Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 16009 del 09/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/06/2021, (ud. 12/01/2021, dep. 09/06/2021), n.16009

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7618-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrenti –

e da:

A.C., D.G.N. & C SAS IN LIQUIDAZIONE,

D.G.N., elettivamente domiciliati in ROMA, Piazza Cavour

presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati e

difesi dall’avvocato PIERGIOVANNI MORI;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 2424/2014 della COMM. TRIB. REG. TOSCANA,

depositata il 11/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/01/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 2424/17/2014, depositata l’11.12.2014 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, che, confermando la decisione del giudice di primo grado, aveva accolto il ricorso della D.G.N. & C s.a.s. in liquidazione, nonchè dei soci D.G.N. e A.C., avverso gli avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2007 e 2008, con cui l’Ufficio aveva ripreso a tassazione la plusvalenza realizzata, e solo parzialmente dichiarata, relativa alla cessione d’azienda.

L’Agenzia ha riferito che nel 2004 la società aveva ceduto a terzi (alla società (OMISSIS), successivamente fallita) il complesso di beni aziendali destinati ad attività di preparazione e somministrazione al pubblico di alimenti e bevande. A tal fine era stato dichiarato il prezzo di Euro 120.334,42 (sulla cui indicata plusvalenza la contribuente ai fini fiscali aveva richiesto la rateizzazione del pagamento). A seguito di verifica dell’Ufficio del Registro il valore della cessione era stato invece rideterminato in Euro 211.648,00. Con accertamento per adesione il procedimento era stato definito al valore di Euro 157.150,00. Sennonchè l’Agenzia delle entrate aveva a sua volta proceduto ad accertare la plusvalenza conseguita dall’operazione nei confronti della società cedente, tenendo conto del maggior valore dell’azienda, per come rideterminato e definito dall’Ufficio del registro, rispetto al dichiarato. Erano dunque seguiti gli atti impositivi nei confronti della società di persone nonchè dei soci per il recupero delle maggiori imposte, rateizzate in più annualità (2004/2008).

I contribuenti avevano pertanto impugnato gli avvisi di accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Firenze. Un primo giudizio afferiva agli anni d’imposta 2004/2006. Quello ora all’attenzione della Corte era relativo agli atti impositivi per le annualità 2007 e 2008.

Il giudice di primo grado aveva accolto le ragioni dei ricorrenti con sentenza n. 21/02/2013. L’Agenzia delle entrate aveva appellato la sentenza dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana, che con la pronuncia ora impugnata aveva rigettato le ragioni dell’Ufficio. Il giudice regionale ha affermato la diversità dei criteri di determinazione dei valore di un bene in rapporto all’imposta di registro e in riferimento alle imposte dirette, ritenendo in ogni caso provato dalla società cedente il prezzo del corrispettivo.

L’Ufficio ha censurato la sentenza con due motivi:

con il primo per nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1986, n. 546, artt. 36, 53 e 61, nonchè dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, trattandosi di motivazione apparente, risolvendosi in affermazioni puramente assertive;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1986, artt. 2 e 35, nonchè degli artt. 112,115 e 277 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, perchè, disponendo l’annullamento integrale dell’atto impositivo, aveva omesso di procedere ad un accertamento nel merito della pretesa tributaria, rideterminandone l’entità.

Ha dunque chiesto la cassazione della decisione, con ogni conseguente statuizione.

Si sono costituiti i contribuenti, contestando l’ammissibilità e comunque le ragioni del ricorso, di cui hanno chiesto ii rigetto. Hanno inoltre spiegato ricorso incidentale con due motivi:

con il primo per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sull’appello incidentale, con il quale la società e i soci avevano censurato la decisione di primo grado in ordine alla compensazione delle spese processuali;

con ii secondo per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36, e dell’art. 92 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, per aver compensato le spese del giudizio d’appello, nonostante la soccombenza integrale dell’appellante.

Hanno pertanto chiesto la cassazione della sentenza con decisione sulle spese processuali dei gradi di merito.

Nell’adunanza camerale del 12 gennaio 2021 la causa è stata trattata e decisa.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo del ricorso principale l’Agenzia delle entrate si è doluta della pronuncia perchè supportata da motivazione apparente, fondata, secondo la prospettazione difensiva, su clausole di stile e su affermazioni puramente assertive, inidonee ad un controllo dell’iter logico seguito.

Sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonchè quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sui piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento. Ed in sede di gravame la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata; va invece cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19/07/2016, n. 14786; 7/04/2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve infatti ritenersi apparente quando, ancorchè graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia dei “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 (Cass., 30/06/2020, n. 13248; cfr. anche 5/08/2019, n. 20921). L’apparenza peraltro si rivela ogni qual volta la pronuncia evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14/02/2020, n. 3819).

Nel caso di specie, diversamente da quanto preteso dalla ricorrente, il giudice regionale, sia pur sinteticamente ha chiarito che la conferma della decisione assunta dal giudice di primo grado era corretta per aver valorizzato la documentazione allegata dai contribuenti sulla predeterminazione del prezzo di cessione dell’azienda, così come concordata nell’atto di concessione in affitto dell’azienda, stipulato nel 2000. In tale atto le parti avevano anche dettagliatamente regolato l’ipotesi che l’affittuario volesse acquistare l’azienda medesima al termine del contratto di locazione (2005), oppure anche nel corso della locazione. Inoltre ii giudice regionale, a fronte delle affermazioni dell’Ufficio, secondo cui gli esiti dell’accertamento del valore del bene ai fini dell’imposta di registro sono vincolanti per accertare la plusvalenza

conseguita ai fini delle imposte dirette, ha rammentato, al contrario – richiamando la giurisprudenza formatasi in materia – la sussistenza dei diversi principi che presiedono la determinazione dei valore dei bene per l’imposta di registro da quelli preposti all’accertamento della plusvalenza per le imposte dirette. Le affermazioni del giudice regionale sono coerenti con quanto successivamente disposto dal D.Lgs. n. 147 dei 2015, art. 5, comma 3, in forza del quale “Gli artt. 58,68,85 e 86 T.U.I.R., approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 5,5 bis, 6 e 7, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonchè per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347.”. A seguito dell’intervento legislativo, la cui norma costituisce interpretazione autentica della previgente disciplina con efficacia dunque retroattiva, questa Corte ha affermato che ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi l’art. 5 cit. esclude che l’Amministrazione possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro (cfr. Cass., nn. 9513 del 2018; 19227 del 2017; 12265 del 2017; 6135 dei 2016; 11543 del 2016).

Dunque va esclusa l’apparenza della motivazione, perchè la sentenza non solo riprendeva un orientamento interpretativo, successivamente tradottosi in una norma di interpretazione autentica della disciplina in materia, ma apprezzava anche le allegazioni probatorie dei contribuente, che escludevano la non veridicità, ai fini delle imposte dirette, del valore dichiarato in contratto.

Il motivo va dunque rigettato.

Con il secondo motivo l’Agenzia delle entrate, sempre denunciando un vizio processuale di nullità della decisione, ha lamentato una omessa pronuncia, essendosi limitata la Commissione regionale ad annullare gli atti impositivi, senza invece procedere alla rideterminazione della plusvalenza. In particolare ha sostenuto che, pur accogliendo le ragioni dei contribuenti in ordine alla determinazione del valore di cessione dell’azienda, ciò avrebbe dovuto comportare una riduzione della maggiore plusvalenza pretesa dall’Ufficio, perchè con l’accertamento era stato contestato non solo il maggior corrispettivo di cessione, ma anche l’assenza di passività residue da ammortizzare, così che la plusvalenza non corrispondeva a quanto dichiarato dalla società cedente (Euro 29.320,00) ma all’intero importo del corrispettivo.

Il motivo è fondato. Premesso che in tema di errores in procedendo il giudice di legittimità è anche giudice del fatto, deve evidenziarsi che dagli atti allegati, compreso l’atto impositivo, risulta che l’Amministrazione finanziaria aveva rideterminato la plusvalenza non solo tenendo conto del maggior valore di cessione accertato ai fini dell’imposta di registro, ma anche considerando che, secondo la sua prospettazione, per l’azienda ceduta non emergevano più costi ammortizzabili. Ed infatti la plusvalenza era stata rideterminata in misura corrispondente all’intero importo del corrispettivo. L’oggetto della controversia era dunque circoscritto dalla pretesa contenuta nell’avviso di accertamento e dalle specifiche contestazioni a questo rivolte dalla contribuente con il ricorso introduttivo. Ed a tal fine, anche in sede d’appello, la semplice insistenza dell’Amministrazione finanziaria nella sua pretesa, pur senza ulteriori specificazioni, era sufficiente a identificare e circoscrivere l’oggetto d’indagine del giudice adito nella prospettiva dell’ente creditore (in rapporto delle specifiche critiche sollevate dalla contribuente avverso l’atto impositivo).

Ebbene, tenendo conto del carattere del processo tributario, quale processo di “impugnazione-merito” (già Cass., 10/02/2004, n. 3309; tra le più recenti 10/09/2020, n. 18777), ii giudice regionale, pur tenendo conto di un corrispettivo pari a quello -di Euro 120.334,32- dichiarato dalla cedente, non poteva annullare, sic et simpliciter, l’atto impositivo. Su di lui invece incombeva un giudizio complessivo, il cui esito poteva condurre, a fronte del contenuto dell’atto di accertamento e nei limiti dei motivi del ricorso introduttivo e del loro fondamento, all’annullamento dell’atto impositivo oppure solo alla rideterminazione della plusvalenza. La decisione sotto tale profilo è del tutto omissiva e va cassata.

Esaminando ora il ricorso incidentale, con il primo motivo i contribuenti hanno denunciato l’omessa pronuncia sull’appello incidentale, con il quale la società e i soci avevano censurato la decisione di primo grado in ordine alla compensazione delle spese processuali. Il motivo trova accoglimento atteso che la compensazione delle spese dinanzi al giudice di primo grado era stata oggetto di specifico motivo di appello incidentale da parte dei contribuenti. A fronte della censura il giudice d’appello non ha assunto alcuna decisione, neppure implicita, semplicemente omettendo l’esame del motivo. La censura trova pertanto accoglimento.

Con il secondo motivo i ricorrenti incidentali censurano la decisione per aver deciso sulle spese con l’integrale compensazione. Il motivo è assorbito dall’accoglimento, nei termini descritti, del ricorso principale e di quello incidentale, e dunque dalla cassazione della sentenza impugnata, dovendo di nuovo provvedere sulle spese il giudice dei rinvio.

La sentenza in definitiva va cassata in riferimento ai motivi accolti e ii processo va rinviato alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, che, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, deciderà delle questioni non trattate nel precedente grado d’appello.

PQM

La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale. Rigetta il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbito il secondo motivo del ricorso incidentale. Cassa la decisione e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021

 

 

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