Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16033 del 02/08/2016

Cassazione civile sez. III, 02/08/2016, (ud. 22/04/2016, dep. 02/08/2016), n.16033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7869-2013 proposto da:

Z.M., (OMISSIS), ZE.MA. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA ANTONIO NIBBY 18, presso lo studio

dell’avvocato FRANCESCO CORDOPATRI, che li rappresenta e difende

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

ISTITUTO DIOCESANO PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO DELLA DIOCESI DI

IGLESIAS in persona del legale rappresentante pro tempore DON

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORAZIO 3, presso lo

studio dell’avvocato CARMELA GALLO, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIANLUCA ASTE giusta procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 475/2012 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 19/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/04/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato FRANCESCO CORDOPATRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con ricorso del 20 marzo 1993 l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di (OMISSIS) conveniva davanti al Tribunale di (OMISSIS) Z.M. perchè fosse condannato alla restituzione di un proprio fondo che ne avrebbe avuto in comodato da quarant’anni; Z.M. si costituiva difendendosi, tra l’altro affermando che il fondo gli era stato concesso in enfiteusi perpetua e, in subordine, che si trattava di un rapporto locatizio. Successivamente il giudizio si estinse.

Con ricorso del 12 gennaio 2007 lo stesso Istituto conveniva davanti al Tribunale di (OMISSIS) Z.M. e suo figlio Ze.Ma.. Richiamando la precedente vicenda processuale, nella quale il convenuto aveva anche prodotto ricevute per dimostrare il pagamento dei canoni, di cui sarebbe emerso che erano state rilasciate nell’ambito di un affitto, e rimarcato pure che nel precedente giudizio il convenuto aveva, in subordine, dedotto trattarsi di locazione, il ricorrente adduceva che Z.M. non pagava alcun canone e che suo figlio Ze.Ma. da dieci anni utilizzava il fondo senza pagare neanche lui alcun canone. Pertanto l’Istituto chiedeva che fosse dichiarata la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento dei convenuti, con loro conseguente condanna al rilascio.

Gli Z. si costituivano, resistendo e negando che fosse stata provata l’esistenza di un contratto di locazione; ribadivano che con l’Istituto sussisteva un rapporto di enfiteusi, insorto dal 1965, chiedendo di tale enfiteusi l’accertamento con domanda riconvenzionale. Negavano comunque ogni proprio inadempimento, asserendo di avere effettuato pagamento anticipato del canone per ottantuno anni.

Con sentenza del 19 ottobre 2011 il Tribunale di (OMISSIS), ritenuta provata l’esistenza del contratto di locazione, ne dichiarava la risoluzione per inadempimento degli Z., con conseguente condanna al rilascio, e rigettava ogni domanda riconvenzionale.

Avendo gli Z. proposto appello contro tale sentenza, ed essendosi costituito resistendo l’Istituto, la Corte d’appello di (OMISSIS), con sentenza del 19 ottobre – 12 novembre 2012, respingeva il gravame.

2. Hanno presentato ricorso M. e Z.M., sulla base di sei motivi.

Il primo motivo denuncia violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 2697 c.c., comma 1, per avere il giudice d’appello ritenuta provata dall’appellato il contratto di locazione. L’appellato invece avrebbe inadempiuto al suo onere probatorio, non allegando neppure il fatto costitutivo della sua pretesa.

Il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamenta violazione dell’art. 421 c.p.c., comma 2: il giudice nel rito del lavoro può esercitare poteri ufficiosi solo nel caso in cui la parte che ha l’onere della prova abbia già apportato elementi probatori, e ciò non sarebbe avvenuto nel caso in esame.

Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, e art. 36. Il giudice d’appello, per ovviare alle carenze istruttorie attoree e per invertire l’onere della prova, avrebbe violato tali norme, confondendo il fatto estintivo, impeditivo e modificativo – la cui allegazione compete al convenuto – con l’affermazione di una qualifica giuridica diversa. Ma nel caso di specie, gli attuali ricorrenti non avevano alcun onere probatorio, avendo proposto solo un’eccezione riconvenzionale.

Il quarto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, per avere la corte territoriale posto a fondamento della sua decisione come fatto non contestato dai convenuti le ricevute di canoni redatte dall’appellato, laddove non sarebbe mancata una loro specifica contestazione.

Il quinto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia violazione dell’art. 310 c.p.c. per avere il giudice d’appello tratto supporto probatorio da un’affermazione presente in un atto processuale di un processo estinto, la comparsa di risposta degli attuali appellanti.

Il sesto motivo lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo. La corte territoriale non avrebbe motivato sulla ritenuta tipologia contrattuale. Eppure, una volta qualificato il contratto come locazione a uso commerciale, il contratto non sarebbe stato assoggettato a forma scritta ad substantiam, nè per la legge speciale applicabile ratione temporis (L. n. 392 del 1978, art. 27, art. 27) nè per l’art. 1350 c.c., n. 8: ma se la forma era libera, la prova della conclusione del contratto avrebbe dovuto essere testimoniale o presuntiva, mentre la corte non l’avrebbe fondata su tali prove, bensì sul pagamento di canoni, imputati a titolo di locazione.

L’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero di (OMISSIS) si è difeso con controricorso, chiedendo che il ricorso sia disatteso.

Il ricorrente ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c. insistendo nei suoi motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è infondato.

3.1.1 Il primo motivo, che ravvisa nell’impugnata sentenza una violazione dell’art. 2697 c.c., denunciandola ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, esordisce in effetti con una censura che avrebbe dovuto essere rapportata all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo antecedente alla novellazione che dell’art. 360 ha operato il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modifiche nella L. 7 agosto 2012, n. 134, testo ratione temporis inapplicabile nel caso di specie, essendo stata la pronuncia del giudice d’appello pubblicata il 12 novembre 2012, cioè già nel vigore della suddetta riforma. Attribuisce infatti il motivo in esame argomentazioni “prive di coerenza” alla corte territoriale che, da un lato, avrebbe ritenuto che “la qualificazione del rapporto tra le parti come di locazione non è stata effettuata dal giudice per esclusione, ma invece sulla base di specifici elementi probatori”, ovvero che sarebbe stata provata la qualificazione giuridica del rapporto, e dall’altro “che comunque la sussistenza del rapporto di locazione, da qualificare per l’appunto e all’esito sub specie juris, sarebbe stata dimostrata”. Preteso vizio motivazionale, questo, che poi il motivo tenta di corroborare scendendo alla valutazione fattuale operata dal giudice d’appello e di nuovo mirando ad estrapolarne contraddittorietà, adducendo che, per un verso, il giudice avrebbe ritenuto la qualificazione del rapporto derivata da quanto dedotto nella comparsa di costituzione del processo del 1993 da Z.M., e per altro verso che l’espressione usata personalmente da quest’ultimo di “essere entrato nell’immobile in affitto” è “di per sè impropria” e non costituente una qualificazione giuridica del rapporto, aggiungendo l’omessa contestazione da parte di lui delle ricevute che nella causale indicavano un rapporto di locazione.

Non si può non rilevare, allora, che questi argomenti non sono coerenti con la natura del motivo così come enunciata nella rubrica con il riferimento alla violazione di legge processuale (art. 2697 c.c.). E, d’altronde, non potrebbero essere “salvati” con una riqualificazione del motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto da un lato come già si è accennato essi oltrepassano i confini del vizio motivazionale rilevante secondo la vigente normativa, e dall’altro scendono su un inammissibile piano fattuale, in ordine alla valutazione che il giudice di merito avrebbe dato di alcuni elementi probatori.

D’altronde, si osserva oramai ad abundantiam, quel che costruisce questa parte del motivo è frutto di una artificiosa estrapolazione che isola segmenti della motivazione della sentenza d’appello per sfigurarne, tramite tale de contestualizzazione, il contenuto. Nella sentenza, invero, si dà atto, esponendo lo svolgimento del processo, che il primo giudice aveva ritenuto adeguatamente provato il contratto di locazione per aver Z.M., nella comparsa di costituzione nel giudizio del 1993, “chiesto, in via subordinata, che il Tribunale dichiarasse la propria incompetenza, trattandosi di rapporto di locazione”, di competenza quindi pretorile, aggiungendo che Z.M., “personalmente comparso” (evidentemente davanti al giudice di prime cure di questo giudizio), aveva dichiarato di essere “entrato nell’immobile in affitto”. A fronte poi del motivo d’appello fondato sull’art. 2697 c.c. – per cui incombeva i5all’Istituto l’onere della prova dell’avvenuta conclusione di un contratto di locazione, e per cui il primo giudice aveva “erroneamente ritenuto fosse onere dei resistenti provare il fatto impeditivo, pur non avendo il ricorrente dimostrato il fatto costitutivo, senza rilevare che l’enfiteusi era stata da loro prospettata come mera difesa e non come eccezione di un fatto impeditivo”, criticando inoltre l’appellante il rilievo degli elementi probatori utilizzati dal Tribunale – la corte territoriale ha affermato che “la qualificazione del rapporto tra le parti come di locazione non è stata effettuata dal giudice per esclusione, ma invece sulla base di specifici elementi probatori” come la qualificazione del rapporto quale locazione nella comparsa di risposta del giudizio del 1993, la dichiarazione di Z.M. sull’essere “entrato nell’immobile in affitto” – osservando su questa che, “di per sè impropria ed atecnica, viene generalmente utilizzata nel lessico comune per fare riferimento ad un contratto di locazione, e pertanto la stessa non costituisce una qualificazione giuridica del rapporto” (il rilievo, si osserva per inciso, si fonda su un evidente notorio) -, e le ricevute di canoni del 27 settembre 1969 e del 19 maggio 1979 che recavano come espressa indicazione di causale un rapporto di locazione e che gli stessi attuali ricorrenti avevano prodotto nel primo grado del giudizio.

3.1.2 Il motivo in esame, a questo punto, si sforza a raggiungere un effettivo collegamento con l’art. 2697 c.c., riecheggiando, peraltro, quanto era già stato rappresentato al riguardo nel gravame di merito. La sentenza di secondo grado non avrebbe evidenziato “un qualsivoglia tentativo dell’Istituto Diocesano” volto a provare, ex art. 2697 c.c., il fatto costitutivo della sua pretesa, cioè il contratto di locazione; e vista tale “conclamata assoluta inerzia probatoria dell’attore” il giudice d’appello non sarebbe stato legittimato ad avvalersi dei propri poteri ufficiosi. In tal modo la corte territoriale, “per questa via, ha finito per incorrere nella violazione” non solo dell’art. 2697 c.c., comma 1, ma pure degli artt. 115 c.p.c., comma 1, e art. 421 c.p.c., comma 2.

Questa parte del motivo non presenta alcuna fondatezza, perchè non è corrispondente al contenuto della sentenza impugnata. Come già si è visto, la corte territoriale, ma anche il Tribunale, e dunque entrambi i giudici di merito (che non a caso hanno posto in essere una doppia conforme) hanno fondato l’accertamento dell’esistenza del rapporto locatizio anche su elementi addotti proprio dall’Istituto Diocesano, ovvero il contenuto della comparsa di risposta di Z.M. nel precedente giudizio estinto (la cui acquisizione non è stata certo frutto di un esercizio di potere ufficioso del giudicante), e – il primo giudice – l’avere egli in tale sede prodotto ricevute dimostrative di un contratto di locazione (motivazione, pagina 2s.). Non vi è stata, perciò, alcuna inerzia dell’Istituto rispetto al proprio onere probatorio; nè può – ictu oculi – rappresentare un illegittimo utilizzo dei poteri ufficiosi l’avere il giudice di merito considerato la dichiarazione resa da Z.M. quando comparve personalmente nel primo grado, nel senso che egli sarebbe “entrato nell’immobile in affitto”.

Il motivo, pertanto, in nessuna sua parte non merita accoglimento.

3.2 Il secondo motivo può dirsi assorbito da quanto appena rilevato sulla seconda parte del motivo precedente. Infatti, qui viene denunciata la violazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, dell’art. 421 c.p.c., comma 2, nella rubrica, e, nel corpo del motivo, altresì la violazione dell’art. 2697 c.c. Avrebbe la corte territoriale ritenuto “di essere legittimata ad edulcorare i rigorosi principi” dell’art. 2697 c.c., avvalendosi dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c. senza che ne sussistessero i presupposti. Ripete questo motivo quanto addotto dalla censura precedente, ovvero che sui fatti costitutivi dell’azione dell’Istituto Diocesano non sarebbero stati apportati dalla parte onerata elementi probatori, così da legittimare il giudice a procedere a una loro integrazione.

3.3 Neppure il terzo motivo si discosta da quanto prospettato nella seconda parte del primo motivo e riproposto nel secondo. Denunciando, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, e dell’art. 36 c.p.c., si ribadisce che il giudice avrebbe tentato “di ovviare alle carenze istruttorie dell’attore e di invertire l’onere della prova”: in tal modo avrebbe violato l’art. 2697 c.c. e l’art. 36 c.p.c. “nella parte in cui incautamente pretende di elevare la contestazione dei convenuti, che hanno resistito alla domanda attrice assumendo esservi un rapporto di enfiteusi, per un verso, a vero e proprio fatto impeditivo, estintivo o modificativo, e, per l’altro verso, a vero e proprio fatto esso stesso costitutivo di una vera e propria domanda riconvenzionale”, laddove vi sarebbe stata “una semplice eccezione riconvenzionale” per cui non sussisteva onere probatorio.

La sostanza, come si vede, è la stessa delle doglianze precedenti, pur se il ricorso tenta di mascherarla introducendo un elemento ulteriore, cioè quello della enfiteusi. In realtà, come già si è visto, la corte territoriale non ha violato i principi della ripartizione dell’onere probatorio “soccorrendo” l’Istituto Diocesano mediante un malgoverno dei propri poteri ufficiosi, e non ha per nulla fondato l’accoglimento della sua pretesa sulla questione dell’enfiteusi. D’altronde, poi, che l’accertamento di questa non fosse oggetto di una domanda riconvenzionale (come ritenuto da entrambi i giudici di merito: v. motivazione della sentenza impugnata, pagine 3-4 e pagina 7), bensì il fondamento di una mera eccezione riconvenzionale è un asserto sul quale il ricorso è privo di autosufficienza, non avendo riportato come nella memoria con cui si sono costituiti in giudizio in primo grado gli attuali ricorrenti sarebbe stata proposta tale eccezione riconvenzionale nè nella esposizione del motivo (ricorso, pagina 13-14), nè nella premessa ai motivi (pagina 1s.) del ricorso, premessa ove i ricorrenti si limitano a esporre di essersi costituiti davanti al Tribunale con “memoria del 21 marzo 2008” nella quale avrebbero “vigorosamente contestato l’esistenza del preteso contratto di locazione” ed “eccepito, in proposito, l’assoluta carenza di qualsivoglia attività probatoria da parte dell’attore”.

Anche questo motivo, pertanto, è privo di pregio.

3.4 Il quarto motivo denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere ritenuto la corte territoriale non contestata dai convenuti “la imputazione del pagamento a titolo di canone per la locazione, fatta dal creditore Istituto Diocesano nelle ricevute di quietanza dal creditore medesimo redatte”, perchè sarebbe stata necessaria una contestazione specifica a fronte di un’altrettanto precisa allegazione dei fatti da parte dell’attore, allegazione che, nel caso di specie, sarebbe “meramente generica se non addirittura evanescente”. E “la affermazione resa all’udienza del 23 maggio 2008 non concreta affatto una mancata specifica contestazione”, d’altronde essendo “semmai da ipotizzare l’esistenza di un rapporto ultranovennale” necessitante la forma scritta.

Il motivo, come si constata mediante questa sintesi, è formulato in modo confuso. Non si comprende che cosa possa incidere l’ipotesi (improvvisa) di un rapporto ultranovennale sull’asserto che il giudice di merito abbia ritenuto non contestato il pagamento di canoni sulla base di quietanze che non sarebbero state oggetto di specifica contestazione dagli attuali ricorrenti. Nè sono chiaramente identificate nel motivo le ricevute cui si farebbe riferimento. E dall’ambiguo contenuto del motivo non si può che desumere, alla fin fine, un riferimento a quelle ricevute che l’Istituto Diocesano, nell’atto introduttivo del giudizio, rilevava essere state prodotte dallo stesso Z.M. nel precedente giudizio del 1993, riguardo alle quali (pagina 6 della motivazione) la corte territoriale ha riportato il contenuto del gravame degli attuali ricorrenti, sintetizzandolo nel senso che erano “prive di rilievo le ricevute di pagamento del canone di affitto in atti, in quanto redatte dall’asserito locatore”. A una loro incidenza probatoria, peraltro, non fa più riferimento ìl giudice di secondo grado nella parte motiva stricto sensu della sua sentenza, ove richiama invece due ricevute che dichiara prodotte dagli stessi appellanti per dimostrare il proprio adempimento, cioè quelle del 27 settembre 1969 e del 19 maggio 1979, rilevando che “non erano mai state contestate dallo Z., il quale le aveva anzi prodotte nel primo grado del giudizio”. Non si vede, allora, quale consistenza possa avere l’assetto della necessità di una contestazione specifica di quel che la stessa parte produce per dimostrare un proprio adempimento.

Il motivo, infine, non è autosufficiente riguardo a quella che definisce l’affermazione del 23 maggio 2008, di cui non indica neppure il contenuto. Se il contenuto cui il motivo fa riferimento è l’unico rispetto al quale il ricorso non è privo di autosufficienza, e cioè la frase relativa all’esser Z.M. “entrato nell’immobile in affitto” (v. ricorso, pagina 2), non si vede quale fondamento tale frase offra all’asserto, apportato dal motivo, sulla necessità di specifica contestazione delle ricevute, come si è appena visto, prodotte dalla stessa parte che dovrebbe secondo la censura in esame contestarle ma che è la stessa parte che le utilizza a sostegno della propria prospettazione.

Il motivo, in conclusione, non risulta conformato in modo nè realmente comprensibile nè coerente, per cui non merita alcun accoglimento.

3.5.1 Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 310 c.p.c. per avere la corte territoriale reiterato l’errore del giudice di primo grado “laddove pretende di reperire il supporto probatorio del preteso contratto di locazione in una affermazione contenuta in un atto processuale” di un processo estinto, cioè la comparsa di risposta in esso versata da Z.M.. La violazione sarebbe evidente, perchè l’art. 310 c.p.c., comma 2, attribuisce agli atti processuali compiuti nel processo estinto efficacia solo in quanto sia intervenuta una sentenza suscettibile di giudicato, il che non è avvenuto nel caso in esame.

In realtà, l’invocata norma si riferisce evidentemente all’efficacia dell’atto come segmento dell’iter processuale che sfocia nella estinzione, come dimostra la contestuale disposizione di salvezza per le sentenze di merito e le pronunce regolanti la competenza. E questo nulla ha a che fare con l’utilizzazione che della comparsa di risposta del processo del 1993 ha operato la corte territoriale (come in precedenza il giudice di primo grado) nella sentenza impugnata, ovvero come riconoscimento di un dato sostanziale indubbiamente rilevante in questo giudizio da parte di Z.M.. Riconoscimento al quale, ovviamente e correttamente, non essendo stato l’atto sottoscritto dallo stesso Z.M., non è stato attribuito il valore confessorio (come confessione stragiudiziale), ma che il giudice di merito ha utilizzato per costruire il suo convincimento attraverso una libera valutazione (motivazione, pagina 7). Nessuna pertinenza, pertanto, alla questione qui in esame gode la giurisprudenza richiamata nel motivo, ovvero Cass. sez. 1, 16 marzo 2007 n. 3293 (che insegna che gli atti introduttivi del giudizio mantengono efficacia permanente finchè non interviene una sentenza che, pur risolvendo questioni processuali come la giurisdizione, sia idonea a passare in giudicato, così da precludere l’esame della stessa questione da parte di altro giudice, non rilevando la successiva estinzione del giudizio di merito) e Cass. sez. 1, 11 luglio 2008 n. 19236 (ancor meno attinente, in quanto relativa al potere del sindaco di emettere ordinanze).

3.5.2 Il motivo prosegue, peraltro, sostenendo che, “quando mai ritenuto tuttora efficace l’atto, dal suo contenuto la Corte non avrebbe potuto trarre, a preteso supporto del rapporto locatizio, neppure argomento di prova” poichè l’utilizzabilità come argomenti di prova degli atti di un processo estinto sarebbe circoscritta alle risultanze istruttorie e non è elemento istruttorio l’atto introduttivo del giudizio.

Anche in questo caso, il richiamo giurisprudenziale offerto dal motivo (S.U. 23 gennaio 1991 n. 597, che concerne il rapporto tra una pronuncia di regolamento di giurisdizione della stessa Suprema Corte relativa a un giudizio poi estintosi e una successiva pronuncia di regolamento di giurisdizione in un procedimento fra le stesse parti e per lo stesso rapporto: “In sede di regolamento di giurisdizione con riguardo a domanda proposta nei confronti dello straniero, la prova scritta di un patto di proroga della giurisdizione, ai sensi dell’art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (ratificata con legge 21 giugno 1971 n. 804), non può esser evinta dall’affermazione della sussistenza del relativo documento, che sia contenuta in una precedente pronuncia di regolamento, resa dalla Suprema Corte nello ambito di contesa fra le stesse parti e sullo stesso rapporto poi estintasi per mancata riassunzione, atteso che, a norma dell’art. 310 c.p.c., l’utilizzabilità, per trarre argomenti di prova, degli atti di un processo estinto, è circoscritta alle risultanze istruttorie”). L’art. 310 c.p.c., comma 3, invero, stabilisce che le prove raccolte nel giudizio estinto sono valutate dal giudice ex art. 116 c.p.c., comma 2: e la norma concerne, appunto, “le prove raccolte”, non gli atti processuali.

Peraltro, il principio generale che governa l’accertamento di fatto è individuabile nel libero convincimento del giudice, che rende utilizzabili non solo le prove raccolte in un altro giudizio fra le stesse parti (cfr. S.U. 8 aprile 2008 n. 9040), e non solo quegli elementi che, in quanto provenienti da altro giudizio, ricevono da una norma specifica il valore di argomenti probatori (come, appunto, nel caso dell’art. 310 c.p.c., comma), ma pure quelle fonti di conoscenza che non sono state specificamente regolate dal legislatore se non tramite la sostanza del processo, cioè il contraddittorio (sul libero convincimento e sulla sua compatibilità, commisurata e condizionata al diritto di difesa che nel contraddittorio si esplica, con gli elementi probatori atipici v. tra i più recenti arresti Cass. sez. 3, 1 settembre 2015 n. 17392, Cass. sez. 3, 26 giugno 2015 n. 13229, Cass. sez. 2, 4 giugno 2014 n. 12577; e cfr. pure Cass. sez. 2, 5 marzo 2010 n. 5440). Un elemento probatorio formatosi all’esterno del processo viene comunque legittimato, quindi, proprio con l’introduzione in esso, perchè questo consente l’esercizio del diritto di difesa della parte a tale elemento controinteressata.

Nel caso di specie, allora, fin dall’atto introduttivo l’Istituto Diocesano aveva fatto riferimento come già si è visto a proposito dei primi motivi di questo ricorso -, come dato di sostegno della sua prospettazione, al contenuto della comparsa di risposta di Z.M. nel precedente giudizio avviato nel 1993 e successivamente estinto. Non è dunque discutibile che, applicando il principio del libero convincimento (art. 116 c.p.c., comma 1) per trarre una valenza probatoria anche da tale elemento, il giudice di merito abbia violato la legge, e in particolare l’art. 310 c.p.c. che, come sopra si è illustrato, non detta norme che riguardino l’atto introduttivo di un giudizio che poi si estingue ai fini della sua utilizzazione meramente probatoria in altro giudizio.

Il motivo, quindi, risulta infondato.

3.6 Il sesto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 omesso esame di un fatto decisivo.

In questa doglianza si adduce che il giudice d’appello avrebbe omesso di “fornire la giustificazione, sul piano probatorio, della ritenuta tipologia contrattuale”. Qualificato infatti il contratto come locazione di immobili ad uso commerciale, per questo – osservano i ricorrenti non era necessaria la forma scritta ad substantiam, “nè per la legislazione speciale applicabile ratione temporis (L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 27), nè per quella ordinaria” (art. 1350 c.c., n. 8). Se dunque la forma del contratto è libera, l’indagine sulla sua conclusione si risolverebbe “sul piano della prova, testimoniale o presuntiva, del raggiungimento dell’accordo”. Ma “la Corte territoriale ha ritenuto raggiunta la prova della conclusione del contratto di locazione in discorso non sulla base di testimonianza nè tantomeno sulla base di presunzione”, bensì unicamente sulla base della corresponsione di canoni dai convenuti all’Istituto “imputati a titolo di locazione”. Questo sarebbe il punto decisivo non considerato in motivazione per quanto contestato tra le parti, così da integrare vizio motivazionale.

Il motivo non è fondato. Premesso che, come sopra si è visto a proposito delle precedenti doglianze, nessuno dei giudici di merito ha fondato il proprio convincimento esclusivamente sul pagamento dei canoni – e ciò già sarebbe sufficiente a dimostrare l’inconsistenza del motivo -, non si può non rilevare che la validità sostanziale che afferisce a un negozio si pone su un piano distinto rispetto alla validità probatoria degli elementi con cui ne viene dimostrata l’esistenza. Il fatto che un contratto non sia di forma scritta ad substantiam non significa, ovviamente, che la prova per dimostrarne l’esistenza non possa essere anche una prova documentale. Nell’ordinamento, la prova documentale non è in effetti mai vietata, i limiti essendo delineati, piuttosto, per la prova dichiarativa e correlativamente per la prova presuntiva (art. 2721 c.c. e ss. e art. 2729 c.c., comma 2). Non è dunque sostenibile che solo mediante siffatte tipologie probatorie una parte possa dimostrare un contratto perchè questo è a forma libera. E per di più, anche se fosse fondata, quella appena esaminata è ictu oculi una questione di diritto, che pertanto non integra il vizio motivazionale, il quale consiste nell’omessa considerazione di un fatto, controverso e decisivo. Invero, il vizio denunciabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – e su questo profilo non si ravvisa modifica neppure nella, già sopra citata, sua novellazione del 2012 – deve attenere a questioni di fatto, non a questioni di diritto, sulle quali la motivazione non vanta incidenza perchè vi rileva unicamente la corretta applicazione da parte del giudice di merito delle norme di diritto (cfr. ancora tra gli arresti recenti Cass. sez. 3, 14 febbraio 2012 n. 2107, Cass. sez. 5, 2 febbraio 2002 n. 1374; Cass. sez. 2, 10 maggio 1996 n. 4388; Cass. sez. 1, 14 giugno 1991 n. 6752; Cass. sez. 2, 22 gennaio 1976 n. 199; trattasi di principio generale, relativo anche alla giurisdizione di legittimità in materia penale: cfr. p.es. Cass. pen. sez. 1, 20 maggio 2015 n. 16372 e Cass. pen. sez. 3, 23 ottobre 2014-11 febbraio 2015 n. 6174).

Sotto ogni profilo, dunque, il motivo non presenta alcun pregio.

4. Per completezza, si osserva che il contratto di locazione di cui si tratta non emerge dagli atti essere stato registrato, il che potrebbe essere oggetto di rilievo d’ufficio (cfr. S.U. 17 settembre 2015 n. 18213 per una fattispecie non coincidente ma neppure remota nella sua sostanza da quella in esame) come fonte di nullità ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 146, (legge finanziaria 2005). Premesso che ciò comporterebbe, per stornare la c.d. terza via – che altro non è che una lesione del contraddittorio in rapporto al concreto contenuto della regiudicanda l’applicazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, per suscitare la presa di posizione delle parti sul punto, nel caso di specie è peraltro sufficiente rilevare che la nullità per mancata registrazione del contratto di locazione attiene ai contratti stipulati a partire dal 10 gennaio 2005, e dunque non al contratto in esame: il che rende superflua in questo giudizio una prodromica discussione ex art. 101 c.p.c., comma 2, al riguardo.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti – in solido, per il comune interesse processuale – alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 134, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna solidalmente i ricorrenti a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 7000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2016

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