Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16031 del 28/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 28/07/2020, (ud. 05/03/2020, dep. 28/07/2020), n.16031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29724-2018 proposto da:

F.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SARDEGNA 50,

presso lo studio dell’avvocato MARIA FERRANTE, rappresentata e

difesa dall’avvocato LORENZO ECCHER;

– ricorrente –

contro

D.B., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ROBERTO ZOLLER;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 122/2018 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 22/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/03/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARILENA

GORGONI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

F.E. ricorre per la cassazione della sentenza n. 122/2018 della Corte d’Appello di Trento, pubblicata il 22 maggio 2018, articolando tre motivi.

Resiste con controricorso D.B..

La ricorrente espone in fatto di essere stata convenuta in giudizio, dinanzi al Tribunale di Trento, da D.B. per essere condannata, a causa delle gravi condotte diffamatorie attribuitele, a risarcirgli tutti i danni, patrimoniali e non, quantificati in Euro 52.000,00 o nella somma determinata in corso di causa.

Il Tribunale, con ordinanza del 17 marzo 2016, rigettava la domanda e condannava l’attore a rifondere le spese di lite affrontate dalla odierna ricorrente.

In sede di appello, proposto da D.B., quest’ultimo insisteva per la richiesta risarcitoria già formulata nel giudizio di prime cure.

F.E., a sua volta, ribadiva le proprie difese e, quindi, chiedeva che l’appello fosse dichiarato inammissibile, che fosse accertata l’infondatezza della richiesta risarcitoria e che l’appellante fosse condannato al pagamento delle spese di lite.

La Corte d’Appello di Trento, con la sentenza qui impugnata, accoglieva il gravame proposto da D.B., riformava la sentenza di prime cure, condannava D.E. al risarcimento del danno subito dall’appellante, quantificandolo in Euro 15.000,00, oltre agli interessi legali data della sentenza al saldo, ed alla rifusione delle spese di lite.

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in combinato disposto con l’art. 255 c.p.c.; la condotta del testimone può essere sindacata sotto il profilo della falsità ma non sotto quello dell’apprezzamento o del giudizio di valore”.

Posto che la condotta diffamatoria attribuitale consisteva nelle dichiarazioni fatte quale testimone nella controversia che aveva visto i coniugi C. e B. opposti al Comune di (OMISSIS), presso cui D.B. prestava la propria opera come tecnico, relative al fatto che i primi conoscessero o meno la presenza di un pozzetto nel terreno da loro acquistato, le sue dichiarazioni non avrebbero dovuto essere vagliate dal punto di vista del giudizio di valore, cioè avrebbero potuto essere ritenute false, ma non offensive dell’altrui onore o reputazione.

Mette conto rilevare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, i testimoni giudiziari se depongono il vero su ciò che viene loro domandato non commettono diffamazione ancorchè la deposizione implichi una menomazione dell’onore, del decoro o della reputazione altrui, dal momento che la verità del fatto attribuito elimina, per la presenza della causa giustificativa dell’adempimento di un dovere giuridico, il carattere offensivo dell’azione. Nel caso in cui, invece, essi depongano il falso, commettono diffamazione ove sussistano i requisiti di tale illecito (Cass. 06/03/2008, n. 6041).

Per di più le condotte diffamatorie attribuite all’odierna ricorrente non si limitano alla deposizione testimoniale, ma sono ricondotte anche alle relazioni poi prodotte alla pubblica Autorità (p. 7 della sentenza).

Essendo emerso che sia per iscritto sia in sede di deposizione testimoniale (p. 17 della sentenza) quanto riferito dall’odierna ricorrente non corrispondeva al vero, la Corte d’Appello non è affatto incorsa in errore ritenendo integrati gli estremi della diffamazione.

Il motivo pertanto è infondato.

2. Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza gravata per “violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.: il danno deve essere provato dal danneggiato”.

L’errore attribuito alla decisione è quello di aver ritenuto provato il danno subito da D.B. solo per il fatto di essere un tecnico del Comune, senz’altra prova da parte sua se non quella consistente nell’affermazione di avere provato grande amarezza, turbamento e sofferenza che avevano comportato difficoltà con i colleghi e con i dirigenti del Comune.

Dato che anche il danno non patrimoniale deve essere allegato e provato da chi ne invochi il risarcimento, le enunciazioni generiche astratte ed ipotetiche non avrebbero, ad avviso della ricorrente, assunto efficienza probatoria.

3. Con il terzo motivo la ricorrente imputa al giudice a quo “violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2056 c.c., e art. 113 c.p.c.: non risultano precisati i criteri seguiti per determinare l’entità del danno subito dal Geom. D.B.”, essendosi la sentenza limitata a far leva sull’evidente difficoltà di quantificazione, senza indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui si è basata la decisione sul quantum.

4. I motivi due e tre possono essere esaminati unitariamente, perchè attengono all’an ed al quantum del danno non patrimoniale liquidato a favore del tecnico del Comune ritenuto diffamato.

Questo Collegio ritiene indispensabile ribadire: a) che la lesione d’un interesse protetto dalle legge è presupposto del danno, ma non è essa il danno, il quale consiste nelle conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate; b) che la condotta antigiuridica lesiva di un interesse giuridicamente protetto non fa sorgere, da sola, il diritto al risarcimento del danno, se il danneggiato non dimostra il tipo di perdita subita, l’intensità e la durata della stessa (Cass. 06/12/2018, n. 31537); c) che la valutazione equitativa del danno – ai sensi dell’art. 1226 c.c., – espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., non può sopperire a un difetto di prova circa la ricorrenza del danno, ma soccorre sussidiariamente ove, provato il danno, sia difficile o impossibile quantificarlo ed è subordinata, da un lato, alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro, non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza del danno, nè esonera la parte dall’onere di fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (Cass. 13/11/2019, n. 29330).

Passando al caso concreto, il Giudice a quo ha ritenuto provato il danno facendo leva sui seguenti parametri di riferimento: a) la diffusione in atti destinati ad essere conosciuti da più persone dei fatti attribuiti al diffamato; b) la rilevanza dell’offesa – concretizzatasi nell’attribuzione di comportamenti professionali gravemente negligenti e persino fraudolenti -; c) la posizione sociale della vittima, tecnico del Comune di (OMISSIS).

Si tratta di parametri che devono essere ritenuti idonei, perchè sono quelli più volte ritenuti utilizzabili a tale scopo dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., 25/05/2017, n. 13153; Cass. 26/10/2017, n. 25420).

Quanto alla liquidazione equitativa, attesa l’evidente difficoltà di quantificazione, il giudice, tenuto ad indicare i criteri seguiti per la quantificazione affinchè fosse proporzionata alla gravità del fatto e delle conseguenze patite dal destinatario delle dichiarazioni ingiuriose o diffamatorie, oltre che della posizione sociale ricoperta dal danneggiato, ha indicato l’attribuzione di un comportamento professionale gravemente negligente ed addirittura doloso, la posizione di prestigio professionale ricoperta dal danneggiato, le conseguenze in termini di difficoltà nei rapporti con i dirigenti del Comune, lo stato di sofferenza e di turbamento.

Di conseguenza, la sentenza impugnata si sottrae alle censure mossele, in quanto il giudice di appello ha comunque motivato in punto di sussistenza e consistenza del danno non patrimoniale, assumendo idonei parametri di riferimento.

5. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 1.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Depositato in Cancelleria il 28 luglio 2020

 

 

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