Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16031 del 02/08/2016


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Cassazione civile sez. III, 02/08/2016, (ud. 22/04/2016, dep. 02/08/2016), n.16031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7097-2013 proposto da:

D. E G. RISTORAZIONE DI D.L.G. & C SNC

IN LIQUIDAZIONE, (OMISSIS) e per essa il Liquidatore unico e legale

rappresentante D.L.G., domiciliato ex lege in ROMA

presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato MAGGIORE Fabio, giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PIA OPERA ISTITUTO S LUCIA, (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

PIA OPERA ISTITUTO S LUCIA (OMISSIS) in persona del Commissario

Straordinario e legale rappresentante pro tempore Dr. ANTONINO

GIANNETTINO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ZANARDELLI 23,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE DI STEFANO, rappresentato e

difeso dall’avvocato FEDERICO FERINA giusta procura speciale in cale

al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

D. E G. RISTORAZIONE DI D.L.G. & C SNC

IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS), domiciliato ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato FABIO MAGGIORE giusta procura speciale in calce al

controricorso incidentale;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 1577/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 10/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/04/2016 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito l’Avvocato FEDERICO FERINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, assorbito il ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.1 Con atto notificato il 3 maggio 2004 la Pia Opera Santa Lucia intimava a D. e G. Ristorazione di D.L.G. e c. s.n.c. sfratto per morosità davanti al Tribunale di Palermo in relazione ad un immobile a tale società concesso in locazione e nel quale la conduttrice svolgeva attività di ristorazione, convenendola per la convalida e chiedendo anche che fosse emesso nei suoi confronti decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni non versati per Euro 93.159,13.

La conduttrice si opponeva, adducendo che le parti avevano concordato di sospendere il pagamento dei canoni finchè la locatrice non avesse eseguito opere necessarie nell’immobile, che subiva infiltrazioni d’acqua e aveva una canna fumaria insufficiente. La conduttrice chiedeva pure la condanna di controparte al risarcimento dei conseguenti danni, derivati da esborsi per riparazioni, da lesione all’immagine commerciale e periodi di chiusura forzata, per un importo complessivo di Euro 419.000, dal quale avrebbero dovuto detrarsi i canoni effettivamente dovuti.

Il Tribunale con ordinanza del 9 giugno 2004 disponeva il rilascio dell’immobile e, svolto il giudizio di piena cognizione, con sentenza del 13 novembre 2007 dichiarava risolto il contratto per inadempimento della parte conduttrice, della quale respingeva la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni.

1.2 D. e G. Ristorazione s.n.c., inoltre, al decreto ingiuntivo notificatole dalla locatrice per i canoni non pagati si era opposta con ricorso del 16 dicembre 2004, adducendo che il locale aveva carenze strutturali, per accertare le quali aveva ottenuto un accertamento tecnico preventivo; a seguito di questo le parti avrebbero raggiunto un accordo nel senso della sospensione del pagamento dei canoni in attesa che la locatrice provvedesse alle opere necessarie. L’opponente chiedeva, oltre alla revoca del decreto ingiuntivo, a titolo di domande riconvenzionali la dichiarazione di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della locatrice e la sua condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e di immagine.

L’opposta si costituiva, resistendo. Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 28 maggio 2006, rigettava l’opposizione al decreto ingiuntivo e ogni domanda riconvenzionale.

1.3 Avendo D. e G. Ristorazione s.n.c in liquidazione proposto appello contro ciascuna delle due sentenze davanti alla Corte d’appello di Palermo, ed essendosi controparte costituita in entrambi i giudizi resistendo, la Corte d’appello riuniva le cause e, con sentenza del 6 dicembre 2011-10 gennaio 2012, respingeva entrambi gli appelli.

2.1 Ha presentato ricorso D. e G. Ristorazione s.n.c in liquidazione, sulla base di cinque motivi.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3, artt. 421 e 437 c.p.c. in riferimento a S.U. 8202/2005, nonchè omessa e insufficiente motivazione al riguardo ex art. 360 c.p.c., c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non avere il giudice d’appello disposta la c.t.u. contabile che era stata chiesta dalla ricorrente e per non avere ammesso la produzione in secondo grado di determinati documenti, reputandoli non indispensabili.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 421 e 437 c.p.c. nonchè omessa e/o insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso ex art. 360 c.p.c., comma 1 1, nn. 3 e 5, per non avere il giudice d’appello ammesso le prove testimoniali richieste fin dal primo grado dall’appellante per dimostrare i danni subiti.

Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1455 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1575, 1576, 1577, 1578, 1581 e 1584 c.c. nonchè omessa e insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non avere il giudice d’appello, benchè avesse riconosciuto gli esiti dell’ATP, dichiarato la responsabilità del locatore sia per grave inadempimento contrattuale sia per i danni commerciali e all’immagine patiti dalla conduttrice, e per non avere respinto la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. per grave inadempimento della conduttrice stessa.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455 e 1460 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1575, 1576, 1577 c.c., art. 1578 c.c., comma 1, e art. 1584 c.c., nonchè omessa e insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per non avere il giudice d’appello valutato l’inadempimento del locatore e le sue conseguenze anche ai fini dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum.

Il quinto motivo, infine, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1578, 1581 e 1584 c.c. in combinato disposto con gli artt. 1575, 1576 e 1577 c.c., nonchè omessa e insufficiente motivazione su fatto decisivo e controverso, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere erroneamente il giudice d’appello ritenuto nuova questione quella che sarebbe stata una mera specificazione delle domande precedenti, cioè la domanda di riduzione del canone dovuto dal conduttore ex art. 1584 c.c. 2.2 Si è difesa la Pia Opera Santa Lucia con controricorso, nel quale chiede che il ricorso sia ritenuto inammissibile o comunque rigettato e presenta altresì ricorso incidentale condizionato, in cui chiede, nel caso in cui siano accolti anche parzialmente i motivi del ricorso principale, la correzione ex art. 384 c.p.c. della motivazione della sentenza impugnata laddove qualifica mera asserzione dell’appellata il fatto che i vizi dell’immobile fossero già esistenti al momento della stipulazione del contratto locatizio e che la conduttrice ne fosse a conoscenza.

Adduce la Pia Opera che il contratto di locazione era stato prodotto in allegato all’intimazione di sfratto, fascicolo “presumibilmente disperso” dalla cancelleria del giudice d’appello e che dichiara di ricostruire in parte con fotocopie in suo possesso e in parte con il fascicolo di primo grado dell’opposizione al decreto ingiuntivo. E in tale contratto, all’art. 3, si sarebbe stabilito che gli immobili venivano concessi in locazione nello stato di fatto ben noto ai contraenti, esonerando poi, all’art. 8, la locatrice da ogni responsabilità derivante dai vizi della cosa locata. Sulla base di tali artt. si dovrebbe quindi correggere la sentenza impugnata.

La ricorrente principale si è difesa dal ricorso incidentale con controricorso, che lo definisce inammissibile o comunque infondato, chiedendone in conclusione il rigetto.

La Pia Opera Santa Lucia ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., ribadendo la propria posizione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso principale è infondato.

3.1.1 Il primo motivo lamenta, come violazione di legge e come vizio motivazionale, che il giudice d’appello non ha disposto la c.t.u. contabile – la quale nell’atto d’appello sarebbe stata chiesta per quantificare i danni patrimoniali, commerciali e di immagine derivanti dalle condizioni dell’immobile – e altresì non ha ritenuto ammissibile per indispensabilità la produzione in secondo grado del computo metrico delle opere eseguite dall’appellante nell’immobile locato, delle relative fatture, delle fatture attinenti ai beni ammortizzabili, del libro matricola, delle retribuzioni del personale per il periodo da agosto a dicembre 1999 e le relative quote di tredicesima e quattordicesima, nonchè i registri dei corrispettivi per gli esercizi dal 1997 al 2003.

Valutando l’ammissibilità o meno dei documenti, il giudice d’appello ha richiamato il combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, e art. 437 c.p.c., per osservare che nel rito del lavoro l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado dei documenti di cui la parte intende avvalersi e il loro omesso deposito contestualmente a tale atto generano decadenza del diritto alla produzione – salvo che la produzione non sia giustificata dall’epoca della formazione dei documenti o dall’evolversi della vicenda processuale per riconvenzionale del convenuto o intervento o chiamata in causa di terzo – creandosi una preclusione che permane in grado d’appello, con “l’unica eccezione” che “è costituita dalla indispensabilità dei documenti ai fini della decisione” (motivazione, pagina 6). E a proposito della indispensabilità il giudice d’appello invoca S.U. 20 aprile 2005 n. 8202, pronuncia che in effetti insegna che, nel rito del lavoro, per il combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, (per cui il convenuto, pena decadenza, deve indicare i mezzi di prova di cui intende avvalersi, e in particolare i documenti che deve contestualmente depositare – adempiendo un onere probatorio che grava pure sull’attore per il principio di reciprocità affermato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 13/1977 -) e art. 437 c.p.c., comma 2, (che vieta l’ammissione in appello di nuovi mezzi di prova, inclusi i documenti), l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e il loro omesso contestuale deposito determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, a meno che, appunto, la produzione posteriore non trovi giustificazione nell’epoca di formazione del documento o nell’evoluzione della vicenda processuale successiva al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della estinzione del diritto di produrre i documenti lo rende insuscettibile di reviviscenza in grado di appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni, rileva il giudice nomofilattico, trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della “verità materiale, cui mira il rito del lavoro per garantire una tutela differenziata secondo la natura dei diritti fatti valere – nei poteri d’ufficio del giudice sull’ammissione di nuovi mezzi di prova, ex art. 437 c.p.c., comma 2, ove detti mezzi siano indispensabili ai fini della decisione della causa: poteri, peraltro, da esercitare sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito dello svilupparsi del contraddittorio. Questo insegnamento delle Sezioni Unite è stato pienamente seguito dalla successiva giurisprudenza delle sezioni semplici (Cass. sez. lav. 7 giugno 2005 n. 11786, Cass. sez. lav. 12 aprile 2006 n. 8551, Cass. sez. lav. 12 maggio 2006 n. 11039, Cass sez. lav. 22 maggio 2006 n. 11922, Cass. sez. lav. 21 giugno 2006 n. 14331, Cass. sez. lav. 11 aprile 2007 n. 8704, Cass. sez. lav. 21 giugno 2007 n. 14486, Cass. sez. lav. 25 giugno 2007 n. 14696, Cass. sez. lav. 19 ottobre 2007 n. 21967, Cass. sez. lav. 2 febbraio 2009 n. 2577, Cass. sez. lav. 26 maggio 2010 n. 12847, Cass sez. lav. 28 agosto 2013 n. 19810, Cass. sez. lav. 18 maggio 2015 n. 10102, Cass. sez. lav. 15 luglio 2015 n. 14820), anche a proposito di quella species del rito del lavoro che è costituita dal rito locatizio (Cass sez. 3, 30 aprile 2005 n. 9021, Cass. sez. 3, 25 novembre 2005 n. 24900, Cass. sez. 3, 14 marzo 2006 n. 5465, Cass. sez. 3, 26 giugno 2007 n. 14766, Cass. sez. 3, 5 luglio 2007 n. 15228, Cass. sez. 3, 10 luglio 2008 n. 18884).

Conclude quindi il giudice d’appello che nel caso in esame “trattasi di documenti tutti di data anteriore” all’atto introduttivo del giudizio di primo grado, i quali non sono peraltro indispensabili “in quanto deve escludersi che essi siano risolutivi per la decisione del gravame”.

3.1.2 Secondo la ricorrente, allora, sarebbe stato violato il principio affermato dall’arresto sopra richiamato delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte, per cui i documenti sono ammissibili d’ufficio (in primo grado ex art. 421 c.p.c., comma 2, e in appello ex art. 437 c.p.c.) se riguardano fatti allegati o emersi a seguito dello sviluppo della dialettica processuale, in secondo grado qualora comunque il giudice li reputi indispensabili. Tale violazione consisterebbe, in sostanza, proprio nel non avere il giudice d’appello ritenuto indispensabili i documenti sulla base di una motivazione “quanto meno criptica, se non pleonastica e di mero stile”, dal momento che non sarebbe stato spiegato il contrasto “con quanto già statuito sul punto dal Tribunale” (ricorso, pagina 7). Come aveva evidenziato nell’atto d’appello la ricorrente, il Tribunale, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva disatteso l’istanza di disposizione di una c.t.u. contabile per quantificare i danni, ritenendo insufficiente una relazione tecnica di parte – pur non contestata dall’opposta – in quanto necessarie le scritture contabili. Inoltre, nell’atto d’appello si evidenziava pure che, ex art. 421 c.p.c., comma 1, il Tribunale avrebbe dovuto richiedere (benchè solo in caso di specifica contestazione dei dati contabili indicati nella relazione di parte) l’integrazione con il deposito dei documenti contabili, che venivano pertanto prodotti in appello. Nella sentenza di primo grado relativa all’opposizione a decreto ingiuntivo il giudice di merito affermava infatti che l’opponente si limitava “a produrre due relazioni a firma di un ragioniere”, prive di valore, mentre avrebbe dovuto “compiutamente dimostrare, attraverso le scritture contabili ed altra documentazione (fatture), l’entità del guadagno conseguito, onde consentire di stabilire, attraverso perizia contabile,… l’entità dello stesso”. Quindi la motivazione con cui il giudice d’appello ha rigettato l’ammissione dei documenti e la disposizione di c.t.u. sarebbe stata formulata in violazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3, artt. 421 e 437 c.p.c., e comunque sarebbe qualificabile motivazione insufficiente e/o contraddittoria.

3.1.3 Il motivo non presenta in effetti alcun fondamento.

Non è configurabile, anzitutto, alcuna contraddittorietà motivazionale nel senso di contrasto con quanto affermato dal primo giudice (come evidenzia anche la controricorrente), poichè il giudice d’appello può ben motivare le proprie decisioni sulla base di considerazioni diverse da quelle svolte dal giudice di prime cure, che non assurgono a una valenza stabile rispetto alla quale una diversa valutazione possa collocarsi, appunto, su un piano di contraddittorietà, concetto quest’ultimo che nulla ha a che fare, d’altronde, con il potere di riforma che è attribuito dal sistema al giudice d’appello. La motivazione del giudice di primo grado non può, dunque, inferire sul contenuto della motivazione di secondo grado come elemento di irrazionale contrasto: il primo giudice non può condizionare il secondo per quanto concerne l’adempimento dell’obbligo motivazionale, adempimento che deve essere effettuato sulla base dei generali principi di chiarezza, logica ed esaustività sottesi all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e nel caso di specie altresì evincibili, a contrario, dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo ratione temporis applicabile. Il riferimento, poi, rinvenibile nella sentenza impugnata, al rigetto in primo grado della c.t.u. contabile (il giudice d’appello a pagina 7 dichiara che la relativa istanza è stata “correttamente rigettata” dal primo giudice), si osserva oramai ad abundantiam, non è peraltro improntato a un contrasto con la valutazione del Tribunale, considerato che all’epoca in cui avvenne tale rigetto non era stata prodotta alcuna documentazione contabile.

Non mostra consistenza il motivo in esame neppure per quanto concerne il riferimento alle norme processuali che sarebbero state violate dal giudice d’appello.

Anzitutto, non è pertinente all’attività del giudice di secondo grado l’art. 421 c.p.c., che concerne un potere discrezionale del giudice di primo grado (e su tale discrezionalità v. p.es. Cass. sez lav 15 luglio 2015 n. 14820, cit., Cass. sez. lav. 25 ottobre 2013 n. 24188, Cass. 6-lav. ord. 16 novembre 2010 n. 23120 e Cass. sez. lav. 27 agosto 2004 n. 17076). Nè è configurabile, nel caso di specie, da parte del giudice d’appello una violazione dell’art. 421 c.p.c., nel senso di mancata considerazione, nonostante un attinente motivo del gravame, di un’erronea applicazione della norma da parte del primo giudice. Ciò potrebbe in astratto concernere esclusivamente la disposizione della c.t.u., poichè è indiscusso che i documenti siano stati prodotti per la prima volta soltanto in secondo grado; peraltro, il ricorrente avrebbe dovuto in tal caso denunciare omessa pronuncia in ordine a un motivo d’appello. E tantomeno non è, poi, ravvisabile alcuna pertinenza del contenuto della sentenza impugnata con l’art. 416 c.p.c., che riguarda la costituzione del convenuto in primo grado.

3.1.4 Quel che in realtà il ricorrente lamenta mediante la censura in esame è che proprio il giudice d’appello non ha accolto la sua istanza di disposizione di c.t.u. presentata nuovamente nell’atto d’appello. Viene allora in pertinenza solo l’art. 437 c.p.c., perchè è questo che regola il potere ufficioso del giudice d’appello, sempre con la barriera della indispensabilità. E poichè la c.t.u. viene richiesta come mezzo di prova per provare i danni che avrebbe subito dal ricorrente (che cita infatti Cass. sez. lav. 21 aprile 2005 n. 8297, per cui la c.t.u. “può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva anche in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di determinate condizioni tecniche”; tale pronuncia invero si inserisce nell’uniforme orientamento della giurisprudenza di legittimità, per cui un accertamento tecnico non è soltanto un mezzo di valutazione di prove già acquisite, vale a dire uno strumento per dedurne una interpretazione tecnica, ma, se al consulente è dato l’incarico di accertare direttamente fatti la cui verifica esige competenze tecniche, assume il valore di vera e propria prova, in tal senso essendosi formata la distinzione tra C.T.U. deducente e C.T.U. percipiente: v. ex multis S.U. 4 novembre 1996 n. 9522, Cass. sez.3, 23 febbraio 2006 n. 3990, Cass. sez. 3, 13 marzo 2009 n. 6155, Cass. sez.5, 11 maggio 2012 n. 7364, Cass. sez.3, 26 febbraio 2013 n. 4792, Cass sez 1, 10 settembre 2013 n. 20695, Cass sez 1, 27 dicembre 2013 n. 28669 e Cass. sez.1, 29 gennaio 2014 n. 1904), la motivazione del giudice d’appello deve, in ultima analisi, rapportarsi al profilo della corretta finalizzazione della consulenza tecnica richiesta.

Il giudice d’appello, allora (a pagine 7-8 della motivazione), afferma che il giudice di primo grado ha correttamente rigettato la istanza di c.t.u. contabile (e sopra si è già rilevato che in primo grado non furono prodotte le documentazioni contabili) aggiungendo che infatti “la c.t.u. non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire la prova”, per cui “va legittimamente respinta, qualora la parte tenta con essa a supplire alla negligenza delle proprie allegazioni o offerta di prove, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi fatti e circostanze non provati”. Evidentemente, il giudice d’appello non solo ritiene indispensabile la c.t.u. (e d’altronde questa parte della motivazione deve correlarsi con la parte precedente in cui non era stata ammessa la produzione documentale), ma addirittura la intende richiesta al di là di quello che è il suo corretto scopo, ovvero per una finalità esplorativa e/o sostitutiva dell’adempimento dell’onere probatorio. Non si ravvisa, in tale ragionamento, nè alcuna violazione di legge nè vizio motivazionale.

Quanto poi alla produzione della documentazione contabile, la corte territoriale non l’ammette perchè – emerge qui il rispetto del criterio della indispensabilità, per cui non è sostenibile il contrasto addotto dalla ricorrente con la giurisprudenza, sopra riportata, delle Sezioni Unite (e delle susseguenti sezioni semplici) relativa ai limiti del potere istruttorio ufficioso – giudica trattarsi nel caso di specie di documenti non risolutivi per la decisione. La motivazione della corte è indubbiamente sintetica, ma non può non essere adeguatamente contestualizzata con il complessivo apparato motivativo offerto dalla sentenza; e d’altronde la natura dei documenti di per sè, evidentemente, non è affatto decisiva per dimostrare che i danni di cui la ricorrente prospetta la responsabilità di controparte (la stessa ricorrente, a pagina 10 del ricorso, specifica che si tratterebbe di prova “dei danni patrimoniali e commerciali” da essa subiti) sono effettivamente attribuibili a questa, non riguardando, appunto, la attribuibilità dei danni, bensì soltanto l’esecuzione di opere da parte della conduttrice e la contemporanea chiusura dell’esercizio, nonchè il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti.

Il motivo è dunque infondato sotto ogni profilo.

3.2 Il secondo motivo, anch’esso denunciato come violazione di legge e vizio motivazionale, lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale.

Osserva la ricorrente che nell’atto d’appello relativo alla causa di opposizione a decreto ingiuntivo era stata chiesta nuovamente l’ammissione della prova testimoniale non ammessa in primo grado (tranne il secondo capitolo), e la corte territoriale aveva respinto tale richiesta con motivazione inadeguata: in particolare, il primo capitolo sarebbe stato valutato generico, il terzo sarebbe stato reputato attinente a circostanza per cui sarebbe stata necessaria una prova non testimoniale, e gli ultimi capitoli – quarto, quinto e sesto – sarebbero stati giudicati “inconducenti” (motivazione della sentenza impugnata, pagina 8).

Infondata, inoltre, sarebbe l’affermazione del giudice d’appello nel senso che tardivamente la attuale ricorrente avrebbe contestato il diniego dell’ammissione della prova testimoniale, dato che all’udienza del 28 giugno 2006 davanti al Tribunale essa avrebbe invece precisato le conclusioni di merito e istruttorie “come in atti”, riproponendo quindi anche l’istanza di ammissione della prova testimoniale.

Il giudice d’appello, invero, ha motivato in modo sufficiente il suo rigetto dell’istanza di ammissione della prova testimoniale (v. appunto a pagina 8 della motivazione), creando criticità solo in relazione al terzo capitolo, che dichiara inammissibile “perchè la circostanza non può essere provata a mezzo testi”: questo asserto non è comprensibile nè tantomeno sostenibile, trattandosi di un capitolo relativo all’esecuzione di opere di manutenzione e ristrutturazione dell’immobile da parte del conduttore “più volte tra il 1997 e il 2004. Il capitolo avrebbe dovuto semmai essere qualificato generico, sia per il tipo di opere concretamente eseguite cui si riferisce senza sufficientemente identificarle, sia per la loro tutt’altro che precisa collocazione cronologica. E realmente non dirime la questione la rinuncia in primo grado all’istanza di prova testimoniale addotta dal giudice d’appello, poichè al riguardo sussiste una confutazione specifica e fondata della ricorrente: la precisazione delle conclusioni in primo grado aveva incluso la reiterazione dell’istanza istruttoria, escludendo così ogni sua rinuncia (ricorso, pagina 13).

Quel che incide, a ben guardare, a proposito del terzo capitolo è il fatto che, anche qualora la sentenza fosse cassata per l’errore che lo concerne e il giudice di rinvio ammettesse la prova testimoniale in ordine a esso, ciò non sarebbe affatto decisivo, visto proprio il contenuto del tutto generico del capitolo stesso, per cui il motivo non risulta in parte qua sorretto dall’interesse processualmente necessario, con conseguente inammissibilità della doglianza. Il disattendimento dell’istanza di prova testimoniale per la ragione addotta costituisce invero un errore di rito (qualificazione di inammissibilità della prova testimoniale), e consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Suprema Corte è nel senso che l’impugnazione per vizi di rito (al di fuori, in appello, dei tassativi casi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., i quali, comportando la regressione al primo grado, investono di per sè anche il merito della decisione) è sorretta da interesse processuale, ovvero è ammissibile e rispondente al modello legale di impugnazione, solo se viene congiuntamente fatta valere una lesione concreta che sotto il profilo di merito l’error in procedendo ha cagionato all’impugnante: il che nel caso di specie non sussiste, non potendo la prova testimoniale sul capitolo terzo, anche in caso di esito positivo, condurre all’accoglimento delle domande dell’attuale ricorrente (cfr. p. es., da ultimo, Cass. sez. 3, 3 dicembre 2015 n. 24612, Cass sez 1, 21 settembre 2015 n. 18578, Cass sez lav. 11 febbraio 2015 n. 2682, Cass. sez. 3, 12 dicembre 2014 n. 26157; Cass. sez. lav., 23 giugno 2014 n. 14167; e cfr. pure, ex multis, Cass. sez. 3, 29 gennaio 2010 n. 2053, S.U. 14 dicembre 1998 n. 12541 e S.U. 19 maggio 2008 n. 12644).

Per quanto riguarda invece gli altri capitoli il motivo è da ritenersi infondato.

3.3 il terzo motivo e il quarto motivo condividono una analoga natura, in quanto – come dimostra anche l’ampia loro illustrazione fattuale pur rubricati, come i precedenti, quali motivi denuncianti violazione di legge (qui sostanziale) e vizio motivazionale, sono diretti a perseguire un terzo grado di merito, chiedendo la ricorrente al giudice di legittimità di non condividere l’accertamento del giudice d’appello in ordine all’inadempimento ai suoi obblighi da parte della locatrice e alla incidenza di questo sull’obbligo di pagamento del canone da parte della conduttrice, nonchè in ordine alle conseguenze dell’inadempimento della locatrice a effetto pregiudizievole – cioè arrecante danni commerciali e di immagine – sulla conduttrice.

Invero, nel terzo motivo la ricorrente lamenta che la corte territoriale riconosce che l’ATP ha descritto cause ed effetti delle infiltrazioni d’acqua nell’immobile e ha attestato l’insufficienza della canna fumaria, riconoscimento da cui però non trae le conseguenze che ad avviso della ricorrente ne sarebbero derivate. Vale a dire, il giudice d’appello erroneamente non dichiara la responsabilità della locatrice per grave inadempimento contrattuale e per i danni commerciali e di immagine subiti da controparte, e non respinge la domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. per inadempimento della conduttrice.

E ancora, nel quarto motivo, la ricorrente censura la corte territoriale per essersi fondata solo sull’inadempimento della conduttrice nel pagamento dei canoni senza valutare l’incidenza causale determinante dell’inadempimento della locatrice, cosi violando il principio inadimplenti non est adimplendum. In particolare la corte non avrebbe valutato tre circostanze indicate dall’appellante (l’esistenza di un accordo per sospendere i canoni fino all’esecuzione delle opere di risanamento da parte della locatrice, con conseguente conguaglio dare-avere; la valutazione sull’esistenza di buona fede o meno nel comportamento della locatrice; la valutazione se il grave inadempimento della locatrice abbia avuto diretta incidenza causale sulla incapacità di pagare regolarmente il canone della conduttrice), le quali, significativamente, questa doglianza sostiene che il giudice avrebbe dovuto considerare “in fatto e in diritto”, così a ben guardare esternando la richiesta ora avanzata al giudice di legittimità di operare come giudice di merito (a prescindere dal fatto che le tre circostanze suddette sono indubbiamente di natura del tutto fattuale). E il giudice d’appello avrebbe omesso pure la valutazione comparativa degli inadempimenti delle parti, ribadendo la ricorrente che non avrebbe tenuto conto del grave inadempimento della locatrice in relazione agli obblighi già accertati in ATP. Entrambi i motivi, dunque, sono palesemente inammissibili in quanto non rispettanti i limiti della giurisdizione di legittimità.

3.4 il quinto motivo, sempre rubricato come violazione di legge e vizio motivazionale, lamenta che in entrambi i ricorsi d’appello l’attuale ricorrente aveva chiesto alla corte territoriale che, una volta accertato l’inadempimento della locatrice, applicando la normativa codicistica invocata nella rubrica, riducesse il corrispettivo dovuto dalla conduttrice ex art. 1584 c.c. per la chiusura del locale tra il 27 luglio e il 20 dicembre 1999, periodo in cui sarebbero stati eseguiti interventi di riparazione ex artt. 1575, 1576 e 1577 c.c., e che altresì riducesse il canone per i periodi anteriore e successivo al suddetto periodo di chiusura, determinando poi il risarcimento del danno derivante da vizi dell’immobile ex artt. 1578 e 1581 c.c. nonchè del danno derivante dalla chiusura del locale ex artt. 1453, 1578 e 1581 c.c. Avrebbe errato il giudice d’appello ritenendo che si trattasse di una domanda nuova proposta per la prima volta nel secondo grado, in quanto sarebbe stata soltanto una specificazione di quanto già chiesto dall’attuale ricorrente nella opposizione alla convalida dello sfratto e nell’opposizione al decreto ingiuntivo. Pertanto la ricorrente afferma che la domanda va esaminata nel merito, e la illustra approfonditamente anche sul piano fattuale.

Il giudice d’appello (motivazione, pagina 10) osserva che davanti al Tribunale l’attuale ricorrente “aveva sostenuto la legittimità della sospensione integrale del pagamento del canone: di conseguenza, la censura con cui sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto stabilire la riduzione del canone ed operare la compensazione fra le somme dovute alla locatrice a titolo di canone ridotto ed il credito risarcitorio vantato dalla conduttrice implica motivo nuovo inammissibile”.

In effetti, come già sopra si è evidenziato, sia nel giudizio di opposizione alla convalida dello sfratto, sia nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo del pagamento dei canoni, l’attuale ricorrente aveva fatto valere l’esistenza – ritenuta poi non dimostrata dai giudici di merito – di un accordo tra le parti del contratto locatizio giustificativo della sospensione totale del pagamento dei canoni. E, d’altronde, lo stesso motivo in esame offre una trascrizione degli atti (ricorso, pagina 29) in cui sarebbe già stata presentata la domanda che non è compatibile con la sua asserita natura di mera specificazione.

Per quanto riguarda, infatti, il giudizio di opposizione alla convalida dello sfratto richiama la motivazione della sentenza di primo grado, che dà atto che l’attuale ricorrente chiedeva la condanna di controparte a pagare “quelle somme che risulteranno dovute a titolo di risarcimento dei danni all’esito della espletanda c.t.u., detratti i canoni locativi effettivamente dovuti in favore della Pia Opera”: il che non è affatto, ictu oculi, una domanda di riduzione dell’entità del corrispettivo contrattuale. E a proposito del giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, la ricorrente richiama ancora la motivazione della sentenza di primo grado, laddove dà atto che dalla conduttrice era stato chiesto “un risarcimento monetario per il mancato guadagno subito in relazione alla forzata chiusura dei locali in un certo lasso temporale, ovvero per la ridotta attività posta in essere, limitata alla sola attività di bar, che le avrebbe quindi apportato un minore introito essendo venuta meno l’alta fonte di reddito data dalla ristorazione”: anche in questo caso, si tratta di domanda risarcitoria, non di domanda di riduzione del canone locatizio.

Anche questo motivo, dunque, risulta infondato.

In conclusione, il ricorso principale deve essere rigettato, con conseguente assorbimento del ricorso incidentale essendo questo condizionato, e altresì con conseguente condanna del ricorrente principale alla rifusione a controparte delle spese del grado, liquidate come in dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, e condanna il ricorrente principale a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 7000, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2016

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