Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16035 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/06/2021, (ud. 10/02/2021, dep. 09/06/2021), n.16035

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24197/2014 R.G. proposto da:

V.T. e D.M.A., rappresentati e difesi,

giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Claudio De

Gregorio, elettivamente domiciliati in Roma, via Balduina n.

7/int.15, presso nello studio dell’Avv. Concetta M. Rita Trovato;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

e:

Agenzia di riscossione Pescara, Equitalia Centro s.p.a, in persona

del suo legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, n. 397/6/2014,

depositata 11 aprile 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 febbraio

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, rigettava l’appello proposto da D.M.A. (erede al 50% della venditrice D.I.R.) e V.T. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Pescara, che aveva respinto il ricorso proposto dai contribuenti, per l’anno 2002, contro le cartelle di pagamento numeri (OMISSIS) e (OMISSIS), emesse nei loro confronti con riferimento alle imposte dovute a seguito della stipulazione dell’atto pubblico del (OMISSIS), con il quale V.T. e D.I.R. avevano ceduto i loro terreni agli acquirenti Finsud s.r.l., Full Contract s.r.l. e A.V..

2. In particolare, l’Agenzia delle entrate emetteva due avvisi di accertamento nei confronti di V.T. e D.M.A. e i due contribuenti impugnavano gli stessi, il primo, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pescara, e la seconda, dinanzi alla Commissione tributaria provinciale dell’Aquila.

3. Nei confronti di V.T. veniva, quindi emessa cartella di pagamento n. (OMISSIS), per l’importo di Euro 70.308,01, quale Irpef a tassazione separata per l’anno 2002, oltre sanzioni ed interessi. L’atto presupposto della cartella era costituito dall’avviso di accertamento n. (OMISSIS), sulla plusvalenza generatasi in capo al venditore V.T. a seguito della vendita del terreno suscettibili di utilizzazione edificatoria, con l’atto di compravendita del (OMISSIS). Vi era stata poi l’iscrizione a ruolo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, in ragione dell’intero, in virtù della sentenza n. 214/9/2011 della Commissione tributaria regionale di Pescara, che aveva confermato totalmente l’accertamento presupposto; in precedenza, invece, la Commissione tributaria provinciale di Pescara, con sentenza n. 129/4/2009, aveva accolto il ricorso proposto dal V., sicchè l’ufficio aveva iscritto a ruolo solo la frazione di un mezzo del tributo in pendenza di ricorso, poi sgravata dopo la sentenza della Commissione tributaria provinciale.

3. Nei confronti di D.M.A. veniva emessa la cartella di pagamento n. (OMISSIS), per l’importo di Euro 15.486,65, a titolo di Irpef a tassazione separata, oltre interessi, escluse le sanzioni per l’intrasmissibilità all’erede delle stesse. L’atto presupposto era costituito dall’avviso di accertamento n. (OMISSIS), per Irpef a tassazione separata, anno 2002, sulla plusvalenza generatasi in capo a D.M.A., quale erede della venditrice D.I.R., a seguito della vendita di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, con atto di compravendita del (OMISSIS). Si era poi proceduto all’iscrizione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, per riscossione frazionata, fino a concorrenza dell’intero, ossia il residuo terzo in virtù della sentenza n. 214/9/2011 della Commissione tributaria regionale dell’Aquila che, nel procedimento Rga 1386/09, aveva respinto l’appello incidentale presentato da D.M.A., così confermando la pronuncia di inammissibilità emessa nel giudizio di primo grado e la definitività dell’accertamento presupposto. In precedenza, la Commissione tributaria provinciale, con la sentenza n. 129/4/2009, aveva dichiarato inammissibile il ricorso della D.. L’ufficio aveva pertanto iscritto a ruolo la frazione di un mezzo del tributo a seguito del ricorso; successivamente alla sentenza della Commissione tributaria provinciale l’ufficio aveva iscritto ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, l’ulteriore frazione del tributo fino 2/3.

4. Avverso le due cartelle di pagamento, emesse a seguito di esecuzione frazionata, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, in quanto sia la Commissione tributaria regionale di Pescara sia la Commissione tributaria regionale dell’Aquila avevano confermato la legittimità dei due avvisi di accertamento, scaturenti dalla cessione dei terreni edificabili da parte dei contribuenti e dalla conseguente plusvalenza emersa per la cessione degli stessi, proponevano un unico ricorso V.T. e D.M.A. dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Pescara. Con tale ricorso si deduceva la nullità delle cartelle per difetto di motivazione e mancata sottoscrizione, l’inesistenza della notifica della cartella di pagamento, il difetto di sottoscrizione del ruolo, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, per la riscossione delle somme dovute a seguito della sentenza della Commissione tributaria regionale di Pescara n. 214/09/2011, che aveva confermato l’accertamento presupposto, oltre l’errata formazione del ruolo. In particolare, il V. deduceva che nella formazione del ruolo l’Ufficio avrebbe dovuto tenere conto della pattuizione contenuta nella compravendita in ordine alle spese del contratto, in quanto vi sarebbe stato l’accollo in capo all’acquirente di ogni obbligazione tributaria derivante dalla cessione, compresa quella dell’Irpef personale sul reddito da plusvalenza generata in capo al venditore, sicchè si sarebbe dovuto integrare il contraddittorio, sussistendo il litisconsorzio necessario, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, nei confronti dell’acquirente delle aree.

5. La Commissione tributaria provinciale di Pescara dichiarava inammissibilità dell’unico ricorso proposto dai due contribuenti, V.T. e D.M.A., avverso le distinte cartella di pagamento numeri (OMISSIS) e (OMISSIS). Infatti, le cartelle di pagamento erano intestate a due persone diverse e facevano riferimento a presupposti diversi, ossia la decisione della Commissione tributaria regionale per V.T. e la decisione della Commissione tributaria provinciale per D.M.A.. Pertanto, erano necessarie due autonome impugnazioni.

6. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, sezione distaccata di Pescara, con la sentenza qui oggetto di impugnazione, ha rigettato l’appello dei contribuenti confermando la decisione della Commissione tributaria provinciale, in quanto effettivamente gli appellanti avrebbero dovuto presentare due distinti ricorsi, in quanto gli atti impugnati erano stati emessi da “due autorità giudiziarie diverse”. Il giudice d’appello, “esclusivamente per completezza argomentativa”, rigettava anche nel merito l’appello.

7. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione i contribuenti.

8. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

9. Resta intimata l’Agenzia di riscossione Equitalia centro s.p.a.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione i contribuenti deducono la “violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10”, in quanto parti del processo dinanzi alle commissioni tributarie possono essere, oltre al ricorrente, l’ufficio del Ministero delle Finanze o l’ente locale o il concessionario del servizio di riscossione che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio o altra articolazione dell’Agenzia delle entrate, con competenza su tutto o parte del territorio nazionale, l’ufficio delle entrate del Ministero delle Finanze al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso. Non v’è dunque legittimazione processuale passiva del Centro Operativo di Pescara (COP), nemmeno competente alla emanazione degli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS). Il COP di Pescara non è legittimato all’emissione degli accertamenti, in quanto tale potestà non può essere demandata da un provvedimento direttoriale dell’Agenzia delle entrate. Su tale motivo di impugnazione il giudice di primo grado non si è pronunciato. Il motivo è stato riproposto dinanzi al giudice d’appello, che su di esso non si è pronunciato. V’è stata, dunque una omessa pronuncia sul punto.

2. Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti lamentano la “violazione e falsa applicazione dello Statuto diritti del contribuente, L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 8; tutela dell’integrità patrimoniale dell’art. 1272 c.c., comma 1, e dell’art. 1273 c.c., comma 3, nonchè insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia”, in quanto la L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, riconosce espressamente l’ammissibilità dell’accollo del debito d’imposta altrui senza liberazione del contribuente originario. Trattasi di obbligazione solidale, sicchè il debitore originario non perde mai la sua qualità, connotando così la responsabilità del terzo come aggiuntiva e non sostitutiva. La L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, consente, dunque, l’accollo esterno in ambito fiscale, secondo lo schema del contratto a favore di terzo, ai sensi dell’art. 1411 c.c.. Deve, dunque, applicarsi, in via analogica, la regola stabilita per la delegazione dall’art. 1268 c.c., comma 2, che degrada l’obbligazione del delegante ad obbligazione “sussidiaria”, sicchè il creditore Fisco ha l’onere di chiedere preventivamente l’adempimento all’accollante. Il giudice d’appello, invece ha ritenuto erroneamente che trattavasi di un semplice accollo interno, che però non è previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2. Deve invece ritenersi che trattasi di obbligazione solidale passiva ad interesse unisoggettivo, la cui modalità tipica è rappresentata dalla “sussidiarietà”.

3. Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della “violazione e falsa applicazione della disciplina dettata dall’art. 1273 c.c., comma 1, in base al quale il contratto di accollo è qualificabile come contratto a favore di terzi, nel quale l’accollante è direttamente obbligato verso il creditore. I ricorrenti lamentano anche l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in quanto il giudice di appello ha ritenuto che l’accordo contrattuale costituito dall’accollo delle spese e degli oneri tributari a carico degli acquirenti era meramente interno tra i contraenti, in quanto non vi aveva partecipato l’Erario, che non aveva mai espresso accondiscendenza e mai aveva liberato i debitori originari. In realtà, ai sensi dell’art. 1411 c.c., nel contratto a favore del terzo, quest’ultimo, sebbene estraneo al contratto intercorso tra gli stipulati, ha azione diretta verso il promittente. Pertanto, l’adesione del Fisco al patto di accollo non dovrebbe consentire nei confronti del coobbligato l’utilizzo degli atti e dei procedimenti che assistono la pretesa tributaria, sicchè il Fisco riceve dal legislatore atti e poteri propri della riscossione dei tributi, anche nei confronti dei soggetti estranei al presupposto.

4. Con il quarto motivo di impugnazione ricorrenti deducono la “inesatta e/o errata interpretazione della norma contenuta nella L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, circa l’obbligo in capo al creditore Fisco tenuto a chiedere preventivamente l’adempimento agli acquirenti accollanti. Violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 115 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009”. In realtà, l’accollo si configura in ogni sua specie come tipica applicazione del contratto a favore di terzo, sicchè vi è la chiara e specifica intenzione dei contraenti di attribuire al terzo il diritto di esigere il vantaggio stipulato a suo favore. In particolare, L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 1, “quale norma di rango costituzionale”, rende lecita l’assunzione del debito d’imposta senza liberazione del debito originario, avendo il legislatore fatto riferimento unicamente all’ipotesi dell’accollo cumulativo esterno. Lo Statuto dei diritti del contribuente non indica in alcun modo un accollo di tipo interno.

5. Con il quinto motivo di impugnazione ricorrenti deducono la violazione degli “D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, comma 1 e dell’art. 102 c.p.c., non avendo rilevato d’ufficio, come avrebbe dovuto, sussistenza nella specie di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, tra i venditori dei terreni e gli acquirenti degli stessi”.

6. Con il sesto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “l’omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, che prevede quale specifico vizio da denunciare in cassazione, l’omesso esame di un fatto storico principale o secondario”, in quanto il giudice d’appello non ha tenuto conto della clausola di accollo presente nel contratto prodotto in causa tra gli allegati. Deducono anche la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1273 e 1362 c.c.”. In particolare, il negozio di accordo non è stato mai oggetto di contestazione nel giudizio di primo e di secondo grado. Tutti gli acquirenti hanno assunto volontariamente l’obbligazione di pagare le imposte dovute dai rispettivi venditori indicati nell’atto di compravendita. Pertanto, pur se i soggetti accollanti non hanno assunto la posizione di contribuenti, o di soggetti passivi del rapporto tributario, hanno la qualità di obbligati (o coobbligati) in forza di titolo negoziale. L’Agente della riscossione, però, non ha inviato alcuna comunicazione preventiva all’accollante, ma spedito le cartelle di pagamento unicamente ai soli ricorrenti, sicchè sarebbe venuta meno l’integrità patrimoniale degli accollati tutelata dalla L. n. 212 del 2000, art. 8. Il Fisco, tra l’altro, dichiarando di non aderire solo in sede processuale al patto di accollo, avrebbe così convertito l’accollo, cumulativo esterno previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 8, in accollo interno, e ciò senza palesare l’avvenuta violazione dello Statuto dei diritti del contribuente, come pure dell’art. 7, che prevede l’obbligatorietà della motivazione.

7. Con il settimo motivo di impugnazione ricorrenti deducono “la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 115 c.p.c., modificato dalla L. n. 69 del 2009, in quanto, ai sensi dell’art. 1273 c.c., comma 1, il creditore può aderire alla convenzione. La trasformazione dell’accollo interno in esterno, non opera automaticamente, ma è determinata dall’esercizio di un potere, rimesso alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione finanziaria, che si manifesta con un vero e proprio provvedimento con il quale si esprime la decisione di avvalersi dell’accordo stipulato tra accollante e accollato, o meno. Il giudice d’appello, dunque, avrebbe errato nell’affermare che l’accordo contrattuale era meramente interno tra i contraenti non avendovi partecipato l’Erario, il quale mai aveva espresso accondiscendenza al riguardo. In realtà, non è stato mai allegato agli atti di causa il provvedimento amministrativo espressione della volontà della pubblica amministrazione, quale oggettiva prova documentale dovuta, da cui il giudice potesse evincere la mancata adesione del fisco al patto di accollo. Inoltre, l’atto di adesione all’accordo doveva giungere al termine di un procedimento, conforme ai criteri di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 1. Tale procedimento amministrativo è del tutto assente, assumendo, dunque il significato di una vera e propria sanatoria processuale. Nè il fisco nè Equitalia hanno mai rappresentato nel giudizio le circostanze ostative all’accoglimento della pretesa formulata dal ricorrente di dare applicazione alla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, sicchè ci si troverebbe dinanzi ad una inesistenza materiale dell’atto decisorio. Il giudice d’appello avrebbe, quindi, delegato ai ricorrenti il diritto di avere da parte del Fisco e di Equitalia un giusto procedimento ai sensi della L. n. 241 del 1990 e dello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000. La volontà dell’Amministrazione fiscale avrebbe necessitato della formazione de provvedimento autoritativo contemplante l’atto di adesione o di non adesione.

8. Con l’ottavo motivo di impugnazione ricorrenti deducono la “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio prospettato dai ricorrenti o rilevabile d’ufficio in relazione all’art. 112 c.p.c., ed in relazione: 1) alla L. n. 241 del 1990, art. 21-bis, come modificata dalla L. n. 15 del 2005; alla L. n. 241 del 1990, art. 3; alla L. n. 212 del 2000, art. 7; alla L. n. 212 del 2000, art. 17”. Infatti, la mancata adesione all’accollo cumulativo, che sarebbe un diritto soggettivo dei contribuenti ricorrenti, in quanto statuito dalla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 2, proprio perchè non preceduto dalla comunicazione contribuenti, sarebbe un atto nullo, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’Amministrazione di attivare il contraddittorio endo-procedimentale, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o di un provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente sulla integrità patrimoniale dei ricorrenti. Vi sarebbe, dunque, il difetto di allegazione processuale del provvedimento di conclusione dell’adesione all’accollo in base al quale gli uffici hanno l’obbligo di rispondere motivare la risposta. Inoltre, il provvedimento di mancata adesione alla accollo presenterebbe una deficienza strutturale talmente radicale perchè “non versato” negli atti processuali.

9. Con il nono motivo di impugnazione ricorrenti deducono che “la sentenza impugnata è da censurare in quanto ha respinto l’appello risolvendo la motivazione in un rinvio alla decisione del giudice di prime cure, senza riportare il contenuto motivazionale nemmeno in modo sintetico”.

10. Il ricorso è inammissibile.

10.1. Invero, il giudice d’appello ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, confermando la statuizione del giudice di prime cure. Infatti, la Commissione tributaria regionale ha affermato che “deve riprendersi inoltre l’osservazione del giudice di prime cure nella parte in cui ha ritenuto inammissibile il ricorso atteso che effettivamente gli appellanti avrebbero dovuto presentare due distinti ricorsi giacchè gli atti impugnati erano stati emessi da due autorità giudiziarie diverse: solo in un secondo momento e ad avvenuto incardinamento del rapporto d’appello sarebbe stato lecito chiedere un’eventuale riunione dei fascicoli una volta provata la sussistenza della connessione oggettiva ed una volta consentita interlocuzione degli appellati”.

Pertanto, l’effettiva ratio decidendi della pronuncia d’appello si sostanzia nell’inammissibilità del ricorso congiunto presentato dai contribuenti in primo grado avverso atti (le cartelle) che erano stati emessi da due autorità diverse. Successivamente, il giudice d’appello ha respinto anche nel merito il gravame dei contribuenti, ma quando ormai si era già spogliato della “potestas iudicandi”. Infatti, si legge motivazione che “esclusivamente per completezza argomentativa”, erano corretti gli importi delle cartelle, iscritti in base alla regola di esecuzione frazionata di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68. Infatti, quanto alla posizione del V., si era provveduto a computare le imposte, gli interessi e le sanzioni in ragione dell’intero, in quanto l’ufficio aveva iscritto a ruolo la metà esclusivamente a causa della proposizione del ricorso, posizione successivamente sgravata a seguito della sentenza della Commissione tributaria provinciale.

Con riferimento alla posizione della D., il giudice d’appello ha ritenuto che la pretesa era relativa alle imposte ed agli interessi, escluse dunque le sanzioni, in ragione del residuo terzo, essendovi in atto la precedente iscrizione relativa alle frazioni di tributo accertato per un mezzo, seguito di ricorso, e fino a 2/3, a seguito della sentenza della Commissione tributaria provinciale. Inoltre, secondo la Commissione regionale l’accordo contrattuale, riferito all’accollo delle spese e degli oneri tributari a carico degli acquirenti, era meramente interno tra i contraenti, in quanto non vi aveva partecipato l’erario, “il quale peraltro mai espresse accondiscendenza e pertanto mai liberò i debitori originari in base al disposto dell’art. 1273 c.c., comma 3”.

10.2. I contribuenti ricorrenti avrebbero, quindi, dovuto impugnare la specifica ed unica ratio decidendi sottesa alla decisione del giudice d’appello, in relazione alla ritenuta inammissibilità di un unico ricorso presentato dai contribuenti avverso due cartelle di pagamento emesse da due distinti organi amministrativi. 10.3.Deve, allora, applicare il principio di diritto per cui, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (…), con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (Cass., sez. un., n. 3840 del 20 febbraio 2007; Cass., sez. un., n. 15122 del 17 giugno 2013; Cass., sez. 3, n. 17004 del 20 agosto 2015; Cass., n. 30393, del 19 dicembre 2017; Cass., n. 1214 del 21 gennaio 2020; Cass., n. 13549 del 30 maggio 2018).

11.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste quindi, per il principio della soccombenza, a carico dei ricorrenti, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

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