Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16028 del 26/06/2013


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 16028 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA

della legge n. 89
del 2001

sul ricorso proposto da:
GAROFALO ALFONSO (C.F.: GRF LNS 34L12 A717U), rappresentato e difeso, in
forza di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Alfonso Landi ed elettivamente
domiciliato presso lo studio dell’Avv. Elisabetta Buldo (do studio Ruo), in Roma,
piazza Attilio Friggeri, n. 13; – ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato
e difeso “ex lege” dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi
Uffici, in Roma, alla v. dei Portoghesi, n. 12; – resistente avverso il decreto della Corte d’appello di Napoli relativo al proc. V.G. n.706/2011 del
28 settembre 2011, depositato in data 11 novembre 2011 (non notificato).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24 maggio 2013

dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
503

)-

IF5

Data pubblicazione: 26/06/2013

udito l’Avv. Alfonso Landi per il ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Lucio Capasso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Ritenuto in fatto

in data 8 aprile 2011, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della legge 24
marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un procedimento esecutivo
instaurato dinanzi al Tribunale di Salerno nel 1983 in danno di Lamberti Biagio, nel
quale egli era intervenuto per la partecipazione alla distribuzione della somma
ricavata e che risultava ancora pendente.
Nella costituzione del resistente Ministero della Giustizia, l’adita Corte di appello, con
decreto depositato 1’11 novembre 2011, rigettava il formulato ricorso sul presupposto
che l’intervento era stata formalizzato solo in data 13 ottobre 1993 e che, con
successiva istanza del 26 novembre 2002, il Garofalo aveva rinunciato alla sua
pretesa creditoria, onde allo stesso non poteva riconoscersi alcun indennizzo per il
titolo dedotto in giudizio, non avendo subito alcun paterna d’animo o disagio per
effetto della protrazione della procedura esecutiva. Il Garofalo, con il medesimo
decreto, veniva condannato anche alla rifusione delle spese giudiziali.
Avverso il menzionato decreto (non notificato) ha tempestivamente proposto ricorso
per cassazione il Garofalo Alfonso, con atto ritualmente notificato, sulla base di tre
motivi. Il Ministero della Giustizia ha depositato una mera memoria di costituzione ai
fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione. Il difensore del ricorrente
ha anche depositato memoria illustrativa ai sensi del’art. 378 c.p.c. .

Considerato in diritto

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Il sig. Garofalo Alfonso chiedeva alla Corte d’appello di Napoli, con ricorso depositato

1. – Con il primo motivo dedotto il ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360, n. 3,
c.p.c.) la violazione e falsa applicazione della legge n. 89 del 2001, con riferimento
agli artt. 2, commi 2 e 3, nonché dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti
dell’uomo, congiuntamente al vizio di omessa, erronea e contraddittoria motivazione

2.- Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato il decreto impugnato per
violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della citata legge n. 89 del 2001, nonché
dell’art. 6 della C.ED.U., oltre che dei parametri adottati dalla Corte Europea in
materia di indennizzo del danno non patrimoniale. Con la stessa doglianza il
ricorrente ha dedotto il vizio di insufficiente ed illogica motivazione (in relazione
all’art. 360 n. 5 c.p.c.), nonché la violazione degli artt. 1,6 e 13 della stessa C.E.D.U.
in ordine tanto al computo della durata ragionevole della vicenda giudiziaria
presupposta che alla misura del danno che avrebbe dovuto attribuirgli la Corte di
merito.
3. — Con il terzo motivo il ricorrente ha prospettato la violazione e falsa applicazione
degli artt. 90 e segg., 82, 83, 112 e 132 c.p.c. con riguardo all’avvenuta condanna
alla spese (in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.).
4. Rileva il collegio che i prime due motivi — esaminabili congiuntamente siccome
strettamente connessi — sono fondati e devono essere accolti per le ragioni che
seguono.
Con le richiamate censure il ricorrente ha dedotto sia le denunciate violazioni di
legge con riferimento al mancato riconoscimento dell’equo indennizzo per la
irragionevole durata della procedura esecutiva nella quale esso Garofalo era
legittimamente intervenuto (al fine dell’eventuale partecipazione alla distribuzione
della somma ricavata dalla vendita dei beni pignorati) sia l’illogicità e l’inadeguatezza

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su un punto decisivo della controversia (ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.).

del percorso motivazionale seguito dalla Corte partenopea nel rilevare che — pur
ritenendosi incidentalmente che lo stesso istante era intervenuto nell’ottobre 1993
(circostanza, peraltro, contestata, risultando l’intervento — secondo la prospettazione
del medesimo Garofalo — risalente all’ottobre 1983, per come documentalmente

esso ricorrente non aveva subito alcun patema d’animo tale da giustificare la
liquidazione di un danno non patrimoniale in suo favore, ai sensi dell’art. 2 della
legge n. 89 del 2001.
Opinando in tal senso la Corte territoriale ha disatteso l’univoco e condivisibile
orientamento della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, ad avviso del quale il
diritto all’equa riparazione, riconosciuto dall’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n.
89 per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo, è configurabile
anche in relazione ai procedimenti di esecuzione forzata (cfr., tra le tante, Cass.
n. 15611 del 2002; Cass. n. 5265 del 2003 e, da ultimo, Cass. n. 6459 del 2012). A
tal proposito si è, infatti, puntualizzato che nel processo di esecuzione il diritto del
cittadino al giusto processo (come delineato dalla nuova formulazione dell’art.111
Cost.) deve essere soddisfatto attraverso il contraddittorio tra le parti in ogni fase
processuale in cui si discuta e si debba decidere circa diritti sostanziali o posizioni
comunque giuridicamente protette, tenendo conto del correlato e concreto interesse
delle parti stesse ad agire, a contraddire o ad opporsi per realizzare in pieno il
proprio diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.; pertanto, anche il debitore esecutato,
in quanto parte, è legittimato a richiedere l’indennizzo ex art.2 legge 24 marzo 2001
n.89 per l’irragionevole protrarsi del processo esecutivo. A maggior ragione, quindi,
sono legittimati ad invocarlo sia il creditore procedente che i creditori
intervenuti, categoria — quest’ultima — nella quale si inseriva la posizione del

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comprovato) e che aveva rinunciato alla procedura esecutiva nel novembre 2002 —

Garofalo nella procedura immobiliare costituente il procedimento presupposto della
domanda di equo indennizzo.
Oltretutto, è risaputo che, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del
processo, il diritto all’equa riparazione di cui al citato art. 2 della L. n. 89 del 2001

risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva
durata del processo i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle
posizioni in esso coinvolte, ad eccezione dei casi in cui il soccombente abbia
promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di
perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e
dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, nei quali casi l’esistenza
di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve essere provata
puntualmente dall’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione
che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata.
Del resto, anche il nuovo comma 2 bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001
(introdotto dall’art. 55, comma 1, lett. a) del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con
modif., nella legge 7 agosto 2012, n. 134, ancorché non applicabile “ratione
temporis” nella fattispecie) ha avallato la riportata interpretazione, riconoscendo, ora,
espressamente il diritto all’equo indennizzo anche con riferimento al procedimento di
esecuzione forzata allorquando la sua durata superi il termine ragionevole di tre anni.
Alla stregua di questi argomenti si profila evidente che i presupposti per richiedere
l’equo indennizzo sussistono anche in capo al creditore interventore nell’ambito della
procedura esecutiva, al quale deve riconoscersi il legittimo diritto a poter soddisfare
la ragione del suo credito entro una durata ragionevole del procedimento esecutivo,
senza che, a questo riguardo, possa avere una rilevanza ostativa la circostanza che

spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano

lo stesso creditore, a distanza di un apprezzabile periodo dal suo intervento, avesse
deciso di rinunciare alla sua pretesa esecutiva, come, invece, ritenuto erroneamente
dalla Corte napoletana nel caso di specie. Infatti, al di là della necessaria verifica
della ritualità e della conseguente produzione dei suoi effetti della sopravvenuta

procedimento esecutivo — con riferimento al relativo intervallo temporale da
considerare irragionevole (previo esatto accertamento del momento in cui l’intervento
stesso era stato inizialmente formalizzato) — egli abbia risentito di un pregiudizio
rilevante sul piano del danno non patrimoniale, ragion per cui — previa esatta
determinazione della protrazione non ragionevole di detto procedimento (snodatosi
per vari anni attraverso l’espletamento di molteplici attività dettagliatamente
evidenziate anche nel formulato ricorso) — al Garofalo avrebbe dovuto essere
riconosciuto il corrispondente equo indennizzo (sulla scorta degli esatti criteri di
computo individuati dalla giurisprudenza di questa Corte, ovvero di euro 750,00 per
ogni anno di ritardo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole e di
euro 1.000,00 per gli anni successivi).
5. Pertanto, alla luce delle complessive argomentazioni svolte, devono essere
ritenute fondate le prime due censure del ricorso (con correlato assorbimento della
terza, riguardante la questione dipendente della disciplina delle spese processuali),
cui consegue la cassazione del decreto impugnato ed il rinvio della causa alla stessa
Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che si conformerà ai principi
precedentemente enunciati e si dovrà ripronunciare sul merito della domanda di
equa riparazione, rivalutando la documentazione acquisita ai fini della
determinazione del periodo effettivo della durata irragionevole del procedimento
esecutivo in danno del Garofalo Alfonso, tenendo conto anche di tutti gli elementi

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rinunzia da parte del Garofalo, è innegabile che, per la durata pregressa del

previsti dall’art. 2, comma 2, della legge n. 89 del 2001, in modo tale da provvedere
alla liquidazione dell’indennizzo allo stesso spettante alla stregua dei parametri
poc’anzi ricordati.
Al giudice di rinvio è demandata anche la regolazione delle spese della presente fase

P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, i primi due motivi del ricorso e dichiara
assorbito il terzo; cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia,
anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Napoli, in diversa
composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 24 maggio 2013.

di legittimità del giudizio.

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