Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16060 del 28/07/2020

Cassazione civile sez. II, 28/07/2020, (ud. 06/11/2019, dep. 28/07/2020), n.16060

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – rel. Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24482/2015 proposto da:

P.R., + ALTRI OMESSI;

– ricorrenti –

contro

R.G., C.A., elettivamente domiciliate in ROMA,

VIA DI NOVELLA 22, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GITTO,

rappresentate e difese dall’avvocato FERDINANDO MAURIZIO ZAPPALA’;

CA.MA., in proprio e nella qualità di erede di

CA.AN., deceduta nelle more del giudizio, elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA GENOVA 30, presso lo studio dell’avvocato ENZO MANLIO

GUGLIELMINO, rappresentata e difesa dall’avvocato SEBASTIANO

ATTARDI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 2296/2014 del TRIBUNALE DI CATANIA depositata

il 13/06/2014 e l’ordinanza n. rep. 1240/2015 della CORTE D’APPELLO

di CATANIA depositata il 6/7/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/11/2019 dal Consigliere Dott. SERGIO GORJAN;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso e

dell’istanza ex art. 96 della controricorrente Ca.Ma.;

udito l’Avvocato Salvatore Cittadino, difensore dei ricorrenti, che

ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato Paola d’Innocenzo con delega orale dell’avvocato

Ferdinando Maurizio Zappalà, difensore delle resistenti, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza depositata il 6 luglio 2015 la Corte d’appello di Catania ha dichiarato, ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c., l’inammissibilità dell’appello proposto A.G., + ALTRI OMESSI, avverso la sentenza del 13 giugno 2014, con la quale il Tribunale di Catania aveva rigettato la domanda proposta dai primi nei confronti della R. e della C. rivendicando la comproprietà di un fabbricato rurale sito in (OMISSIS) in N. c.u.e. al foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS) e chiesto il rilascio dello stesso. Il Tribunale aveva accolto la domanda riconvenzionale di usucapione ventennale proposta dalla R. e dalla C..

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che non era ravvisabile la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., dal momento che l’accoglimento della domanda di usucapione comportava l’implicito rigetto di quella proposta da parte attrice; b) che era irrilevante il fatto che taluno dei testi non risiedesse anagraficamente nei luoghi oggetto di causa e ciò a prescindere dalla tardività della produzione dei relativi certificati di residenza; c) che, rispetto alla prova dei presupposti dell’usucapione, non vi era ragione per ritenere maggiormente attendibili i testi addotti dagli attori, in considerazione dello stretto rapporto di parentela con questi ultimi, rispetto agli altri testi, privi di siffatti legami con le parti.

3. Avverso l’ordinanza appena indicata e la sentenza di primo grado, nei termini che verranno chiariti infra, hanno proposto ricorso per cassazione illustrato anche con memoria difensiva, affidandosi a cinque motivi, A.G., + ALTRI OMESSI. La C. e la R., da un lato, e Ca.Ma., anche nella qualità di erede di Ca.An., dall’altro, hanno depositato controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso proposto appare privo di pregio giuridico e va rigettato.

In limine reputa la Corte di non procedere all’integrazione del contraddittorio in questa sede con i soggetti originariamente attori – soccombenti – non appellanti e con gli appellanti F.S. e F.M., quest’ultima quale procuratrice speciale di F.O., F.V.M. ed F.E. soccombenti – non ricorrenti in questa sede di legittimità,attesa la soluzione di rigetto adottata ed il precetto costituzionale della ragionevole durata del processo.

Difatti è insegnamento costante di questa Suprema Corte – Cass. sez. 3 n. 12387/16, Cass. sez. 3 n. 27616/19 – che non concorre interesse all’impugnazione incidentale tardiva quanto lo stesso non insorge in dipendenza dell’impugnazione principale.

Nella specie i soggetti non evocati,come dianzi precisato, erano consorti con gli impugnanti – rimasti soccombenti nei gradi precedenti – sicchè l’impugnazione esposta dai propri litis consorti di certo non attinge negativamente la posizione dei soggetti non evocati, anzi potrebbe solamente giovare loro.

Quanto poi alla carenza di legittimazione dei consorti Parisi – eccezione sollevata in controricorso dalle consorti R. – C. – va rilevato come detti ricorrenti erano già appellanti, sicchè era onere di specificità – non osservato – dell’eccipienti anche indicare se e come al Giudice del gravame era stata sottoposta la questione.

Con il primo motivo si lamenta, in relazione all’ordinanza della Corte d’appello, violazione e falsa applicazione degli artt. 101,132,342,348 bis, 348 ter c.p.c., nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 e all’art. 111 Cost..

Rilevano i ricorrenti: a) che i profili di inammissibilità dell’appello sui quali essi avevano interloquito, in relazione alle difese spiegate dalle controparti nella comparsa di costituzione in secondo grado, concernevano il rispetto dell’art. 342 c.p.c. e non la questione della assenza di ragionevole probabilità di accoglimento; b) che la questione della ammissibilità dell’appello era già stata delibata nel momento in cui la Corte territoriale aveva disposto l’integrazione del contraddittorio; c) che l’ordinanza non contiene una succinta motivazione in ordine a tutti i motivi di appello.

Concorrendo quindi vizio proprio dell’ordinanza anche questa può esser attinta con impugnazione per nullità,tuttavia l’articolata censura mossa s’appalesa siccome priva di fondamento.

Anzitutto i ricorrenti rilevano di non esser stati,appositamente, sentiti dalla Corte territoriale prima dell’adozione dell’ordinanza impugnata, anche se ricordano come la questione dell’inammissibilità, sia ex art. 342 c.p.c., che ex art. 348 bis citato codice, venne puntualmente eccepita dalle controparte nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Inoltre i ricorrenti danno atto che l’ordinanza impugnata venne adottata dopo che le parti ebbero a discutere delle questioni preliminari avanti la Corte etnea, ma sostengono che un tanto rimase limitato alla questione afferente la sola aspecificità del gravame e non interessò anche puntualmente l’inammissibilità per probabile infondatezza dello stesso.

La questione appare risolta dalle stesse argomentazioni svolte dai ricorrenti, posto che ciò che ha rilievo ai fini del disposto ex art. 348 bis c.p.c., non già, è che in concreto le parti discutano avanti la Corte la questione de qua, bensì che siano state poste in grado di farlo.

Difatti non a caso la norma testualmente recita “sentite le parti”, ossia utilizza locuzione che non impone l’espletamento di apposita e strutturata fase processuale nel quale svolgere il contraddittorio fra le parti al riguardo, bensì lumeggia la sola necessità di assumere il loro parere sul punto, quando ritengano di esporlo.

Dunque ciò che assume dirimente rilievo è che la questione sia stata sottoposta tempestivamente alle parti per stimolare il loro apporto al riguardo, non anche che si svolga formale interpello delle stesse con necessaria espressa loro presa di posizione al riguardo.

L’unico obbligo – sanzionato con la nullità dell’ordinanza ex Cass. sez. 3 n. 20758/17 – per il Giudice d’appello è sentire le parti dopo che la questione sia stata sottoposta al loro contraddittorio o ex officio dal Giudice ovvero come invito al Giudice di avvalersi dell’istituto sotto forma di istanza proposta dalla parte appellata nella comparsa di risposta tempestivamente depositata.

Nella specie è la stessa parte ricorrente che ricorda come le appellate ebbero specificatamente a rilevare la questione ex art. 348 bis c.p.c., nella loro scrittura difensiva,sicchè la stessa appare esser stata ritualmente sottoposta al contraddittorio tra le parti.

Se poi – come sostiene parte ricorrente – nella discussione orale avanti il Collegio l’attenzione fu focalizzata in relazione alla questione dell’aspecificità del gravame – art. 342 c.p.c. – ciò non comporta che comunque anche la questione dell’inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c., non costituisse oggetto d’esame e potesse dalle stesse essere trattata.

Quanto poi all’osservazione che con relazione alla questione il Collegio d’appello ebbe già a pronunziarsi implicitamente allorchè ebbe a disporre il completamento del contraddittorio, basta osservare come fosse necessario ritualmente evocare in causa tutte le parti interessate proprio per “sentirle” ai fini dell’applicazione dell’istituto ex art. 348 bis c.p.c..

Inoltre la regolarità del contraddittorio è antecedente logico-giuridico indispensabile per poter procedere alla trattazione della causa, sicchè l’ordine relativo appare del tutto anodino ai fini di causa.

Nemmeno questo Collegio può concordare con l’insegnamento desumibile dall’arresto n. 19333/18 della sezione terza,posto che non può esser introdotto un limite decadenziale della facoltà del Giudice d’appello di pronunziare l’inammissibilità per probabile infondatezza entro un determinato momento temporale antecedente alla precisazione delle conclusioni in difetto di una specifica previsione di legge.

Difatti testualmente la disposizione processuale si limita a prevedere all’udienza di cui all’art. 350, il Giudice prima di procedere alla trattazione sentite le parti, dichiara dunque la norma appare predisporre una sequela logica delle decisioni possibili non già fissare una sequenza schematico-formale con specifica cesura processuale, per giunta sanzionata dalla nullità per la sua inosservanza.

Nullità non prevista dalla legge e che nemmeno appare correlata all’assenza dei requisiti essenziali dell’atto per il raggiungimento dello scopo, posto che la Corre entea ebbe a pronunziare l’ordinanza d’inammissibilità ad esito di apposita udienza dedicata al contraddittorio tra le parti circa le questioni preliminari senza giungere alla precisazione delle conclusioni e risolvendo la lite in limine secondo la finalità deflattiva, cui è predisposto l’istituto.

Dalla narrativa esposta dalla stessa parte impugnante si riscontra che la Corte etnea ebbe,alla prima udienza, a disporre l’integrazione del contraddittorio attività prodromica alla regolare trattazione dell’appello, siccome chiaramente desumibile dalla stessa strutturazione testuale dell’art. 350 c.p.c., quindi, se anche nel corso dell’udienza la Corte etnea ebbe a sentire le parti su una pluralità di questioni, non per ciò s’è consumata la sua facoltà di decidere l’appello ex art. 348 bis c.p.c., avendo la norma una finalità deflattiva che consente al Giudice d’evitare ulteriori inutili formalità, non già, gli vieta di comunque sentire – in unica discussione – le parti su tutte le questioni preliminari alla decisione in sede d’appello.

Quanto alla critica portata alla motivazione esposta dalla Corte etnea nell’ordinanza impugnata basta ricordare come sia insegnamento costante di questo Supremo Collegio che detta ordinanza non sia ricorribile per cassazione, nemmeno a sensi dell’art. 111 Cost., stante l’assenza del carattere decisorio – Cass. SU n. 1914/16, Cass. sez. 2 n. 19944/16 -.

Con il secondo mezzo d’impugnazione si lamenta violazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, in conseguenza dell’erronea decisione di inammissibilità del gravame.

La questione agitata non appare avere natura di censura bensì quale conseguenza correlata all’evidenziazione che l’accoglimento del primo mezzo incide anche sulla statuizione afferente la condanna alle spese della lite d’appello.

Evenienza non verificatasi nella fattispecie come infra illustrato.

Con il terzo motivo, concernente la sentenza di primo grado, si lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 832,1140,1158,1163,2697 e 2943 c.c., per non avere il Tribunale considerato che non era stata fornita dalla R. e dalla C. la prova dell’animus possidendi e della cessazione della clandestinità per il tempo necessario ad usucapire.

La censura s’appalesa siccome inammissibile posto che risulta veicolata sub specie violazione di legge mentre si sostanzia nella contestazione della valutazione delle risultanze istruttorie,siccome operata dalla Corte etnea, e nell’asserzione che il possesso è da qualificarsi siccome clandestino quando la disponibilità del bene non è intervenuta “per concessione dei proprietario od in altro modo pacifico”.

Difatti il Tribunale di Catania ha partitamente esaminato tutti gli elementi probatori acquisiti in causa ed ha motivatamente concluso, valorizzandone alcuni su altri in quanto ritenuti più affidabili, ed ha puntualmente messo in evidenza come l’esame del compendio probatorio consentiva di ritenere accertato l’animus possidenti e la pubblicità del possesso in quanto le modalità fattuali del godimento rendevano palesi detti elementi.

A fronte di detta puntuale accertamento i ricorrenti esprimono proprio apprezzamento del compendio probatorio che meramente contrappongono a quello espresso dal primo Giudicante.

Inoltre l’argomento speso a contestazione della statuizione circa la pubblicità del possesso si scontra con il tradizionale insegnamento sul punto di questa Suprema Corte – Cass. sez. 2 n. 8784/87 -, secondo il quale la clandestinità si connota siccome occultato nei confronti di tutti, mentre nella specie pacificamente le ricorrenti godevano del bene in modo tale che tutti potevano apprezzarlo.

Anche con riguardo all’accertamento dell’animus possidenti la contestazione mossa dai ricorrenti prescinde dal costante insegnamento di questa Corte Suprema – Cass. sez. 2 n. 15446/07 – che l’animus è desumibile – anche mediante presunzioni – dalla stessa condotta di godimento,come nella specie fatto da primo Giudice.

Con il quarto mezzo di impugnazione, concernente la sentenza di primo grado, si lamenta violazione degli artt. 244 e 191 c.p.c., in relazione agli artt. 1158 e 1163 c.c., in quanto la prova per testi articolata dalla R. e la C., non avendo ad oggetto la dimostrazione dell’animus possidendi, era irrilevante ai fini del decidere.

La manifesta infondatezza della censura in questione rimane palesata dalla motivazione afferente la precedente doglianza, posto che invece l’animus possidenti è pure desumibile dalla condotta oggettiva di godimento sicchè la dedotta prova manifestava la sua rilevanza.

Con il quinto motivo, concernente la sentenza di primo grado, si lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere comunque il Tribunale ritenuto che la R. e la C. avessero fornito la dimostrazione della esclusiva detenzione del bene.

L’argomento critico sviluppato si rivela siccome inammissibile posto che sub specie violazione di legge si veicola una contestazione circa l’apprezzamento del compendio probatorio siccome operato dal Tribunale.

Difatti il primo Giudice ha puntualmente,come dianzi già illustrato,sia esaminato le prove ritenute di maggior valenza che giustificato la sua statuizione circa la minor valenza degli elementi probatori introdotti in causa dai ricorrenti, nonchè ha puntualmente esaminato le dichiarazioni rese dai geom. N. ed U. mettendone in rilievo la loro precisazione di non conoscenza della questione poichè si limitarono ad eseguire sopralluogo per altra controversia tra i germani A..

La censura svolta invece si limita a contrapporre propria ricostruzione del tessuto probatorio, enfatizzandone alcuni aspetti, come detto, puntualmente esaminati ed apprezzati dal Giudice di prime cure.

Con il sesto motivo si lamenta violazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione al regolamento delle spese del giudizio di primo grado,ma anche in tal caso la richiesta di modifica della statuizione è collegata all’accoglimento dell’impugnazione, sicchè non configura uno specifico mezzo di doglianza.

Al rigetto del ricorso segue la condanna,in solido fra loro, dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità in favore delle resistenti costitute.

Spese tassate in Euro 3.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, in favore di ciascuna delle parti resistenti costituite, oltre in ogni caso accessori di legge e rimborso forfetario ex tariffa forense siccome indicato in dispositivo.

Concorrono in capo ai ricorrenti le condizioni processuali per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, a rimborsare in favore e delle consorti R. – C. e della Ca. le spese di questo giudizio di legittimità,liquidate in Euro 3.000,00 oltre accessori di legge e rimborso forfetario secondo tariffa forense nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2020

 

 

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