Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16020 del 21/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/07/2011, (ud. 23/06/2011, dep. 21/07/2011), n.16020

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. MAISANO Giulio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato CARRIERI MARIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RENO

21, presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che lo rappresenta

e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1765/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 27/07/2006 R.G.N. 9886/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2011 dal Consigliere Dott. GIULIO MAISANO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega CARRIERI MARIO;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 23 febbraio 2006 la Corte d’Appello di Roma ha, per quanto rileva in questa sede, dichiarato la prosecuzione giuridica del rapporto di lavoro intercorso fra la Poste Italiane s.p.a. e M.F. dopo il 27 febbraio 1999, condannando la società a risarcire il danno nella misura pari alle retribuzioni spettanti dalla messa in mora del 21 settembre 2000 sino alla scadenza del terzo anno successivo alla scadenza del contratto a termine. La Corte territoriale ha ritenuto l’illegittimità del termine apposto al contratto intercorso tra le parti al 27 febbraio 1999 dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione collettiva che autorizzava le ipotesi ulteriori di apposizione del termine ai contratti con le Poste Italiane ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23.

La società Poste Italiane propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo su tre motivi.

Resiste con controricorso il M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1362 e segg.

cod. civ., e insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla efficacia dell’accordo del 25 settembre 1997 integrativo dell’art. 8 del CCNL del 1994. In particolare si assume che detto accordo non conterrebbe alcuna limitazione temporale; che gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25 settembre 1997 e sino al 18 gennaio 2001, non avevano natura negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare ulteriori contratti a termine; che i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25 settembre 1997 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo; che la posizione giuridica azionata nel giudizio potrebbe definirsi quale diritto quesito e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche prima dell’accertamento giudiziale della sua esistenza.

Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L. n. 230 del 1962, all’art. 23 della L. n. 56 del 1987 ed agli artt. 1362 e segg. cod. civ., e contraddittoria pronuncia in ordine ad un punto decisivo della controversia. In particolare si assume che erronemante la Corte territoriale avrebbe interpretato l’art. 23 citato nel senso che conterrebbe l’autorizzazione all’autonomia collettiva di stipulare contratti a termine solo a determinate condizioni dettagliatamente provate, mentre invece conterrebbe una delega in bianco per la possibilità di stipulare tali contratti.

Con il terzo motivo si lamenta che è stato disposto il pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla data della messa in mora anzichè dell’effettiva ripresa della attività lavorativa.

I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente riguardando entrambi la possibilità di stipulare contratti di lavoro a termine dopo la data del 30 aprile 1998.1 motivi sono infondati. Osserva il Collegio che la Corte di merito ha, tra l’altro, attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’assunzione a termine, essendo avvenuta oltre la delimitazione temporale effettuata dalle parti sociali con gli accordi integrativi di quello in data 25 settembre 1997, introduttivo della nuova ipotesi di contratto a termine di cui si discute, non è da ritenere legittima per la scadenza temporale dell’accordo 25 settembre 1997 (31 gennaio 1998 prorogato al 30 aprile 1998). Tale considerazione, idonea a sostenere da sola la impugnata decisione, relativamente alla illegittimità del contratto de quo (dell’1 marzo 2000), resiste alla censura della società ricorrente (di violazione dell’art. 1362 c.c. e segg., in relazione agli accordi collettivi intercorsi), rivolta, in sostanza, alla affermazione della natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati. Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr. ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione), dopo il 30 aprile 1998, Richiamato quanto già affermato circa la confìgurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453).

Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141). In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29-7- 2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va confermata la nullità del termine apposto al contratto in esame (successivo al 30 aprile 1998).

Il terzo motivo è inammissibile per l’inidoneità del quesito di diritto proposto ex art. 366 bis. cod. proc. civ. La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ.”.

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v.

fra le altre Cass. 4 gennaio 2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile 2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15-2- 2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr., Cass. 16 maggio 2005 n. 10155, Cass. 20 giugno 2006 n. 14131, Cass. 10 agosto 2007 n. 17606, Cass. S.U. 3 febbraio 998 n. 1099).

Al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in Euro 40,00 oltre ad Euro 2.500,00 per onorario, più spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2011

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