Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16055 del 07/07/2010

Cassazione civile sez. trib., 07/07/2010, (ud. 01/06/2010, dep. 07/07/2010), n.16055

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. MELONCELLI Achille – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.A.A., rappresentato e difeso, con procura a margine

del ricorso, dall’avv. BUCO Francesco, con il quale elettivamente

domicilia in Roma, alla via Giuseppe Pisanelli 2, presso lo studio

degli avvocati Paolo Leopardi e Francesca Fuselli;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliataria in Roma, alla via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria

Regionale della Campania del 1 ottobre 2004, depositata col n.

105/25/04 in data 11 novembre 2004;

Udita la relazione della causa del dott. Papa;

sentito l’avv. Paolo Leopardi, delegato, per il ricorrente;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.A.A., esercente attivita’ di studio fotografico in (OMISSIS), ricorre, con tre motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, indicata in epigrafe, che ha solo parzialmente accolto il suo gravame avverso la decisione – a lui del tutto sfavorevole – della Commissione provinciale di Caserta (n. 779/10/02), in materia di rettifica delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per il 1996, in applicazione dei parametri di cui al D.P.C.M. del 29 gennaio 1996.

A sostegno del ricorso deduce, in ordine successivo:

1) “violazione e falsa applicazione della L. n. 400 del 1988, art. 17 nonche’ dei parametri di cui al D.P.C.M.”, per tale via riproponendo la questione della illegittimita’ della nuova tipologia di regolamenti ministeriali, introdotta dalla norma sopra indicata, la quale espressamente prevede che questi atti normativi debbano “recare la denominazione di regolamenti, essere adottati previo parere del Consiglio di Stato, sottoposti al visto e alla registrazione della Corte dei Conti e infine essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale”:

rigorosi procedimenti formali non rispettati invece – per la mancanza del parere del Consiglio di Stato – per il D.P.C.M. 12 gennaio 1996, del quale si discute, nonche’ per il successivo ed analogo del 23 luglio 1997;

2) “omessa e insufficiente motivazione della sentenza circa punti decisivi della controversia, art. 360 c.p.c., n. 5, che hanno portato l’Ufficio alla totale disattenzione delle motivazioni addotte a giustificazione dello scostamento parametrico”: ripercorrendo l’iter procedimentale che ha condotto alla rettifica, si duole, il ricorrente, che l’Ufficio si sia limitato alla (arbitraria ed illegittima’) premessa secondo cui, “a seguito di contraddittorio instauratosi con invito del 30.11.00 non e’ stata esibita alcuna documentazione o motivazione atta ad evitare l’applicabilita’ dei parametri, o ad operare una eventuale riduzione”, ignorando del tutto “la relazione introduttiva al contraddittorio presentata dal ricorrente in data 21.2.2001 (gia’ allegata), che elenca in ben otto punti (dalla lettera A alla lettera H) le motivazioni che giustificano lo scostamento parametrico” – considerate nell’atto col riportarle secondo una triplice direttiva;

3) “violazione e falsa applicazione di norme di diritto conseguente all’illegittimita’ dell’accertamento induttivo operato sulla base di parametri a fronte di concreti a dimostrati elementi di incoerenza del suo risultato, in presenza di una totale congruita’ e coerenza di tutti i dati dichiarati, anche ai fini degli studi di settore, ed in totale assenza di quelle gravi incongruenze previste dalla legge”:

sotto tale ultimo profilo, dopo aver rilevato la mancanza di altri indizi a favore della posizione dell’amministrazione, in tali sensi invocando Cass., n. 2891 del 2002, segnala la assurdita’ ed illogicita’:

a) del collegamento ad un bene strumentale del valore di L. 84.280.000 di ricavi per L. 104.324.000;

b) del divario, in relazione a modeste variazioni degli indici di valutazione, dello stesso volume di affari tra l’anno in esame e quello precedente (aumento da poco piu’ di 64 milioni a circa 164 milioni);

c) del rilievo secondo cui “dal confronto (con gli stessi dati) del risultato parametrico con quello derivante dall’applicazione degli studi di settore), si evidenzia una totale congruita’ dei ricavi dichiarati e coerenza dell’indice di redditivita’”; aggiungendo, altresi’, che: d) nessun rilievo era stato eccepito dall’Ufficio stesso circa la redditivita’ dichiarata (lorda e netta); e) nessuna incongruenza (lieve o grande che sia) era stata rilevata.

Resiste l’Agenzia con controricorso, nel quale ribadisce la correttezza della sentenza impugnata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso e’ sfornito di pregio.

Il primo motivo e’ evidentemente infondato.

Il D.P.C.M. 29 gennaio 1996 (sulla “Elaborazione dei parametri per la determinazione di ricavi, compensi e volume d’affari sulla base delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio sull’attivita’ svolta”, determinati ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 184) non viola la L. n. 400 del 1988, art. 17 poiche’ non e’ un atto di natura regolamentare – ne’ attuativo di legge, ai sensi del primo comma, ne’ delegificante, ai sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potesta’ normativa, secondaria rispetto a quella legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma e’ solo un provvedimento amministrativo a carattere generale, in quanto espressione di una semplice potesta’ amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralita’ di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili (cfr., per tutte, Cass., 3^, 1972/2000; v. anche Cass., 3^, 6933/1999, che ha escluso il carattere regolamentare del decreto del Ministro dell’industria, per l’aggiornamento dei massimali obbligatori in materia di assicurazione per la r.c.a.; e, in materia tributaria, Cass., 5^, 9129/2006, che, richiamando anche Corte Cost., ord. 297/ 2004, l’ha esclusa per i D.M. 10 settembre 1992 e D.M. 19 novembre 1992, nella materia, prossima a quella in esame, dei c.d. redditometri).

Prima di procedere all’esame dei motivi restanti, appare opportuno premettere i principi di recente affermati in materia di accertamenti standardizzati, da Cass., Sez.un., 26635/2009: “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravita, precisione e concordanza non e’ ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in se’ considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditivita’ – .ma nasce solo in esito al contraddittorio, da attivare obbligatoriamente, pena la nullita’ dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realta’ dell’attivita’ economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non puo’ esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilita’ in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilita’ dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilita’ degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non e’ vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della piu’ ampia facolta’, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, pero’, egli assume le conseguenze del suo comportamento, in quanto l’Ufficio puo’ motivare il suo accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilita’ di istituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice puo’ valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”.

Alla stregua di tali premesse, si osserva, con riguardo al secondo motivo, che esso non si sottrae al preliminare rilievo di inammissibilita’, quando si consideri che, sotto il denunciato vizio di motivazione della sentenza impugnata, le censure appaiono rivolte in via esclusiva al provvedimento originariamente impugnato, del quale si lamenta, in realta’, il difetto di motivazione. E’ evidente la carente impostazione della doglianza: in primo luogo, non si indica in quale parte del ricorso introduttivo (ed in quali termini) la censura di difetto di motivazione dell’avviso di accertamento sia stata dedotta, e come essa sia stata mantenuta ferma in sede di appello; ed, in aggiunta, pure se si riporta il criticato passaggio del provvedimento, non appaiono – come pure sarebbe stato necessario – riprodotte le osservazioni critiche mosse nella relazione introduttiva al contraddittorio, che vengono succintamente raggruppate secondo la natura dei rilievi – essi stessi generici – a suo tempo formulati dal contribuente medesimo.

La mancanza di autosufficienza impone di disattendere la censura.

A conclusioni non dissimili si perviene in relazione all’ultimo motivo.

In esso, posto che la violazione di legge appare solo enunciata, si deduce un vizio di motivazione, che tuttavia risulta ancora esposto senza la necessaria autosufficienza, ed, a fronte dell’andamento della sentenza impugnata, come 1 mera contrapposizione di argomentazioni contrarie a quelle del giudice di merito, per ogni verso, dunque, con sviluppo non consentito in sede di legittimita’.

Il via generale, invero, si osserva, con riguardo alla premessa circa la portata e l’efficacia dei dati, su cui si fonda l’accertamento standardizzato, che essi non abbisognano di alcun ulteriore riscontro, traendo – per definizione – la loro efficacia persuasiva dal carattere presuntivo dello strumento impiegato. Con particolare riguardo alle singole critiche mosse alla sentenza impugnata, deve rilevarsi, poi, che: quella sub a) – eccesso di redditivita’ assegnata ad un apparecchio denominato minilab – e’ tipicamente di merito, e non consente di apprezzare il carattere decisivo del fatto non (o non idoneamente) valutato; quella sub b), oltre a non indicare l’atto processuale in cui l’argomento sarebbe stato dedotto, segnala un divario del volume d’affari rispetto a quello dell’anno precedente, privo di incidenza per mancanza di decisivita’, non potendo escludersi una valutazione erronea relativa proprio all’anno precedente a quello in esame; la censura sub c), infine, e’ del tutto carente di autosufficienza, perche’, pure segnalando un fatto di notevole rilievo ai fini proposti (quale l’affermata congruita’ e coerenza dei ricavi dichiarati, con riguardo ai nuovi studi di settore) non specifica – in assenza di riscontri in sentenza – in quale atto precedente la questione sarebbe stata prospettata.

Gli ultimi due argomenti – nella parte narrativa riportati, in relazione all’ultimo motivo, sub d) ed e) – si esauriscono, infine, nella mera apodittica affermazione che nessun rilievo era stato eccepito dall’Ufficio circa la redditivita’ dichiarata (lorda e netta) e nessuna incongruenza (lieve o grande che sia) era stata rilevata, il tutto in contrasto con l’intero svolgimento della vicenda e con le difese svolte dall’Ufficio medesimo.

Ne deriva, per ogni verso, il rigetto del ricorso. Le spese della presente fase possono restare compensate, stante il carattere recente della giurisprudenza affermatasi in ordine agli accertamenti standardizzati.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa le spese.

Cosi’ deciso in Roma, il 1 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2010

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