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e falsa applicazione dell’art. 4, comma 3, lettera a), del CCNL per il personale dipendente da
imprese esercenti servizi di pulizia, in base al quale il datore di lavoro subentrato ad altra impresa in
un appalto di pulizie è obbligato ad assumere i dipendenti della precedente appaltatrice “alle stesse
condizioni precedentemente osservate e senza periodo di prova”.
1.3.— Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 2077 cod. civ.
2

1.— Il ricorso è articolato in quattro motivi, formulati in conformità con le prescrizioni di cui
all’art. art. 366-bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis.

Si rileva che nella sentenza attualmente impugnata — diversamente da quanto avvenuto nella
precedente sentenza della medesima Corte di Milano n. 450 del 2004, ivi richiamata — il Giudice di
appello non ha preso in considerazione l’Accordo sindacale del 4 febbraio 2002, peraltro
intervenuto dopo la stipulazione dei contratti individuali di lavoro degli attuali ricorrenti (datati 1
febbraio 2002).

Tuttavia, essendo l’Accordo stesso successivo ai contratti individuali — come si è detto — è,
comunque, da escludere che essa sia applicabile agli attuali ricorrenti, perché in base all’art. 2077
cod. civ. cit., un accordo sindacale stipulato in epoca successiva alla conclusione di un contratto
individuale di lavoro, non può derogare in pejus al contenuto di quest’ultimo, senza un consenso
espresso per iscritto dal lavoratore alla modificazione delle condizioni individualmente concordate
con il datore di lavoro.

II — Esame delle censure
2.- I primi due motivi di ricorso — da esaminare congiuntamente, data la loro intima
connessione — sono da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
3.- In base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:
a) è indubbio il carattere generale del principio per cui alla contrattazione collettiva non è
consentito incidere, in relazione alla regola dell’intangibilità dei diritti quesiti, su posizioni già
consolidate o su diritti già entrati nel patrimonio dei lavoratori in assenza di uno specifico mandato
od una successiva ratifica da parte degli stessi (vedi, fra le tante: Cass. 23 luglio 1994, n. 6845;
Cass. 29 settembre 1998, n. 9734; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2362);
b) inoltre, la regola secondo cui i contratti o gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a
tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (con
l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne
condividono l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad
un accordo sindacale separato e diverso, vedi: Cass. 28 maggio 2004, n. 10353; Cass. 18 aprile
2012, n. 6044) non vale nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo
pieno in rapporto a tempo parziale ai sensi dell’ art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000, in quanto tale
trasformazione (seppure prevista da un contratto collettivo aziendale come strumento alternativo
alla collocazione in mobilità) non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di
lavoro, ma necessita in ogni caso del consenso scritto del lavoratore, il cui rifiuto della
trasformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento (vedi, per tutte:
Cass. 12 luglio 2006, n. 16169; Cass. 17 marzo 2003, n. 3898; Cass. 26 maggio 2000, n. 6903,
quest’ultima con riguardo alla disciplina di cui all’art. 5, comma terzo, del d.l. n. 726 del 1984,
convertito dalla legge n. 863 del 1984);
c) ne consegue che, nell’anzidetta ipotesi, non può applicarsi il principio secondo cui
l’adesione degli interessati — iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti — ad un contratto o
3

Tale Accordo contiene una clausola con la quale le Parti sociali hanno concordato che “i
contratti di lavoro iniziali prevederanno un orario di lavoro settimanale individuale pari al 90% di
quello precedentemente in atto”.

d) peraltro, il suindicato principio, laddove applicabile, comporta che, affinché un contratto o
un accordo collettivo possa considerarsi implicitamente accettato dai lavoratori per “fatti
concludenti” sia necessario che la manifestazione di volontà in tal senso desumibile dal
comportamento degli interessati sia stata espressa in modo inequivocabile, giacché il principio della
libertà di forma nell’esercizio dell’autonomia negoziale e collettiva consente che l’adesione ad un
accordo sindacale si manifesti o con negozi attuativi o attraverso consequenziali condotte, purché si
tratti di comportamenti — dall’indagine specifica che il giudice del merito deve compiere al
riguardo, anche alla luce dei principi di correttezza e buona fede che devono sempre presiedere
all’esecuzione delle obbligazioni — risultino diretti a dimostrare con certezza la volontà di ratificare
l’accordo o il contratto in oggetto (Cass. 7 febbraio 2004, n. 2362; Cass. 13 giugno 2003, n. 9497;
Cass. 2 aprile 2001, n. 4841, nonché arg. ex Cass. 12 giugno 2002, n. 8390 e Cass. 28 marzo 2001,
n. 4570);
e) deve, quindi, trattarsi di una manifestazione di volontà che, per quanto implicita, sia
genuina e libera, cioè non possa considerarsi tale da essere affetta da un vizio riconoscibile dalla
controparte in applicazione dei canoni generali della correttezza e buona fede (vedi, a contrario:
Cass. 18 novembre 1999, n. 12784) e comunque non risulti essere necessitata;
O conseguentemente, il consenso tacito ad un mutamento contrattuale peggiorativo delle
condizioni di lavoro (in particolare anche con riguardo all’orario), non può certamente essere
desunto dal semplice fatto che i lavoratori, in costanza del rapporto di lavoro, non abbiano preteso
l’adempimento del patto originario e abbiano continuato a prestare la loro opera a condizioni
svantaggiate (Cass. 20 maggio 1977, n. 2111; Cass. 16 maggio 2006, n. 11432), potendo, un
comportamento diverso, compromettere il rilevante e fondamentale interesse dei lavoratori ad
evitare la perdita del posto di lavoro e, quindi, della retribuzione.
4.- La Corte d’appello di Milano, senza attenersi ai su riportati principi:
a) non ha considerato che la clausola dell’Accordo sindacale del 4 febbraio 2002 — che
prevedeva una riduzione dell’orario di lavoro del 10%, rispetto a quello osservato nel rapporto con
il precedente appaltatore — essendo peggiorativa delle condizioni di lavoro e retributive stabilite sia
dal CCNL di settore, sia dai contratti individuali antecedenti avrebbe richiesto una chiara ed
esplicita volontà dei lavoratori, manifestata per iscritto e nelle forme stabilite dalla legge;
b) inoltre ha attribuito il valore di “fatto concludente”, da cui desumere il consenso tacito dei
lavoratori ad un elemento del tutto inidoneo a tal fine rappresentato dal fatto che essendo stati i
lavoratori assunti il giorno 1 febbraio 2002, con lettere indicanti le rispettive riduzioni di orario di
lavoro ed avendo gli stessi manifestato il proprio dissenso rispetto a tale riduzione soltanto nel
dicembre 2003 quando hanno dato inizio al presente giudizio, conseguentemente i rispettivi
contratti dovevano considerarsi siano conclusi alle condizioni “pacificamente” attuate e, quindi,
accettate dagli interessati;
4

accordo collettivo può essere non solo esplicita, ma anche implicita, come accade quando possa
desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative
clausole (vedi, fra le altre: Cass. 11 marzo 1987, n. 2525; Cass. 5 novembre 1990, n. 10581; Cass. 7
febbraio 2004, n. 2362);

5.- In tale ricostruzione la Corte milanese, non solo non ha fatto alcun riferimento all’art. 4,
comma 3, lettera a), del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di
pulizia,che obbligava il datore di lavoro subentrato ad altra impresa in un appalto di pulizie ad
assumere i dipendenti della precedente appaltatrice “alle stesse condizioni precedentemente
osservate e senza periodo di prova”, ma neppure ha considerato la circostanza della anteriorità dei
contratti individuali (sottoscritti il giorno 1 febbraio 2002) rispetto all’Accordo sindacale del 4
febbraio 2002, con le relative conseguenze in merito al divieto per il contratto o accordo collettivo
di derogare in pejus al contenuto del contratto individuale, senza un consenso espresso per iscritto
dal lavoratore alla modificazione delle condizioni individualmente concordate con il datore di
lavoro.
A ciò consegue che, nella specie, il criterio dell’accettazione implicita risulta inapplicabile,
diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata.
6.- Va, comunque, precisato — in ragione della funzione nomofilattica affidata
dall’ordinamento a questa Corte di cassazione — che, comunque, l’applicabilità del suddetto criterio
— ove possibile — presuppone una indagine specifica del giudice del merito, da effettuare anche alla
luce dei principi di correttezza e buona fede che devono sempre presiedere all’esecuzione delle
obbligazioni, che sia tale da dimostrare che i comportamenti “concludenti” siano diretti con certezza
a manifestare la genuina volontà di ratificare l’accordo o il contratto collettivo di cui si tratta.
E, in tale indagine, si devono tenere nel debito conto la qualità dei lavoratori di cui si tratta,
l’esistenza di una situazione psicologica di soggezione dei lavoratori medesimi rispetto al datore di
lavoro e, quindi, parametrare a tali dati anche le modalità del dissenso eventualmente manifestato
dagli interessati, così come i modi e i tempi di eventuali iniziative giudiziarie intraprese.
A tale ultimo proposito, va anche considerato che, pur in un ordinamento di civil law come il
nostro, comunque il canone della prevedibilità delle decisioni — che non comporta
l’immodificabilità della soluzione adottata — si deve considerare come un requisito fondamentale
dell’esercizio della funzione giurisdizionale, posto a presidio della certezza del diritto, come tale
tutelato sia direttamente dalla nostra Costituzione (spec. art. 3), sia, nei rispettivi ambiti dalla Corte
di giustizia UE e dalla Corte di Strasburgo.
Ne consegue che, rispetto a plurimi gruppi omogenei di lavoratori, gli esiti dei diversi giudizi
instaurati separatamente non possono considerarsi, di per sé, indifferenti rispetto alle iniziative
assunte dagli interessati.
7.- Dalle anzidette considerazioni deriva l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, cui
consegue l’assorbimento di tutti i restanti profili di censura.

III — Conclusioni
5

c) conseguentemente ha ritenuto che a fronte dell’accettazione tacita delle condizioni
contrattuali “proposte” dalla società desumibile dal prolungato comportamento dei lavoratori
attuativo di tali condizioni, perdesse significato la apposizione — in carattere stampatello — alle
lettere di assunzione della generica espressione “con riserva”, essendo avvenuta precdentemente,
cioè al momento della conclusione del contratto con il Gruppo Gorla.

8.- In sintesi, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, per le ragioni dianzi esposte
e con assorbimento degli altri motivi.

1) «la regola secondo cui i contratti o gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i
lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti (con l’unica
eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono
l’esplicito dissenso dall’accordo medesimo e potrebbero addirittura essere vincolati ad un accordo
sindacale separato e diverso) non vale nell’ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro
subordinato a tempo pieno in rapporto a tempo parziale ai sensi dell’ art. 5 del d.lgs. n. 61 del 2000,
in quanto tale trasformazione (seppure prevista da un contratto collettivo aziendale come strumento
alternativo alla collocazione in mobilità) non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale
del datore di lavoro, ma necessita in ogni caso del consenso scritto del lavoratore, il cui rifiuto della
trasformazione del rapporto non costituisce giustificato motivo di licenziamento»;
2) «ne consegue che, nell’anzidetta ipotesi, non può applicarsi il principio secondo cui
l’adesione degli interessati — iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti — ad un contratto o
accordo collettivo può essere non solo esplicita, ma anche implicita, come accade quando possa
desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative
clausole».
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza
impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di
cassazione alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.
Così deciso in Ro • nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 28 marzo 2014.

In relazione alle censure accolte, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con
rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Milano, in
diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i
principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

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