Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16012 del 21/07/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/07/2011, (ud. 13/04/2011, dep. 21/07/2011), n.16012

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.C.;

– intimato-

e sul ricorso 10651-2007 proposto da:

G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE DON

MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato AFELTRA ROBERTO, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZEZZA LUIGI, giusta

delega in atti;

– controricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1791/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 22/02/2006 R.G.N. 922/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/04/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato ZUCCHINALI PAOLO per delega TRIFIRO’ SALVATORE E

ROBERTO PESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso, assorbito il ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 18/1 – 22/2/06 la Corte d’Appello di Milano, pronunziando sull’impugnazione proposta da G.C. avverso la sentenza dell’11/5/05 del giudice del lavoro dei Tribunale di Milano che gli aveva rigettato la domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità dei contratti di fornitura di lavoro temporaneo stipulati nel periodo 16/6/03 – 31/8/04, accolse l’appello e, in riforma della gravata sentenza, dichiarò che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 16/6/03, con condanna della società postale a riammettere in servizio l’appellante e al pagamento delle retribuzioni mensili maturate dal 9/11/04, unitamente alle spese del doppio grado di giudizio.

Nell’addivenire a tle convincimento la Corte territoriale spiegò che l’impresa utilizzatrice della prestazione lavorativa non aveva dimostrato in giudizio la correlazione fra le assenze e le assunzioni a tempo determinato o l’impiego di lavoratori con contratto temporaneo, non potendo una tale correlazione riguardare solo il rapporto tra il numero dei lavoratori assenti nel periodo considerato e il numero dei lavoratori assunti a termine o con contratto interinale, dato che era, invece, necessaria la prova dell’effettivo impiego del ricorrente da parte della società postale per le esigenze che avevano determinato il ricorso al lavoro interinale. Ne conseguiva che doveva ritenersi instaurato sin dall’inizio un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra il ricorrente e l’impresa utilizzatrice.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso le Poste Italiane s.p.a che affidano l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso il G., il quale propone, a sua volta, ricorso incidentale condizionato.

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo la ricorrente principale denunzia la violazione e falsa applicazione della L. 24 giugno 1997, n. 196, artt. 1, 3 e 10 dell’art. 25 del CCNL 11 gennaio 2001, nonchè dell’art. 3 dell’Accordo Interconfederale Confindustria del 16 aprile 1998 e dell’Accorcio sindacale del 4 dicembre 2002 in connessione con gli artt. 115 e 116 c.p.c., e con l’art. 2697 c.c..

La ricorrente sostiene che la sentenza impugnata è affetta da un “error in iudicando” nella parte in cui, una volta ammessa la possibilità di una indicazione generica delle causali del ricorso al lavoro temporaneo, ha, tuttavia, preteso di porre a carico della società utilizzatrice l’onere di dimostrare in giudizio la correlazione fra le assenze e le assunzioni a tempo determinato o l’impiego di lavoratori con contratto temporaneo, sulla scorta del rilievo che la prova, sia della sussistenza dei motivi che avevano indotto l’utilizzatrice a stipulare il contratto di fornitura, sia dell’effettivo impiego dei lavoratori in una determinata attività contemplata nell’accordo sindacale, doveva essere puntuale.

In effetti, la Corte territoriale ha precisato al riguardo che non poteva prescindersi dall’indicazione data dalla stessa società postale in ordine ai motivi del ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo, giustificato dalle previsioni dell’accordo sindacale che contemplavano la necessità di sostituzione dei lavoratori assenti per aspettativa, congedo, ferie, partecipazione a corsi di formazione ovvero per malattia e temporanea inidoneità a svolgere le mansioni assegnate; d’altra parte, ciò imponeva l’onere di dimostrare la correlazione fra le suddette assenze e le assunzioni a tempo determinato o l’impiego di lavoratori con contratto temporaneo, ragion per cui una tale prova non poteva ritenersi limitata al solo raffronto numerico tra lavoratori assenti e lavoratori assunti a termine o con contratto temporaneo, dovendo essere estesa alla verifica della effettività delle sostituzioni annunziate.

A sostegno della propria tesi, opposta a quella adottata dal giudice d’appello, la ricorrente spiega, invece, che già per effetto dell’Accordo sindacale del 4 dicembre 2002 avrebbe potuto procedere ad assunzioni a tempo determinato, anche in presenza di ulteriori causali rispetto a quelle previste dalla L. n. 196 del 1997, e che, pertanto, l’onere probatorio a suo carico si sarebbe potuto ritenere adempiuto con la semplice dimostrazione dell’effettività delle esigenze contrattualmente previste, onere, questo, che era stato assolto in via documentale, anche se la Corte territoriale aveva ritenuto, di contrario avviso, l’inidoneità di siffatta prova, pretendendo che la stessa dovesse essere riferita alla effettività della sostituzione del personale stabilmente occupato, in modo che gli assenti fossero giorno per giorno in numero pari ai lavoratori assunti a termine.

In ogni caso, la ricorrente evidenzia che aveva dedotto capitoli di prova sul punto e prodotto documenti, pur non essendovi onerata, atteso che la controparte non aveva contestato alcunchè in relazione ai motivi della sua assunzione.

Col secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1219, 1223, 1227 e 2697 cod. civ., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In sostanza si chiede di accertare se si ha diritto alle retribuzioni solo dalla data di riammissione in servizio, salvo l’espressa messa in mora del datore di lavoro, e si invoca, pertanto, il principio di corrispettività della prestazione in base al quale il lavoratore, a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato, ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. c.p.c.; si contesta, altresì, che la lettera inviata per l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione potesse ritenersi equipollente ad un atto di messa in mora del creditore.

Da parte sua il lavoratore propone ricorso incidentale condizionato diretto ad accertare se, una volta considerato che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro, la generica indicazione delle ragioni temporanee di assunzione nel contratto di prestazioni di lavoro ex Lege n. 196 del 1997 comporti o meno ricaduta nella regola generale per cui il rapporto di lavoro deve intendersi a tempo indeterminato in capo all’effettivo utilizzatore. Preliminarmente va disposta la riunione, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., del ricorso principale e di quello incidentale.

1. Osserva la Corte che il primo motivo del ricorso principale impone la disamina della disciplina del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, cosiddetto lavoro interinale, come disciplinato dalla L. n. 196 del 1997, comunemente nota come Legge Treu, disciplina applicabile nella fattispecie in esame “ratione temporis”.

Attraverso tale istituto il legislatore introduceva nell’ordinamento una ipotesi di flessibilità che si differenziava in modo netto dallo schema di lavoro subordinato delineato dall’art. 2094 c.c. e dalla L. n. 1369 del 1960. Tuttavia, è bene ricordarlo, in conformità alla “ratio legis” di protezione dei lavoratori da forme di sfruttamento conseguenti alla dissociazione tra la titolarità formale del rapporto e la sua effettiva destinazione, cioè fra l’autore dell’assunzione e l’effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui della L. n. 1369 del 1960, art. 1, non veniva eliminato dalla disciplina, di cui alla suddetta L. n. 196 del 1997, che anzi espressamente lo richiamava all’art. 10 (Cass., n. 23569 del 2007).

2. E’ nota la definizione che la L. n. 196 del 1997, art. 1, offre del suddetto contratto, individuando una fattispecie complessa alla quale partecipano tre soggetti: l’impresa fornitrice, il prestatore di lavoro temporaneo e l’impresa utilizzatrice.

Infatti, tale norma stabilisce che il contratto di fornitura di lavoro temporaneo è il contratto mediante il quale un’impresa di fornitura di lavoro temporaneo (denominata impresa fornitrice), iscritta all’albo previsto dall’art. 2, comma 1, pone uno o più lavoratori (denominati prestatori di lavoro temporaneo), da essa assunti col contratto previsto dall’art. 3 (contratto per prestazioni di lavoro temporaneo), a disposizione di un’impresa che ne utilizza la prestazione lavorativa (denominata impresa utilizzatrice), per il soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo individuate ai sensi del comma 2.

E’, altresì, acquisito, per quel che riguarda il contratto di fornitura, che l’art. 1, comma 2, lett. a), affida alla contrattazione collettiva l’individuazione dei limiti o dei contenuti che condizionano l’ambito di applicazione della legge. Così, si può ricorrere al lavoro interinale nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi (gli altri casi di cui alle lettere b) e c) riguardano, rispettivamente, le ipotesi di temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi aziendali e di sostituzione dei lavoratori assenti, fatte salve le ipotesi di cui al comma 4).

3. D’altra parte la norma di cui all’art. 3, comma 1, stabilisce che il contratto di lavoro per prestazioni di lavoro temporaneo è il contratto col quale l’impresa tornitrice assume il lavoratore a tempo determinato corrispondente alla durata della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice (ipotesi contemplata dalla lett. a); a tempo indeterminato (ipotesi contemplata dalla lettera b). Il comma 2 del citato art. 3 prevede, inoltre, che col contratto di cui al comma 1 il lavoratore temporaneo, per la durata della prestazione lavorativa presso l’impresa utilizzatrice, svolge la propria attività nell’interesse nonchè sotto la direzione ed il controllo dell’impresa medesima, mentre nell’ipotesi di contratto a tempo indeterminato rimane a disposizione dell’impresa tornitrice per i periodi in cui non svolge la prestazione lavorativa presso un’impresa utilizzatrice. Infine, l’art. 3, comma 3, prescrive che il contratto di lavoro temporaneo deve essere stipulato in forma scritta ed indica analiticamente gli elementi che devono entrare a far parte del contenuto dello stesso contratto, tra i quali prevede espressamente alla lettera a) i motivi del ricorso alla fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo.

4. Nè può sfuggire che l’art. 10, comma 1, stabilisce espressamente che continua a trovare applicazione la L. n. 1369 del 1960, sia nei confronti dell’impresa utilizzatrice che si avvalga di soggetti diversi da quelli di cui all’art. 2, oppure violi le disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5, sia nei confronti dei soggetti che forniscono prestatori di lavoro dipendente senza essere iscritti all’albo di cui all’art. 2, comma 1.

Com’è noto la L. n. 1369 del 1960, all’art. 1, nel vietare l’intermediazione e l’interposizione di manodopera, sancisce che i prestatori di lavoro, occupati in violazione dei divieti previsti, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni. La L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2, prevede, inoltre, sia l’ipotesi in cui manchi la forma scritta del contratto di fornitura, nel qual caso il lavoratore si considera assunto dall’impresa utilizzatrice con contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia quella in cui difetti la forma scritta del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo tra il lavoratore e l’impresa tornitrice, nel qual caso il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato con quest’ultima. Comunque, è interessante osservare come nessun riferimento esplicito sia effettuato dal citato art. 10 all’art. 3, comma 3, lett. a), norma, quest’ultima, considerata, invece, di raccordo dal giudice d’appello.

5. Orbene, ritiene questa Corte che deve essere data prevalenza alla L. n. 1369 del 1960 che è richiamata dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, norme alle quali ha correttamente fatto riferimento il giudice d’appello prima di addivenire alla soluzione oggi impugnata.

Tale comma, come si è accennato, prevede fa sanzione a carico dell’impresa utilizzatrice, tra l’altro, per le violazioni di cui alla citata L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a).

Quest’ultima norma stabilisce che il contratto di fornitura di lavoro temporaneo può essere concluso nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Pertanto non è sufficiente, come sostenuto dal giudice d’appello, il solo richiamo, nel contratto di prestazione di lavoro temporaneo tra impresa fornitrice e lavoratore, alle causali generali dei suddetti contratti collettivi per farne discendere la instaurazione a carico dell’impresa utilizzatrice di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in quanto, trattandosi di fattispecie complessa voluta dal legislatore per attenuare la rigidità del precedente impianto di divieto di intermediazione di mano d’opera, occorre che l’utilizzatore si faccia carico di dimostrare, sussistendo la contestazione in proposito, l’avvenuto rispetto, nello svolgimento del rapporto diretto con il prestatore di lavoro, delle causali previste dai contratti collettivi nazionali della sua categoria di appartenenza, a loro volta trasfuse nel contratto di fornitura intercorso con l’impresa fornitrice ai sensi della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a).

In tal modo, non solo si perviene ad una lettura logica e coerente, in armonia con la norma di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), della disposizione sanzionatoria di cui alla citata L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, ma si supera, altresì, la visione parcellizzata, estranea agli intenti del legislatore, dei tre rapporti in esame, vale a dire quello di fornitura tra impresa fornitrice ed impresa utilizzatrice, quello di prestazione del lavoro temporaneo tra impresa fornitrice e lavoratore e quello finale tra impresa utilizzatrice e prestatore di lavoro temporaneo, essendo preminente la esigenza di valutare l’effettiva attuazione, nel corso di esecuzione del rapporto ultimo tra prestatore di lavoro ed impresa utilizzatrice, delle causali indicate nel contratto di fornitura.

In pratica si impone una lettura unitaria dei rapporti tra i soggetti della complessa fattispecie in considerazione del collegamento che non può non sussistere tra la causale del rapporto di fornitura (quello tra l’impresa fornitrice e l’impresa utilizzatrice) ed il rapporto di lavoro temporaneo intercorso tra l’utilizzatrice ed il prestatore di lavoro, nel quale deve persistere la ragione giustificatrice che aveva indotto la prima ad avvalersi della fornitura di lavoro ex Lege n. 196 del 1997. La verifica della persistenza di tale causa giustificatrice non può che passare attraverso la prova che in concreto l’impresa utilizzatrice dovrà fornire in giudizio della sussunzione del rapporto di lavoro temporaneo nei casi previsti dalla contrattazione collettiva di cui alla citata L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a). Solo in tal modo potrà ritenersi rispettata la finalità enucleabile dal richiamo della L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, alla L. n. 1369 del 1960, vale a dire quella di evitare il ricorso a forme elusive del divieto di intermediazione di mano d’opera, come quelle che potrebbero discendere, ad esempio, dalla divaricazione tra causale del contratto di fornitura ed effettiva ragione dell’utilizzazione del lavoro temporaneo.

In definitiva, può ritenersi che si è in presenza di un collegamento negoziale che costituisce fenomeno incidente direttamente sulla causa dell’operazione contrattuale che viene posta in essere, risolvendosi in una interdipendenza funzionale dei diversi atti negoziati – il contratto di fornitura e il contratto per prestazione di lavoro temporaneo – quest’ultimo venendo dalla società tornitrice concluso allo scopo, noto all’utilizzatore, di soddisfare l’interesse di quest’ultimo ad acquisire la disponibilità di prestazioni di lavoro – rivolta a realizzare una finalità pratica unitaria. Tale collegamento, in particolare, acquisisce autonoma rilevanza giuridica, tenuto conto che le parti contrattuali, diverse, sono consapevoli del nesso teleologico tra i più atti negoziali, e lo stesso si palesa all’esterno proprio in ragione dell’obiettivo della flessibilità.

6. A ciò consegue che i motivi di cui all’art. 3, comma 3, lett. a), vale a dire quelli del ricorso alla fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, la cui indicazione è richiesta con riguardo al contenuto del contratto intercorrente tra impresa tornitrice e singolo lavoratore, hanno una valenza autonoma e concorrono ad integrare il disposto di cui all’art. 1, comma 2, lett. a) sulla possibilità che il contratto di fornitura tra l’impresa utilizzatrice e quella fornitrice sia concluso nei casi previsti dagli accordi collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, il tutto nell’ottica di una visione dei rapporti tra loro collegati. Pertanto, il contenuto del contratto di prestazione di lavoro temporaneo intercorrente tra l’impresa fornitrice ed il singolo lavoratore assume un peculiare rilievo rispetto a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, lett. a), in quanto la mancanza o la genericità dello stesso spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e fa venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale che il legislatore fa discendere dall’indicazione nel contratto di fornitura delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso (citato art. 1, comma 2, lett. a). Ne consegue, altresì, che trova applicazione il disposto di cui all’art. 10 e, dunque, quanto previsto dalla L. 1369 del 1960, art. 1, u.c., per cui il contratto di lavoro col fornitore “interposto” si considera a tutti gli effetti instaurato con l’utilizzatore “interponente”.

7. Resta da superare, a questo punto, la questione che si pone in ordine alla connotazione temporale che viene ad assumere il rapporto che si instaura con l’utilizzatore interponente.

Come si è visto, la L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2, prevede l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato nell’ipotesi specifica della mancanza di forma scritta del contratto.

Occorre, in pratica, verificare se, nei casi diversi da quello della mancanza di forma scritta del contratto, operi egualmente la sanzione della instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore interponente. La risposta a tale questione è, secondo il giudizio di questa Corte, affermativa.

Invero, diverse sono le ragioni che inducono a ritenere che la suddetta sanzione si applichi anche nell’ipotesi generale di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1.

7.1. Anzitutto, il richiamo generalizzato ed indifferenziato contenuto in tale comma alla L. n. 1369 del 1960 sul divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro non può avere altro significato, nell’intenzione del legislatore, che quello di veder applicate le conseguenze sanzionatorie di tale disciplina alle ipotesi di violazione della disposizione di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a), vale a dire la violazione alla regola, normativamente contemplata, di conclusione del contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.

Non bisogna, infatti, dimenticare che, allorquando era vigente la L. n. 1369 del 1960, la normalità era rappresentata dalla figura del contratto di lavoro a tempo indeterminato, per cui alla sostituzione soggettiva del reale datore di lavoro interponente, quale effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa oggetto dell’operazione di intermediazione o di interposizione, al fittizio datore di lavoro interposto si accompagnava l’instaurazione di un rapporto lavorativo normalmente a tempo indeterminato, non essendo, ovviamente, possibile costituire un rapporto a termine che rappresentava all’epoca l’eccezione.

7.2. Nè vale ad escludere una tale interpretazione il fatto che la sanzione della instaurazione di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato è prevista espressamente dall’art. 10, comma 2, per l’ipotesi della mancanza di forma scritta del contratto: invero, è agevole osservare che se una tale sanzione è prevista per l’ipotesi meno grave del vizio formale della mancanza della forma scritta dell’accordo, a maggior ragione essa non può non essere applicata a quella più grave, in quanto ingiustificata, della violazione sostanziale dell’inosservanza della disposizione di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. a), vale a dire della regola che il contratto di fornitura sia concluso per i casi prefigurati dalla contrattazione collettiva espressione dei sindacati comparativamente più rappresentativi.

7.3. Egualmente, non va sottaciuto l’insuperabile argomento sistematico per il quale, diversamente opinando, verrebbe ad essere facilmente aggirata la disciplina limitativa del contratto a termine:

invero, una volta costituito con l’impresa fornitrice interposta il contratto a termine, qualora si volesse sostenere che anche il rapporto che si instaura “ex lege” con l’impresa utilizzatrice interponente debba essere a termine, ad onta della accertata illegittimità dell’apposizione del termine, si perverrebbe alla inaccettabile ed assurda situazione per la quale la violazione del divieto di interposizione di mano d’opera consentirebbe all’interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa.

7.4. Va da sè che il termine apposto al contratto di lavoro temporaneo col fornitore interposto può essere salvato, nella imputazione “ex lege” del contratto all’utilizzatore interponente, solo se il negozio concluso è di per sè stesso conforme alla disciplina del lavoro a termine, avendone l’utilizzatore fornito la prova, in quanto diversamente sarebbe esclusa in radice la legittimità del ricorso al contratto di fornitura.

7.5. D’altra parte, un avallo alla ricostruzione fin qui operata discende anche dalla sentenza n. 58 del 16 febbraio 2006 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale, per irragionevolezza e contrarietà al principio di tutela del lavoro, l’intervento legislativo (L. n. 388 del 2000, art. 117, comma 1) col quale la trasformazione del contratto prevista dal secondo periodo della L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 2, (contratto per prestazioni di lavoro temporaneo di cui alla L. n. 196 del 1997, art. 3, mancante della forma scritta ovvero degli elementi di cui all’art. 3, comma 3, lett. g) era stata sancita a tempo “determinato” invece che “indeterminato”.

Pertanto, il primo motivo del ricorso principale è infondato.

8. Egualmente infondato è il secondo motivo col quale è posta la questione concernente le pretese economiche del lavoratore, oltre che la loro decorrenza, che la ricorrente ricollega in via alternativa alla riammissione in servizio di quest’ultimo o alla effettiva offerta delle prestazioni lavorative con la relativa messa in mora della datrice di lavoro, contestando che la “mora accipiendi” potesse coincidere, come ritenuto dal giudice d’appello, con la richiesta del tentativo di conciliazione.

Tuttavia, la censura non coglie nel segno laddove pretende di far decorrere il diritto alle retribuzioni, come forma risarcitoria, dalla effettiva riammissione in servizio del lavoratore o laddove ritiene che la richiesta del tentativo di conciliazione non possa equipararsi, ai fini della messa in mora della parte datoriale, all’offerta delle prestazioni lavorative.

Invero, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass. sez. lav. n. 15515 del 2/7/2009), “nel caso di più contratti per prestazioni temporanee, che siano stati ripetutamente reiterati in maniera continuativa, convertiti dal giudice in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato per violazioni delle disposizioni della L. n. 1369 del 1960, il lavoratore non ha diritto alla retribuzione dal momento della sospensione del lavoro al termine dell’ultimo contratto, ma soltanto da quando abbia provveduto a mettere nuovamente a disposizione del datore di lavoro la propria prestazione lavorativa con un atto giuridico in senso stretto di carattere recettizio o per “facta concludentia”, determinandosi, da tale momento una situazione di “mora accipiendi” del datore di lavoro, da cui deriva, ai sensi degli artt. 1206 e ss. cod. civ., il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nella misura delle retribuzioni perdute a causa dell’ingiustificato rifiuto della prestazione. (Nella specie, sulla scorta dell’enunciato principio, la S.C. ha accolto il motivo di ricorso incidentale del lavoratore, condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute dalla data della richiesta di assunzione formulata dal lavoratore in sede di tentativo di conciliazione)”.

In maniera ancora più specifica si è affermato (Cass. sez. lav. n. 23756 del 10/11/2009) che “nel caso di scadenza di un contratto di lavoro a termine illegittimamente stipulato, la disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunica al dipendente la scadenza del termine illegittimamente apposto, configura un atto meramente ricognitivo, non una fattispecie di recesso, e la prestazione lavorativa cessa in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Ne consegue l’inapplicabilità della L. n. 604 del 1966, art. 6 e L. n. 300 del 1970, art. 18, benchè la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia al dipendente il diritto al ripristino del rapporto di lavoro e, ove negato, il diritto alla tutela risarcitoria. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, acclarato che il contratto a termine di formazione e lavoro era stato stipulato da datore di lavoro diverso da quello convenuto in giudizio senza che tra i due datori fosse intervenuto trasferimento del rapporto di lavoro ad alcun titolo, aveva attribuito alla disdetta comunicata alla lavoratrice valore meramente ricognitivo dell’avvenuta scadenza del termine apposto al contratto di formazione e lavoro nell’erroneo presupposto della validità dello stesso e ne aveva tratto le conseguenze in termini di persistenza del rapporto per il periodo successivo e di diritto al risarcimento del danno pari alle retribuzioni a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro con l’offerta della prestazione lavorativa, identificata con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio)”.

L’inesistenza di un valido motivo di censura in ordine al risarcimento del danno rende estranea al presente giudizio la questione dell’applicabilità della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, cui la società ricorrente ha fatto riferimento nella memoria ex art. 378 c.p.c..

Ne consegue il rigetto del ricorso principale.

Quanto al ricorso incidentale del lavoratore si osserva che lo stesso è stato proposto solo in via condizionata, per cui rimane assorbito dal rigetto di quello principale.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale. Condanna la ricorrente alle spese del giudizio nella misura di Euro 2500,00 per onorario, Euro 32,00 per esborsi, nonchè spese generali, IVA e CPA ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2011

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