Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16010 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/06/2021, (ud. 12/01/2021, dep. 09/06/2021), n.16010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19399-2015 proposto da:

P.G., P.S., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE G. MAZZINI 11, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE

ESCALAR, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato NATALE

MANGANO;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 103/2015 della COMM. TRIB. REG. PIEMONTE,

depositata il 23/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/01/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. VISIONA’ STEFANO che ha chiesto

il rigetto del ricorso avverso la sentenza 103/38/15 R. Sent. della

CTR del Piemonte depositata il 13 gennaio 2015.

 

Fatto

RILEVATO

che:

P.G. e P.S. hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 103/38/2015, depositata il 23.01.2015 dalla Commissione tributaria regionale del Piemonte, che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate ed in riforma della decisione di primo grado, aveva rigettato il ricorso introduttivo dei contribuenti avverso gli atti di contestazione con i quali l’Ufficio aveva comminato le sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, e proceduto al recupero di imponibile.

Dalle difese processuali si evince che il contenzioso traeva origine da processi verbali di constatazione, redatti nel 2010 e nel 2011 dalla GdF, a seguito dell’acquisizione presso l’amministrazione fiscale francese, per il tramite degli strumenti previsti dalla Dir. n. 77/799/CEE del 19 dicembre 1977 e della Convenzione Italia – Francia contro le doppie imposizioni del 5 ottobre 1989, di una lista (c.d. lista Falciani) di detentori di investimenti e disponibilità finanziarie in Svizzera, presso la HSBC Private Bank di (OMISSIS) -tra i quali gli odierni ricorrenti (oltre che L.A., coniuge del P.G., estranea al presente giudizio)- che avevano effettuato movimentazioni di denaro all’estero, soggette agli obblighi di monitoraggio fiscale ai sensi del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4, convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 1990, n. 227. Le posizioni del P. presso la banca elvetica erano riconducibili al conto denominato “(OMISSIS)”.

Le Direzioni Provinciali di Torino (OMISSIS) e Torino (OMISSIS) avevano notificato a P.G. atti di contestazione per gli anni 2005, 2006 e 2007 per omessa compilazione del quadro RW delle dichiarazioni relative ai redditi 2005/2007 (nel quale inserire le indicazioni sugli investimenti o altre fonti finanziarie all’estero, atti a produrre redditi di fonte estera, nonchè le indicazioni di capitali trasferiti all’estero, o dall’estero o da estero ad estero), a tal fine applicando le sanzioni previste dal D.L. 167 del 1990, art. 5, commi 4-6 e 5-6, ratione temporis vigente. Ai fini reddituali erano state elevate contestazioni per le singole annualità ai sensi del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 12, comma 2, convertito con modificazioni nella L. 3 agosto 2009, n. 102, presumendosi la sottrazione alla tassazione in Italia dei redditi investiti in Stati a regime fiscale privilegiato. P.G. aveva chiesto di definire la propria posizione con adesione, ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 5 bis. Erano dunque seguiti gli atti di definizione contenenti la determinazione delle imposte e delle sanzioni ridotte, Sennonchè agii atti di definizione non era seguito i pagamento, bensì i ricorsi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Torino avverso gli atti di contestazione e gli atti di definizione.

Nei confronti di P.S. la Direzione Provinciale di Torino (OMISSIS) aveva invece elevato atti di contestazione per la sola violazione di adempimenti formali (omessa indicazione nella dichiarazione dei redditi degli investimenti o di altre attività finanziarie all’estero da cui possono conseguirsi redditi di fonte estera), e precisamente gli atti di contestazione per gli anni 2006 e 2007 relativi a violazioni formali commesse negli anni 2005 e 2006, (dal controricorso dell’Agenzia si evince che; intervenendo peraltro la L. 6 agosto 2013, n. 97, di modifica alle disposizioni relative al monitoraggio fiscale contenute nel D.L. 167 del 1990, con modifica del trattamento sanzionatorio, più favorevole al contribuente, l’Amministrazione finanziaria era intervenuta in autotutela, riducendo la sanzione applicata per le violazioni rilevanti nell’anno 2006 e annullando integralmente l’atto di contestazione 2007). Avverso tali atti P.S. aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Torino.

Nei ricorsi si sosteneva, tra l’altro, l’illegittimità ed erroneità degli atti di definizione, l’erroneità dell’azione accertatrice, l’illegittimità dell’acquisizione degli elementi posti a base delle contestazioni, l’illegittimità dell’accertamento per inesistenza di ogni reddito tassabile.

Il giudice di primo grado, riuniti i ricorsi, aveva accolto e ragioni con sentenza n. 45/11/2013. La Commissione tributaria regionale del Piemonte ha accolto invece l’appello dell’Agenzia delle entrate con la sentenza ora al vaglio della Corte.

Il giudice regionale, dopo aver esposto le rispettive posizioni, ha ritenuto provati i fatti contestati ai contribuenti, tenendo soprattutto conto delle dichiarazioni rese dagli interessati. Ha ritenuto che le ragioni dei contribuenti non potessero trovare accoglimento neppure con riferimento alle critiche sollevate sulle sanzioni.

I P. hanno censurato la decisione affidandosi a sei motivi.

Con il primo per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, mancando la sentenza del requisito essenziale della succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto della decisione;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver considerato che P.S. aveva dato prova che l’incremento del conto, cointestato al padre, non era riconducibile a redditi sottratti a tassazione;

con il terzo per violazione dell’art. 11 disp. gen. c.c. e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente applicato retroattivamente il D.L. n. 78 del 2009, art. 12, entrato in vigore l’1 luglio 2009;

con il quarto per violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 67, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver violato il divieto di doppia imposizione;

con il quinto per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per non aver attentamente considerato il documento relativo al conto estero;

con il sesto per violazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver correttamente applicato la disciplina sanzionatoria.

Hanno pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con ogni conseguenziale statuizione.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato il ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Nell’adunanza camerale del 12 gennaio 2021 la causa è stata trattata e decisa. Il P.G. ha depositato in cancelleria conclusioni scritte.

E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo i ricorrenti si dolgono della carenza, in sentenza, del requisito essenziale della succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto della decisione, a tal fine richiamando l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, l’art. 36, comma 2, della disciplina sui contenzioso tributario, l’art. 118 disp. att. c.p.c..

L’invocazione delle suddette norme evidenzia senza equivoci che il motivo sia diretto a denunciare un vizio processuale della decisione, che inficerebbe, qualora fondato, la validità stessa dei provvedimento, sicchè il richiamo all’ipotesi prevista dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, del in luogo dell’ipotesi contenuta nel n. 4 della medesima norma, è da ritenersi una mera svista, che certo non incide sull’ammissibilità dei motivo.

Ciò chiarito, il motivo è tuttavia infondato, atteso che, a differenza di quanto pretende la censura, la sentenza riporta esaustivamente i fatti di causa, le questioni giuridiche emerse, le ragioni della decisione, illustrate in maniera succinta ma essenziale e comprensibile. Nessun vizio, incidente sulla validità della sentenza, può essere dunque riconosciuto.

Con il secondo motivo si denuncia un vizio di motivazione, per non aver considerato che P.S. aveva dato prova che l’incremento del conto, cointestato con il padre P.G., non era riconducibile a redditi sottratti a tassazione. A tal fine si afferma che vi sia stata una falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12.

Con il terzo motivo si invoca un errore di diritto, affermandosi l’erronea applicazione retroattiva del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, per essere entrata la norma in vigore l’1 luglio 2009, e dunque in epoca successiva alle illegittime condotte fiscali contestate ai contribuenti, con violazione tanto dell’art. 11 disp. gen. c.c. quanto della L. 212 del 2000, art. 3.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente, perchè, pur riconducendosi l’uno ad un vizio di motivazione e l’altro ad un errore di iritto, attengono, sotto diverse prospettive, alla medesima questione, sicchè sono tra loro connessi.

Esaminando per ordine logico il terzo motivo, senza che sia necessario un approfondito esame della questione in questa sede, è qui sufficiente evidenziare che questa Corte ha affermato, con orientamento da ritenersi ormai consolidato, che la presunzione di evasione sancita dal D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, non è suscettibile di essere applicata retroattivamente agli anni di imposta antecedenti alla sua entrata in vigore, stante la natura sostanziale e non procedimentale delle presunzioni. D’altronde una differente interpretazione sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., perchè pregiudicante l’effettività del diritto di difesa del contribuente (cfr. Cass., 2/02/2018, n. 2662; 29/11/2019, n. 31243; 19/12/2019, n. 33893). Con orientamento altrettanto consolidato si è però anche affermato che l’irretroattività della presunzione legale introdotta con l’art. 12 cit. non esclude che l’Ufficio possa ricorrere ai medesimi fatti oggetto della presunzione legale – redditi non dichiarati occultamente detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata – sotto la diversa prospettiva probatoria della presunzione semplice (Cass., 33893/2019; 31243/2019, cit.). E a tal fine deve anche tenersi conto che in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purchè grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi (Cass., 22/12/2017, n. 30803; 26/09/2018, n. 23153; 14/10/2020, n. 22184).

Ciò chiarito, il terzo motivo non coglie nel segno perchè la motivazione con la quale il giudice regionale ha ritenuto provati i fatti addebitati ai contribuenti non ricorre affatto alla presunzione legale di cui all’art. 12 cit. in modo sintetico la Commissione regionale ha evidenziato e apprezzato che “nel caso in esame i dati che l’Ufficio ha utilizzato al di là dell’imput iniziale hanno trovato esplicita conferma nelle dichiarazioni rese dagli interessati. Addirittura il signor P. ha prestato acquiescenza al PVC salvo poi non provvedere al pagamento e proporre opposizione. Ora pur volendo il collegio confermare la legittimità delle impugnazioni originariamente proposte, tuttavia per quanto riguarda il merito ogni disquisizione deve cedere il passo di fronte alla constatazione che il riconoscimento dei fatti contestati è fuori discussione.”. Ebbene, quand’anche negli atti impositivi l’Amministrazione finanziaria ha fatto riferimento anche alla presunzione legale, non è stato questo il supporto probatorio utilizzato dall’organo giudicante ai fini della valutazione della vicenda, avendo al contrario apprezzato le dichiarazioni di ammissione dei fatti rese dal P.. Sotto tale profilo la decisione non è pertanto inficiata da errori di diritto.

Se poi con il motivo i ricorrenti hanno inteso sostenere che l’atto impositivo fosse fondato sulla sola efficacia retroattiva della presunzione legale introdotta dall’art. 12 cit., occorreva muovere alla sentenza una critica diversa, denunciando l’errata interpretazione, da parte dell’organo giudicante, delle prove a supporto dell’atto impositivo, ma ciò non è avvenuto.

Neppure il secondo motivo trova accoglimento. Va intanto evidenziato che la sentenza è stata depositata nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Con esso non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, ma il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Sicchè con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 29/10/2018, n. 27415). Nel caso di specie, secondo quanto si evince dalla motivazione della sentenza, il fatto storico, la tenuta di un conto presso una banca elvetica senza aver adempiuto agli obblighi fiscali previsti dalla disciplina nazionale, era stato esaminato dal giudice di merito e ritenuto provato in forza delle notizie acquisite dall’amministrazione fiscale francese (dalla cd. lista Falciani) e delle dichiarazioni di ammissione del P.G., che aveva chiesto la definizione con adesione delle posizioni contestate, salvo poi a mutare idea e non provvedere al pagamento.

Quand’anche in ogni caso si volesse superare l’inammissibilità del motivo sotto questo aspetto, con esso la difesa della parte ricorrente, invocando taluni supposti elementi probatori – le dichiarazioni di P.S., di cui peraltro, sotto il profilo dell’autosufficienza del ricorso, manca la prova della loro tempestiva allegazione al processo e che si rivelano tutt’altro che chiare nel contenuto – pretende in concreto un riesame nel merito dei fatti di causa, inibito in sede di legittimità, per cui il motivo resta comunque inammissibile.

Con il quarto motivo ci si duole di un errore di diritto, perchè con la sentenza sarebbe stato violato il divieto di doppia imposizione, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67. Lamenta in particolare parte ricorrente che con l’accertamento operato nei confronti del P.G., a cui sarebbe stata imputata la presunzione di redditività dell’intero ammontare della consistenza del conto estero, si sarebbe realizzata una parziale duplicazione degli accertamenti a carico del coniuge L.A.. 11 motivo di censura si infrange sulla semplice considerazione che l’esito dell’accertamento ha ricondotto ai solo P.G. l’intero ammontare delle provviste depositate sul conto. E d’altronde, a conferma della circostanza appena evidenziata, alla L.A., estranea a questo giudizio, sono state addebitate violazioni di carattere formale, senza alcun addebito di evasione.

Con il quinto motivo si sostiene l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per non aver attentamente considerato il documento relativo al conto estero. A parte che anche in questo caso il motivo sarebbe inammissibile, mancando di autosufficienza per non aver indicato in quale atto e in quale momento del giudizio di merito la cd. “finche” (la “fiche” bancaria), che riproduce l’intestazione del conto estero, fosse stata allegata al processo, esso non illustra neppure quale finalità e quale incidenza avrebbe avuto sulla sorte del giudizio il suddetto esame, e dunque la sua decisività. Deve dunque comunque dichiararsi l’inammissibilità del motivo.

Con il sesto infine i contribuenti lamentano l’erronea applicazione della disciplina sanzionatoria, con violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12. Sostengono che il giudice regionale, non accogliendo le censure rivolte agli atti fiscali circa le modalità di calcolo delle sanzioni applicabili, non avrebbe tenuto conto che l’art. 12 cit. prevede l’applicazione di un’unica sanzione, debitamente elevata, anche nell’ipotesi di violazioni della stessa indole commesse in più periodi d’imposta. La difesa invoca l’applicazione dei regime della continuazione ai fini delle modalità di calcolo delle sanzioni, secondo quanto prescritto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, comma 5.

Tenendo conto che nei confronti del P.S. è residuata la sola contestazione relativa all’anno 2006, la questione proposta deve riguardare esclusivamente la posizione del P.G.. L’Agenzia ha controdedotto che, applicando la continuazione e tenendo conto delle sanzioni per ciascun anno, il regime della continuazione avrebbe in concreto aggravato la sanzione comminata complessivamente al P.G.. Tenendo conto che la sanzione base applicabile è quella relativa alla prima annualità contestata (Euro 21.759,13), mentre le successive sono sensibilmente più tenui (rispettivamente Euro 2.065,96 per il 2006 e Euro 2.126,90 per il 2007), l’applicazione della continuazione (aumento della metà al triplo della sanzione base) sarebbe stata sfavorevole al contribuente. Correttamente dunque il giudice regionale, in assenza di ragioni diverse e più specifiche sul punto, ha ritenuto di confermare le determinazioni sanzionatorie già modificate a seguito delle modifiche introdotte con L. 6 agosto 2013, n. 97.

In conclusione il ricorso va rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza dei ricorrenti nelle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 7.800,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

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